Giuseppe Franceschin
Isola d'Istria (sec. XI -XIII)
Isola d'Istria è una cittadina della Slovenia situata sulla costa, tra Capodistria e Pirano. Il centro storico è caratterizzato da strette calli in salita che trovano respiro nella piazzetta del duomo dei santi Mauro e Donato. Il nome deriva dal fatto che il luogo era effettivamente un'isola: caratteristica venuta a mancare nel primo '800 con la colmata del corso d'acqua che la separava dalla terraferma. Un tempo, Isola contava un paio di conventi e una dozzina di chiese. Attualmente se ne contano cinque, tra le quali l'antica battesimale di S. Maria. In epoca romana, Isola era chiamata Allieto ed era nota per il suo porto. Durante le invasioni barbariche fu uno dei rifugi per gli aquileiesi in fuga (1). Isola compare, per la prima volta nel 972, come luogo infeudato dall'imperatore Ottone I a Vitale Candiano, fratello del doge di Venezia. Successivamente (976) fu feudo del patriarca Rodoaldo e, come tale, confermato dall'imperatore Ottone II (2). Con l'atto di donazione del patriarca Popone del 1036, divenne uno dei possessi feudali del monastero delle benedettine di Aquileia:
(...) et in comitatu Histriensi in loco qui vocatur Insula cum placitis et suffragiis et omnibus angariis publicis ad praedictam ecclesiam Sanctae Mariae pertinentibus (3).
Le precisazioni contenute nel diploma poponiano non lasciano dubbi sul carattere feudale del possesso di Isola. Tale rapporto risulta inoltre da un documento del 1165 con il quale l'abbadessa Williberga col suo vicedomino, concede agli Isolani di trasferire l'abitato sul monte Albuciano, a condizione che resti assicurato da parte loro il censo di 100 orne di vino e mantenuto il diritto, l'onore e la giustizia. Il monastero da parte sua promette, aiuto, consiglio e difesa della proprietà sia in Isola come sul monte Albuciano. Una decina d'anni dopo, nella conferma del papa Alessandro III di data 27.4.1174, oltre ai censi e diritti feudali originari, risultano aggiunte, la cappella di S. Pietro di Isola con le sue decime e le decime già spettanti al vescovado di Capodistria. 1. In comitatu Histrien, locum qui vocatur Insula cum placitis, suffragiis et omnibus angariis publicis et omnibus pertinentiis suis. 2. Decimas et cappellam Sancti Petri de Insula, quam tergestinus Episcopus ecclesiae Sanctae Mariae perpetuo habendum tradidit. 3. Proventus decimarum de Insula, quos nobilis vir Comes Hengelbertus de Goriza a Tergestina ecclesia in feudum habuit et in manibus venerabilis fratris nostro Vodolrici Aquileien patriarchae apostolicae sedis Episcopus, monasterio vestro rationabiliter contulit et praedictus Patriarca confirmavit vobis et per vos monasterio vestro in perpetuum (4). Le nuove entrate provengono dalla (discussa) liberalità del vescovo Bernardo di Trieste che all'epoca governa pure Capodistria, già sede diocesana. Le decime ex vescovili (già tenute in feudo dal conte Engelberto di Gorizia, trasferite al monastero per sua rinuncia e per volere del vescovo, col consenso e l'avvallo del patriarca) costituiranno il principale motivo di una serie interminabile di contestazioni e processi, con appelli, rifiuti di pagamento, sia da parte del comune di Capodistria, come da parte della popolazione e del vescovo Adalgero. Appena ricevute in dono, l'abbadessa Ermelinda pensa bene di infeudare le decime a persona di sua fiducia, Almerigo di Muggia. Il buon rapporto tra le parti si mantiene fino a quando il beneficiario procede alla vendita delle decime a terzi, senza licenza dell'abbadessa. Ne nasce una controversia, che si conclude col pagamento dell'ammenda da parte di Almerigo (1173). Una decina d'anni più tardi (1184) i nuovi vassalli non onorano appieno l'obbligo feudale nei confronti del monastero. Anche in questo caso i giudici Pellegrino arcidiacono di Aquileia e Olrico di Pomburch, pronunciano una sentenza a favore dell'abbadessa. Dal 1182 è vescovo della ripristinata sede di Capodistria, Adalgero. Tra i suoi primari impegni vi è il ricupero delle decime spettanti a quel vescovado. Un primo ricorso al papa determina una sentenza a lui favorevole da parte del delegato apostolico, il vescovo Gerardo di Padova (1188). Accade poi che, contro la sentenza, le monache si appellino al papa, il quale affida l'incarico al vescovo Romolo di Concordia di riesaminare la questione e decidere in merito. Il 27.10.1189 il giudice deputato annulla la sentenza precedente. Riconosce alle monache il diritto alle decime e impone al vescovo Adalgero il perpetuo silenzio. La decisione è motivata dal fatto che le decime in questione, tenute a lungo da laici contro i canoni, furono consegnate, intuitu pietatis, alle religiose con l'intervento del patriarca Odolrico e di Wernardo, vescovo di Trieste e Capodistria. Il patriarca Godofredo, nel documento di conferma, ricordando quanto siano onerose per le case religiose questo genere di controversie, dichiara di aver stabilito che, a titolo di rimborso spese di appellazione, l'abadessa debba dare al vescovo dieci marche e, a ricordo (signum) dell'avvenuta transazione, una libbra d'incenso all'anno. Un verbale d'interrogatorio di alcuni testimoni, di incerta data, ci dà un'idea di quali fossero gli umori dei Capodistriani nella contrastata vicenda delle decime episcopali.
