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Tra vocazione
educativa e intenti commerciali: le prime esposizioni triestine
dell'Ottocento
Donata Levi
Tra i quattordici punti che Melchior Missirini elencava nel 1823 nelle
sue Memorie sulla romana Accademia di San Luca per motivare
l'opportunità, poi sfumata, di allestire una nuova e più ampia sala
espositiva, i primi tre riguardavano i vantaggi che ne sarebbero venuti
al mercato artistico: alla maggior opportunità di scelta per i compratori e a un ridimensionamento delle frodi dei negozianti, si sarebbe
accompagnata la possibilità di eliminare intermediazioni,
particolarmente onerose per gli artisti alle prime armi. Negli altri
undici, l'accento cadeva su principi ideali, quali la democraticità
dell'iniziativa - riconoscendo alle "arti" una naturale vocazione
pubblica e popolare -, il beneficio che veniva agli artisti da un sano
esercizio critico, il contributo al decoro e alla gloria dell'intera
nazione, il suo valore per l'educazione civile ed artistica del pubblico1.
Più di un ventennio dopo, nel 1847, Carlo D'Arco, illustratore di
memorie mantovane e già autore di una biografia di Giulio Romano2,
riferendosi alle esposizioni organizzate dalle Società promotrici -
recentemente formatesi, sull'esempio dell'asburgica Trieste, in varie
città italiane -, distingueva nettamente i due aspetti, "quello cioè che
riguarda al materiale interesse che ne deriva agli artefici; e quello
tutto morale che giovar dovrebbe alle arti"3.
Mentre una tabella attestava gli introiti che queste esposizioni avevano
portato agli artisti, assai deludenti apparivano i risultati "rispetto
all'utilità morale" delle società e della loro principale e talora unica
attività, quella espositiva. Come già aveva rilevato due anni prima
Pietro Selvatico a proposito dell'esposizione fiorentina4,
anche D'Arco lamentava la proliferazione de "l'arte di genere, i paesetti, le vedutine, le fiammingate" e la mancata adesione ai "bisogni spirituali dell'arte ed alla gloria vera della nazione",
sottolineando che proprio queste nuove associazioni - le Promotrici -
avevano finito per favorire economicamente "quegli artisti che, non
ispirati dal genio non avrebbero trovato come spacciare altrimenti le
meschine loro opere"5. Le esposizioni promosse da queste nuove associazioni, assai più di
quelle di matrice accademica, mettevano a nudo le tendenze di una
domanda di mercato volta a una produzione meno impegnata ideologicamente
e più consona (quanto a dimensioni e soggetti) alla decorazione degli
interni borghesi.
La delusione, da parte della critica, di fronte alle potenzialità
individuate nelle nuove istituzioni, si era consumata nel giro di
pochissimi anni ed era stata tanto più cocente in quanto, proprio nel
carattere associativo delle Promotrici, si era ipotizzato un possibile
aggancio con la riforma nell'arte tre-quattrocentesca additata in ambito
puristico come modello didattico e operativo. Scriveva Selvatico nel
1845, rievocando la sua speranza, andata ormai delusa di fronte alle
"donne seminude", alle commerciali vedute di Venezia e di Firenze, alle
"tele per sì fatto modo tinte di giallo e di rosso, da rincarare le
sostanze che producono que' colori"6
dell'esposizione organizzata dalla Promotrice fiorentina: "ricordandomi
quanto lo spirito d'associazione avesse potuto operare nella Firenze del
medioevo, mi crebbe speranza che codesta istituzione potesse e dovesse
ben più che in altri paesi fiorire e portar quindi l'arte toscana a
stato migliore"7
. Ancora nel 1842, nelle considerazioni Sull'educazione del pittore
storico odierno italiano, Selvatico indicava utopisticamente il
ruolo di mecenatismo illuminato e disinteressato che "molti ricchi
congregati in società" avrebbero potuto svolgere per alleviare con
acquisti, ma soprattutto con premi e stipendi l'indigenza di molti
artisti. "In somma, - concludeva - bisognerebbe che le esposizioni
italiane pigliassero norma da quelle vantaggiosissime che or si
praticano nella Germania e nella Francia, o dalle recenti di Trieste e
di Torino in tutto quanto esse presentano di vantaggioso"8.