Un canonico dichiara che era opinione comune nella chiesa Justinopolitana che Wernardo, da uomo incompositus, inordinatus, dissipator et consumptor bonorum ecclesiae qual era, vendette le decime al monastero unicamente per denaro. Molto egli fece per distruggere quest'episcopato, com'ebbe modo di sentire in un suo colloquio a Venezia con il patriarca Vodolrico. All'epoca, molto si discusse se quel vescovo avesse la potestà di disporre delle cose spirituali e temporali di quell'episcopato. L'arcidiacono di Capodistria afferma che, dopo la sentenza di Padova, furono in molti a cercare di convincere il vescovo affinchè nella maniera più assoluta rifiutasse ogni patteggiamento con l'abbadessa di Aquileia in materia di decime. Un altro teste dichiara che le decime in questione furono vendute da Adalgero e che egli stesso fu presente presso la chiesa di Mutone all'esborso di dieci marche d'argento da parte dell'abbadessa, con la promessa che avrebbe consegnato ogni anno una libbra d'incenso sull'altare di S. Maria.
Al principio del '200, ancora una volta, il vescovo di Capodistria rivendica il diritto alle decime episcopali. Ci è noto, a questo proposito, un tentativo di accomodamento davanti al vescovo di Padova, ma, pare, senza esito. Circa le decime di Isola abbiamo diverse conferme speciali da parte di patriarchi e di papi. Tra questi: Alessandro III (1174), Lucio III, Urbano III, Clemente III, Celestino III, Innocenzo III (1199). All'epoca, Isola, soggetta al potere patriarcale ma con stretti legami militari ed economici con Venezia, cresce d'importanza specie come porto di mare. Da sobborgo di Capodistria, si trasforma in fortezza, con chiesa elevata a battesimale (1212); quindi, intorno alla metà del '200, si costituisce in municipalità con propri statuti, consiglio, podestà e funzionari. Le municipalità medievali sono comunità rette da rappresentanti del popolo e quindi libere dai condizionamenti feudali: una conquista che Isola realizza progressivamente, con successivi colpi di mano, debolmente contrastata dal monastero e da questo mai riconosciuta. Nel 1220 la comunità procede autonomamente alla nomina del gastaldo. L'eletto Adeloldo chiede di essere confermato dalla abbadessa, ma riceve un netto rifiuto. A questo punto, l'eletto confessa la grave offesa arrecata e si dichiara pronto a pagare il debito previsto in tali casi. Soddisfatta, l'abbadessa Giselrada acconsente a investire Adeloldo della carica di Gastaldo, ma alle condizioni imposte dal monastero.
Aquileia 25.11.1220, presenti tre canonici, il notaio, un giurato d'Isola ed altri.(...) Premesso che l'investitura fu negata perchè l'elezione fu fatta senza la presenza dell'abadessa o di un suo nunzio; considerato che l'eletto gastaldo pagò il "vadio offensionis", si concede l'investitura al predetto Adoldo per tre anni, a partire dalla festa di S. Andrea prossima ventura. S'intende che egli dovrà reggere bene la gastaldia e senza frode. Per l'avvenire, mai sarà eletto un gastaldo sine verbo dell'abadessa pro tempore; la sua designazione avverrà sul luogo con l'intervento dell'abadessa o suo nunzio e il consiglio della parte più anziana degli uomini d'Isola. Spetterà poi all'abadessa investire il prescelto del gastaldionato, ricevendone le solite onoranze. La pena per ogni trasgressione sarà di 10 marche d'argento puro.
Riguardo le cariche locali, il diritto ai proventi e lo stato civile degli Isolani in rapporto a Capodistria, abbiamo un'importante sentenza arbitrale, preceduta da solenne giuramento circa l'osservanza della stessa.