Il fatto che le due prime Società fossero state fondate a Trieste e a
Torino, città che più risentivano dei climi culturali rispettivamente
germanico e francese, non è senza significato. Le Promotrici italiane si
ispiravano alle Societés des amis des arts e ai Kunstvereine;
addirittura gli statuti e le norme della Società filotecnica triestina
risultavano puntualmente tradotti da quelli tedeschi, che fin dagli anni
Venti si erano formati "zur Verbreitung des Interesses für künstlerische
Dinge in möglichst weiten Kreisen, zu welchem Zweck sie teils
permanente, teils periodische Ausstellungen veranstalteten" e "zur
Forderung von Kunst und Künstlern durch Ankauf von Kunstwerken aus
Vereinsmitteln behufs Verlosung unter die Mitglieder"9.
Se lo scopo iniziale era stato di ampliare la domanda e di rendere
agevolmente disponibile una variegata e ricca offerta, e se l'esigenza -
subito sentita - di federazioni di Kunstvereine10
per organizzare in maniera più razionale ed efficace delle mostre
circolanti è riprova di come gli intenti fossero prettamente
commerciali, è anche vero che in seguito, in varie occasioni presero
corpo iniziative di più disinteressata promozione artistica. Ne è
esempio, quella del Kunstverein sassone che - fondato del resto
da Goethe e da von Quandt11
- nel 1837 indisse una sorta di concorso per un dipinto di carattere
storico ad olio, le cui figure dovevano essere almeno tre quarti il
naturale12,
oppure il progetto di quello di Lipsia di formare, tramite una parte dei
profitti, una collezione pubblica cittadina13,
o ancora il proposito del Kunstverein di Francoforte di finanziare un
monumento a Goethe14.
Propositi prevalentemente commerciali sembrano invece ispirare
l'iniziativa triestina di una "Società filotecnica"15,
il cui scopo - dichiarato nell'articolo primo dello Statuto - era
unicamente quello di una mostra-mercato annuale di "opere distinte di
Belle Arti di autori viventi" sulle quali essa si riservava un diritto
di prelazione per acquisti da distribuire poi tramite una lotteria ai
soci. La Società svolgeva inoltre un ruolo di mediazione fra artisti e
compratori in quanto si sarebbe adoperata anche - secondo l'art.25 - per
favorire lo "spaccio" delle opere non selezionate per la lotteria. La
Società, promossa in particolare da Jacopo Nicolò Craigher,
commerciante, rappresentante della banca viennese "Arnsein & Eskeles" e
dal 1840 console del Belgio, che nutriva forti interessi letterari e
artistici
16
, e da Hermann Lutteroth, facoltoso banchiere di origine prussiana e fra
i fondatori della RAS17, veniva in effetti a colmare un vuoto
"istituzionale" in un contesto che, da un decennio almeno, aveva
mostrato una notevole vivacità negli acquisti e nelle committenze di
opere d'arte. Significative al riguardo erano state le vicende delle
prime più localistiche esposizioni organizzate tra il 1829 e il 1833
dalla privata Società di Minerva. Inizialmente intese a "promuovere
l'amore dei buoni studi nella triestina gioventù [...] e [...] offrire
ai propri concittadini [...] i resultati dei primi sforzi di quei
giovani che alle belle arti si dedicano", si erano subito trasformate
- con l'immissione dei pittori professionisti - in manifestazioni
mercantili di indubbio successo a riscontro evidentemente delle
potenzialità del mercato; a seguito di polemiche e censure, le mostre,
riportate dai promotori della Minerva entro un alveo non commerciale,
avevano subito mostrato la debolezza intrinseca di un discorso puramente
promozionale e non legato allo smercio: crollata la partecipazione di
giovani aspiranti artisti che studiavano nelle Accademie di Venezia e
Milano, all'Istituto politecnico di Vienna o presso la scuola domenicale
artigianale di Trieste, l'ultima esposizione aveva visto una crescita
esponenziale della meno accreditata schiera dei dilettanti18. Esaurita
questa prima esperienza, negli anni successivi la vitalità del mercato
fu testimoniata dall'arrivo di molti artisti che vennero a stabilirsi
nella città giuliana (lo scultore Francesco Bosa, i pittori Giovanni
Pagliarini, Augusto Tischbein e Giuseppe Rieger ed il litografo
Bartolomeo Linassi) e da numerose singole iniziative, quali le mostre
personali, organizzate per pubblicizzare e vendere la propria
produzione: Giuseppe Tominz ne allestì una nel 1835 nella "sala de'
pubblici balli" del teatro, i1 vedutista milanese Carlo Gilio un'altra
nel 1839, mentre sempre in quell'anno anche Ippolito Caffi, giunto in
città con tre quadri, li aveva subito venduti, ricevendo ulteriori commissioni. Aumentavano
l'appeal che
la città poteva esercitare per gli artisti quelli che possono
considerarsi i due maggiori "cantieri" di quel torno d'anni: la chiesa
di Sant'Antonio Nuovo, eretta su disegno di Pietro Nobile, e la cui
decorazione pittorica e scultorea si prolungò fino alla fine degli anni
Quaranta, e il nuovo cimitero di Sant'Anna, inaugurato nel 1825. D'altro canto proprio la decorazione della nuova chiesa che, essendo di
pertinenza del Magistrato civico, poteva porsi idealmente come sede
deputata alla promozione degli artisti locali, era stata invece affidata
- in assenza di nomi adeguati - a pittori veneti o tedeschi: Grigoletti,
Lipparini, Schiavoni figlio, Politi, Tunner e Schönemann. Analogamente i
danarosi esponenti del ceto commerciale triestino disposti -per motivi
di status sociale o per necessità di arredo o per spassionato interesse
per l'arte - ad investire nel mercato artistico spesso avevano dovuto
guardare alle piazze di Venezia, di Milano e di Vienna19. In questo panorama ricco di notevoli potenzialità si inserisce
dunque l'iniziativa della "Società filotecnica" i cui contorni
appaiono iscriversi entro un orizzonte prettamente economico e
commerciale. Da un lato si apriva la possibilità per i promotori, poi
subito inseriti fra i membri del Consiglio direttivo20, di acquisire una posizione privilegiata e quasi di
monopolio, grazie all'esercizio di prelazione che era prerogativa della
Società, dall'altro si istituiva una cospicua attività di mediazione,
dal momento che, fin dall'inizio, gli acquisti dei privati appaiono
ingenti: a parte il picco di 10.379 fiorini raggiunto nella prima
edizione della mostra e legato probabilmente alla novità
dell'iniziativa, negli anni successivi la media fu intorno ai 5.000
fiorini, con un massimo di 8.380 nel 1844 ed un minimo di 4.030 nel 184521. L'individuazione di un segmento di mercato promettente era
sottolineata anche nel commento del quotidiano locale,
l'"Oservatore Triestino", quando rilevava come avevano animato i promotori la
considerazione di un collezionismo e di una committenza locale già molto
vivace e la constatazione della collocazione cardine di Trieste nei
traffici internazionali22. Alla realtà delle cifre e allo spirito
imprenditoriale dei commercianti e banchieri triestini Francesco
Dall'Ongaro, letterato e poeta giunto a Trieste nel 1837 come istitutore
privato, ma attivo a partire dall'anno successivo nella pubblicazione,
insieme al cognato Pacifico Valussi, del periodico "La Favilla",
sovrapponeva una nobile retorica mirando a leggere l'operazione
filotecnica nell'ottica di una generosa iniziativa di beneficenza a
favore in primo luogo degli artisti più giovani e bisognosi di affermarsi in un mercato viziato dal monopolio di un'immeritata reputazione, poi del
progresso artistico in generale, nel senso di un sano contemperamento
del "secco purismo e del manierismo convenzionale", e infine del
pubblico triestino in particolare, per il quale auspicava un affinamento
del gusto che, in mancanza di istituzioni come le pubbliche gallerie e
le accademie, un'esposizione pubblica poteva ai suoi occhi favorire23.