Curia del monastero 19.10.1225. Arbitri, il canonico Pellegrino di Aquileia e Warino de Ponte di Capodistria. L'abbadessa avrà libera potestà e il dovere di imporre in Isola il Gastaldo, i Giudici, le Regalie, i Giurati e il notaio. Capodistria rimarrà come sede di appello, more solito. Il monastero manterrà il diritto ai soliti proventi dalla terra d'Isola; gli Isolani continueranno ad essere anche cittadini di Capodistria; in collectis et expeditionibus si comporteranno come al solito e secondo l'uso di quella città
Negli anni successivi, l'abbadessa Merigarda e il vicedomino Pietro, cappellano del monastero, incontrano crescenti e ripetuti ostacoli all'esercizio della giustizia. Nel 1226 i giudici del luogo non accettano l'attestato del vicedomino nel quale si dichiara che un tale di Isola è suddito dell'abbadessa e del monastero di Aquileia. Contro tale rifiuto il vicedomino si appella ai giudici di Aquileia che gli danno ragione. Nel 1227 l'abbadessa è decisa a licenziare l'officiale del luogo perchè non compie il suo dovere, ma di fronte all'opposizione della comunità è costretta a ricorrere al patriarca, ottenendo una sentenza a lei favorevole. Nel 1228, il vicedomino è deciso ad infliggere una severa condanna per furto contro due donne del luogo. Anche in questo caso, di fronte all'opposizione della comunità viene inoltrato appello al patriarca come marchese d'Istria. Più tardi (1261), un Isolano, contro una sentenza a lui contraria vuole ricorrere al vescovo di Capodistria, ma il giudice-gastaldo insiste affinchè si rivolga al patriarca. Nel 1247 gli Isolani, violando i patti, eleggono podestà Provenzano di Capodistria. Vi si oppone l'abbadessa Erburga che intima al comune di licenziare l'eletto, e all'eletto che deponga la carica. Nel contempo vieta ai notai di convalidare qualsiasi atto presentato a suo nome e invita la città di Capodistria a ritirare il soggetto dalla podestaria di Isola (4). Nel 1260 il podestà e comune di Isola nomina gastaldo Giovanni Bonvino. Richiesta di confermarlo nella carica, l'abbadessa Iltigonda risponde di voler acconsentire, ma solo a condizione che siano rispettate le clausole del concordato del 1225. Il 19.1. gennaio 1260, convenuto alla presenza dell'abbadessa, il Bonvino dichiara di accettare l'incarico per tre anni. In quanto all'onoranza, si dice disposto a versare 10 orne di vino all'anno, considerando che gli Statuti di Isola, non consentono l'accumulo di uffici. Dopo breve consultazione, l'abadessa dichiara:
Il Podestà e il Comune hanno contravvenuto alla sentenza arbitrale già accettata dalle parti, sotto pena di 100 (?) marche. Proibisco, pertanto, sub pena predicta, al Podestà, al Comune e a lei Giovanni Bonvino di intromettersi nell'ufficio predetto e nella mia giurisdizione.
Nel 1267, Isola, con Capodistria, si ribella al patriarca. Occupata da Venezia nel 1280 si sottomette alla Serenissima Repubblica, ottenendo il rispetto dell'autonomia amministrativa. Nella prima metà del '400, un funzionario di Venezia, noterà che fu il dominio della Serenissima a togliere al monastero la giurisdizione feudale su Isola, pur riconoscendo il diritto delle monache di riscuotere i censi. In effetti, dal 1280, i documenti che la riguardano non registrano atti di esercizio della piena potestà feudale da parte delle monache di Aquileia. Occorre tuttavia sottolineare che si trattò di una cessazione di fatto, mai dichiarata in linea di diritto. Basti dire che nel 1420 il doge Tommaso Mocenigo riconoscerà per intero i diritti (feudali) del monastero su Isola, così come elencati dal patriarca Bertoldo nel 1229 (5).
1. D. Alberi, Istria, storia, arte, cultura, Lint, 2001, 2a ed. Kandler, Chiese e cappelle d'Isola e del suo territorio, in L'Istria. 2. BCV, ms.707, ed. in M.T. Barbina, Diplomi, cit. 3. M.T. Barbina, Diplomi, cit. R. Hotel, Aggiunte, cit. 1, R. Hotel, 4. R. Hotel, Aggiunte, cit. 5, M.T. Barbina, Diplomi, cit. R. Hotel. La foto della Cappella di S. Pietro mi fu gentilmente inviata dalla maestra Maria Cocjancič. 5. Per la storia d'Isola, vedi Kandler, Diploma Isolano del 1189 e Altri diplomi che riguardano Isola, in Istria 1852. L. Morteani, Isola e i suoi statuti, in Atti e memorie della Società Istriana di archeologia e storia patria, 1887,88,89. Nel riconoscimento da parte del monastero del gastaldo Adeldo (in quanto cittadino d'Isola, 1220), l'autore vede un'importante affermazione dei diritti comunali da parte di quella comunità. Dal riconoscimento dell'appello a Capodistria come consuetudinario, lo stesso autore deduce che Isola godeva in materia giudiziaria di una libertà pari a quella degli altri comuni (1225); inoltre afferma che con la nomina del gastaldo da parte del podestà locale (1260), il monastero perdette ogni diritto di dominio su Isola, conservando solo alcune rendite decimali. F. Stener, Isola d'Istria e il monastero di S. Maria di Aquileia, in GAA, Poppone, l'età dell'oro del Patriarcato di Aquileia, Roma 1997. Dal documento di Popone e successivi, l'autore deduce che al monastero di Aquileia non fu mai concesso il dominio sull'Isola, ne mai lo ebbe. Al monastero è riconosciuto soltanto il diritto di censo e delle decime aggiunte posteriormente. Confr. pure: G. Russignan, Isola d'Istria ed il monastero di S. Maria di Aquileia, breve rassegna storica, Trieste 1987.
Santa Maria di Aquileia - Monastero, Chiesa e Cura d'Anime Edizioni della Laguna
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