Alle mostre Dall'Ongaro, che aveva inaugurato la sua collaborazione alla
"Favilla" con un articolo programmaticamente intitolato Sul sentimento
del bello ricco di impliciti riferimenti alle idee di Pietro Estense
Selvatico e di Niccolò Tommaseo, attribuiva dunque una serie di elevati
compiti etici e artistici e di intenti educativi e divulgativi24.
Iniziando il resoconto della prima mostra, Dall'Ongaro aveva lucidamente
calato queste petizioni di principio nei criteri che avrebbero
informato i suoi giudizi critici, basatι in primo luogo su contenuto ed
espressione: "L'unico canone che applicheremo ai lavori d'arte della
nostra esposizione sarà questo: che le opere esposte appartengono
veramente alle arti belle [...] Tutto ciò che si riferisce al
diligente studio dal vero, al buon metodo dell'eseguire, al disegno, al
chiaroscuro, al colorito, al trattamento meccanico - tutto ciò è incluso
nella parola arte. Tutto quello che si riferisce al concetto artistico,
alla scelta dell'argomento, alla convenienza dei mezzi, alla nobiltà del
fine, tutto ciò può essere indicato nell'attributo di belle"25. Non
sorprende quindi la sua delusione di fronte al proliferare della produzione e al sempre maggior successo di scene di genere, spesso prive del
carattere edificante che le avrebbe riscattate, e soprattutto di vedute
e di paesaggi di maniera, che costituivano peraltro la maggioranza delle
opere destinate alla lotteria. La delusione era condivisa dal gruppo
della "Favilla" e trapelò in maniera sempre più evidente nei resoconti
delle successive
esposizioni: "L'essere oggidì il genere del paesaggio più che mai in
voga, forma un'altra prova di quel che si è detto dapprima: che l'arte
cioè dalla chiesa e dal palazzo municipale dove era scopo allo sguardo
ed all'ammirazione di tutti, ridottasi a gabinetto dell'amatore, a
piacere dell'individuo, perdette l'esteso dominio ch'essa esercitava
sopra la moltitudine e quindi s'impicciolì. Non dico, che questo genere
non sia pregevole [...], ma bensì che men conseguisse quello scopo
prircipalissimo dell'arte di mettere con una potente scossa all'unisono
tanti cuori [...] la troppa voga del paesaggio mostra, che l'arte
divenendo sempre più privata, più s'allontana dal suo fine e quindi è
ben lungi dal procedere [...]"26.
Forse la delusione dell'intelligencija locale, presto condivisa con i
critici che avrebbero commentato anche la di poco successiva esperienza
torinese27, non mancò di influenzare, o comunque precorse, la più tarda
consapevolezza di Selvatico e di D'Arco che inizialmente avevano
salutato con favore i nuovi meccanismi espositivi trapiantati in Italia28. Tuttavia, forse un'altra componente è da rilevare in questa
delusione, ed è una componente legata all'accentuata propensione del
mercato per la produzione artistica austriaca e tedesca, vista come
una negatività che in qualche modo si saldava con la censura nei
confronti dei generi cosiddetti minori. Avvertirà nel 1846 Valussi,
divenuto nel frattempo direttore della "Favilla", che "Trieste, ove si
fa pure qualche lavoro d'arte, [...] ha la sua esposizione alimentata
dal di fuori"29. Non solo la provenienza degli artisti riflette
infatti la fortuna dell'iniziativa triestina nei paesi di lingua tedesca
(Vienna, Berlino, Monaco, Düsseldorf, Dresda, ecc.), ma anche gli
acquisti dei privati sono orientati decisamente verso il vedutismo
nordico30. La circostanza non poteva mancare di approfondire il divario con le aspettative dei patrioti alla vigilia dei moti del
Quarantotto. Il cosmopolitismo invocato nel 1840, quando ancora si
auspicava una città "chiamata a divenire veicolo a relazioni di studi
nell'occasione dei traffichi, ed anello di civilizzazione e
d'affratellamento fra le nazioni"31, veniva restringendosi di fronte
alle sempre più insistenti pretese di sottolineare il carattere di
italianità della cultura cittadina. Dall'Ongaro, espulso dopo un
infuocato discorso a favore di una lega commerciale tirrenico-adriatica
in presenza dell'economista Richard Cobden, in visita a Trieste nel
1847, ne sarebbe stato fra i fautori più ascoltati. Quando nel 1850
Angelo Brofferio pubblicò il IV volume delle Tradizioni italiane
per la
prima volta raccolte in ciascuna provincia dell'Italia e mandate alla
luce per cura di rinomati scrittori italiani, vi inserì, sotto la
dicitura di Tradizione istriana, due racconti di Dall'Ongaro32. Nella
premessa questi, senza significativamente citare in nessun
modo l'ambito artistico e mentre elencava puntigliosamente i propri
meriti per "suscitar quello spirito, che il governo tentava reprimere" -
cioè la fondazione del primo giornale italiano, la diffusione di poesia
e prosa italiane, la versione dei testi scolastici, l'istituzione di
scuole popolari di canto, le lezioni semipubbliche sulla Divina Commedia
-, così esordiva: " Il litorale dell'Istria, e quindi Trieste che n'è la
base, per quanto la politica austriaca si sforzi di germanizzarlo,
resisterà sempre all'influenza straniera che ne snatura gl'istinti.
L'elemento importato dall'Austria non è dotato di forza espansiva, né ha
la virtù assimilatrice delle razze latine"33
[...].
L'attacco era sferrato con durezza ad un governo che "non ha
risparmiato alcun mezzo per mortificarvi e spegnervi ogni scintilla di
vita spirituale, ogni traccia degli antichi costumi, ogni specie di
movimento indigeno e consentaneo alle tradizioni italiane"34. Benché
implicito, e probabile che il riferimento fosse anche all'egemonia sul
piano artistico. Certo è che, al di là della qualità della produzione
artistica presente nelle esposizioni e del discorso sui generi promossi,
l'associazione si dimostrò per alcuni anni uno strumento
particolarmente adatto ad una popolarizzaziοne dell'arte presso più
ampie fasce sociali e nello stesso tempo funzionale alle nuove
esigenze di fruizione artistica come mezzo di autopromozione da parte
delle classi borghesi. Anche l'accento che in molte recensioni - sia a
Trieste sia altrove - viene posto, con tono divertito, sugli aspetti
sociali delle esposizioni, diventate luogo alla moda e "rendez-vous
dell'eleganza, del buon tempo e del gusto"35 , è prova di un successo
presso il pubblico medio, cui evidentemente si adeguava la natura e il livello
delle opere esposte. L'associazione, mutuata dal mondo austro-germanico
e consona nella sua struttura e nei suoi scopi alle esigenze, anche
sociali, di classi che ruotavano intorno al mondo mercantile cittadino36, era venuta dunque a riempire un vuoto, favorendo innegabilmente
l'incremento di un collezionismo privato che - come segnala Massimo De
Grassi nel suo importante contributo - nei decenni successivi,
nell'ambito di un mercato ricco di attività e di iniziative, avrebbe
visto l'emergere di varie personalità di rilievo, fra le quali spicca
quella di Pasquale Revoltella.
NOTE:
1
M. Missirini, Memorie per servire alla storia della Romana Accademia
di S. Luca fino alla morte di Antonio Canova, Roma, De Romanis,
1823, ora in Scritti d'arte del primo Ottocento, a cura di E
Mazzocca, Milano-Napoli 1998, pp. 333-336.
2
Istoria della vita e delle opere di Giulio Pippi Romano, Mantova,
a spese dell'autore, 1838, e Delle arti e degli artefici di Mantova.
Notizie raccolte ed illustrate con disegni e con monumenti, Mantova
1857-1859.
3
C. D Arco, Delle moderne Società di Belle Arti istituite in Italia,
1847, in "Rivista Europea", n.s., V, 1847, parte I, pp. 437-451, ora in
Scritti d'arte..., cit., 1998, pp. 399-405 (citazione a p. 401).
4
P. Selvatico, Della Società Promotrice di Belle Arti in Firenze
nell'ottobre del 1845, in "Giornale euganeo ", II, dicembre 1845,
pp. 512-513 e 518-519, ora in Scritti d'arte..., cit., 1998, pp.
394-398.
5
C. D'Arco, in Scritti d'arte..., cit., 1998, p. 402.
6
P. Selvatico, in Scritti d'arte..., cit., 1998, p. 395.
7
P. Selvatico, in Scritti d'arte..., cit., 1998, p. 394.
8
P. Selvatico, Sull'educazione del pittore storico odierno italiano.
Pensieri, Padova 1842, in Scritti d'arte..., cit., 1998, p.
374. Vedi ora anche la ristampa anastatica, con introduzione e indici di
A. Auf der Heyde, Pisa 2007.
9 A. Janda,
Schriftliche Quellen zur bildenden Kunst des 19. und 20. Jahrhunderts.
Die Sammlung der Künstlerbriefe in der National-Galerie der Staatlichen
Museen zu Berlin, in "Forschungen und Berichte, 150 Jahre Staatliche
Museen zu Berlin " , 20, 1980, pp. 421-450, (citazione a p. 431). In
generale vedi T. Schmitz, Die deutschen Kunstvereine im 19. und
frühen 20. Jahrhundert. Ein Beitrag zur Kultur-, Konsum- und
Sozialgeschichte der bildenden Kunst im bürgerlichen Zeitalter,
Neuried 2001.
10
Ad esempio il Norddeutsche Kunst-Verein, cui partecipavano quelle di
Brema, Lubecca, Rostock e Stralsund oppure il Kunst-Verein delle città a
oriente dell'Elba, con Breslau, Danzig, Elbing, Görlitz, Königsberg e
Stettin.
11
H. Uhde, Goethe, Johann Gottlob von Quandt und der Sächsische
Kunstverein, mit bisher ungedruckten Briefen des Dichters; eine
Jubelgabe zum 350jähriges Todestage Albrecht Dürers und zum 50 jährigen
Stiftungstage des Sächsischen Kunstvereins, Stuttgart 1878.
12
Bekanntmachung, in "Kunstblatt", 7.3.1837, n. 19, p. 76. Anche il
Kunstverein di Braunschweig ordinò al pittore Teichs un dipinto storico
(" Kunstblatt " , 11.7.1837, n. 55, p. 224).
13
Nachrichten vom März, Akademie und Vereine, in "Kunstblatt",
2.5.1837, n. 35, p. 139.
14
Nachrichten vom April, Akademie und Vereine, in "Kunstblatt",
6.6.1837, n. 45, p. 184.
15
Su questa società e in generale sulle esposizione artistiche tenutesi a
Trieste a metà Ottocento, vedi di chi scrive, Strutture espositive a
Trieste dal 1829 al 1847, in " Αnnali della Scuola Normale Superiore
di Pisa, Classe di Lettere e Filosofia", s. III, XV, 1, 1985, pp.
233-301, cui si rimanda per riferimenti bibliografici e per una più
ampia trattazione.
16
Su Craigher vedi ora http://www.friul.net/dizionario_biografico/?id=1141&x=1
(settembre 2011).
17
Su Lutteroth vedi M. Rieder, Cosmopoliti sull'Adriatico. Mercanti ed
industriali tedeschi a Venezia e Trieste, in " Qualestoria ", 1,
giugno 2010, pp. 99-133.
18
Vedi D. Levi, Strutture..., cit., 1985, pp. 235-245.
19
Ivi, pp. 246-251.
20
Craigher e Lutteroth vennero subito affiancati da membri della famiglia
Sartorio (Giovanni Guglielmo nel Direttorio e Pietro fra i Consultori),
dal dr. F. M. Burger, da Carlo Regensdorf e da Carlo Antonio Fontana.
Questi nel 1842 fu sostituito da Leone Hierschel mentre Craigher neI
1843 lasciò il posto a Giuseppe de Lugnani, bibliotecario della Civica
per più di quarant'anni (1815-1857) e direttore dell'Accademia reale di
nautica. Entrambi i sostituiti continuano a comparire fra i Consultori.
Si tratta del gotha della finanza e del commercio triestini, tutti
fortemente legati al mondo austriaco e tedesco. Friedrich Moritz von
Burger, consulente legale della Borsa, diventerà più tardi luogotenente
di Milano e di Trieste e poi ministro della Marina (vedi
Österreichisches Biographisches Lexicon, 1815-1950, II ed., 1954, 1,
pp. 128-129). Carlo Regensdorf, procuratore della ditta commerciale
Reyer e Schlik, era fra i dirigenti del Lloyd Austriaco (P. Covre,
Carlo Regensdorf ricco mercante e generoso benefattore, in
"Archeografo Triestino", IV s., LI, 1991, pp. 307-317).
21
Di grandissimo interesse e suscettibili di ulteriori ricerche e
approfondimenti sono i Ragguagli sui resultamenti della Società
Triestina di Belle Arti, pubblicati annualmente dal 1840 al 1847 e
che contengono gli elenchi dei soci, il bilancio, il catalogo delle
opere esposte, di quelle acquistate e di quelle distribuite tramite la
lotteria.
22
D. Levi, Strutture..., cit., 1985, p. 269.
23
Ivi, ρρ. 268-269.
24
Ivi, pp. 255-257.
25
Ivi, p. 293.
26
lvi, p. 295.
27
Dell'analogo dibattito che aveva luogo in ambito torinese, sede della
seconda Promotrice italiana, si dava prontamente notizia nella "Favilla"
del 1845.
28
Vedi supra.
29
D. Levi, Strutture..., cit., 1985, 276.
30
Per un 'analisi più approfondita, ivi, pp. 277-281.
31
Associazione Triestina di Belle Arti, in "Osservatore Triestino"
, n. 436 del 19. 3.1840, cit. in D. Levi, Strutture..., cit.,
1985, p. 269.
32
La serie diretta dal patriota e letterato fu pubblicata tra il 1847 ed
il 1850 dallo Stabilimento Tipografico Fontana di Torino. Le due novelle
s'intitolano Il pozzo d'amore e Il berretto di pel di lupo
e il testo con cui Dall'Ongaro le introduce, da cui sono tratte le
successive citazioni, è datato 1 ottobre 1849.
33
Ινi, p.429.
34
Ivi, p. 430, dove continua: "L'educazione si trasmette in lingua
tedesca, gl'impiegati sono tedeschi, tedesco culto, e peggio che tedesco
il sacerdozio. Il commercio triestino ha la sua base a Vienna, e il suo
credito dipende da quel labirinto di frodi e di monopolj che si chiama
la banca nazionale austriaca". All'odio antiaustriaco si accompagnava
invece la rivalutazione dell'elemento slavo, cui del resto - seguendo il
pensiero di Tommaseo - la "Favilla" aveva prestato grande attenzione:
"Il litorale istriano e Trieste sono come que' terreni che mostrano
nelle diverse stratificazioni la varia natura degli elementi di che si
compongono. La superficie di Trieste può essere tedesca e austriaca: gli
è come uno strato d'alluvione che ricoperse in epoche non remote le
prime terre. Sotto codesto strato c'è l'elemento slavo nei monti,
l'elemento italiano nei paesi prossimi al mare. E siccome quest'ultimo è
più espansivo e assimilatore dell'altro, è forza pensare che prevarrà. È
finito il tempo che una famiglia o una casta possa fare e disfare la
nazione e la lingua. I popoli hanno inteso i loro diritti, e i governi
non hanno altra probabilità di durare, se non secondando la corrente, e
navigando per essa" (p. 432).
35
D. Levi, Strutture..., cit., 1985, pp. 275-276. Si confronti con
l'attenzione alla mondanità presente anche in D. Sacchi, Le Belle
Arti e l'Industria in Lombardia nel 1834. Relazione, a. III, Milano
1834, pp. 10-14, in Scritti d'arte..., cit., 1998, pp. 337-340.
36
In questo senso è interessante considerare il fenomeno
dell'associazionismo come forma caratterizzante e quasi cifra di
comportamento in altri analoghi contesti cittadini, per quella unità di
potere economico, politica e cultura che proponeva e favoriva. Si veda
ad esempio R. Roth, "... der blühende Handel macht uns alle glücklich...
". Frankfurt am Main in der Umbruchszeit 1780-1825, in " Historische
Zeitschrift ", Beihefte, Vom alten zum neuen Bürgert um. Die
mitteleuropäische Stadt im Umbruch 1780-1820, n.s., 14, 1991, pp.
357-408.
Donata Levi
(Rivelazioni -
©
Edizioni della Laguna)