Roberto Navarrini

 

L’inventariazione archivistica: dottrina e prassi

 

 

 

 

Prima di entrare nell’argomento di questo saggio: l’inventariazione archivistica, è necessario precisare alcuni punti: l’inventario archivistico è un mezzo di corredo, cioè uno strumento indispensabile per la fruizione della documentazione, complesso e articolato, poiché ha come finalità quella di illustrare la realtà dell’archivio nella sua complessità e nella sua organicità; la stesura dell’inventario archivistico presuppone da parte dell’archivista una attività che prenda in considerazione ambiti diversi, i principali sono: il riordinamento del materiale e la sua descrizione, fasi che necessariamente non possono essere disgiunte l’una dall’altra; l’inventario, proprio perché ha la finalità di illustrare in forma organica la documentazione di competenza per una proficua fruizione deve riportare tutti gli elementi storici, sociali, culturali che attengono al soggetto produttore e alla società esterna con esso correlata e pertanto propone la descrizione delle unità archivistiche seguendo criteri uniformi e tecnicamente validi. Detto questo è facile capire come, essendo l’inventario il mezzo di corredo archivistico di maggior rilievo tecnico e scientifico, abbia richiamato l’attenzione degli archivisti nel tentativo di determinarne l’essenza.

Le diverse opinioni espresse sull’argomento devono essere inquadrate nel momento storico in cui sono state espresse, sia per l’area territoriale, sia per le tipologie documentarie di riferimento. Non è inutile, quindi, ricordare il lungo e lento processo di presa di coscienza del fatto che gli archivi non sono semplici raccolte o semplici insiemi di documenti, ma delle formazioni spontanee ed organiche, dotate di una propria intrinseca struttura ad essi connaturata, struttura che deve emergere nelle sue caratteristiche proprio dalla descrizione inventariale.

La sopradetta presa di coscienza, che caratterizza la nascita della moderna scienza archivistica, si è attuata lentamente e per gradi, iniziando dalla seconda metà del ‘700, epoca in cui si incomincia a porre esplicitamente il problema di come ordinare gli archivi e di conseguenza di quali strumenti di ricerca dotarli.

Nel secolo XVIII si cominciava a considerare la documentazione secondo una differente concezione da come era stata valutata nei secoli precedenti; iniziava ad affermarsi un nuovo tipo di Stato e un nuovo rapporto tra Stato e cittadino; lo Stato tendeva ad eliminare le giurisdizioni speciali e a far valere i suoi diritti; il cittadino cercava di dimostrare, invece, di possedere tali giurisdizioni e i diritti conseguenti.

Tanto lo Stato quanto il cittadino, nel procedere ad una sistematica revisione della documentazione, avevano il precipuo scopo di conservare quelle sole carte che venivano giudicate utili a dimostrare le diverse ed opposte posizioni; nel Settecento nell’ordinamento degli archivi pubblici come in quelli privati sono state seguite le medesime direttive: le carte sono ordinate per materia, raccolte in categorie utili a dimostrare i diritti giurisdizionali, feudali, ecc.: i principi che guidano il lavoro di revisione della documentazione hanno le loro basi fondamentali nel momento storico in cui vengono applicati1.

L’esigenza di ordinamento e conservazione era, dunque, strettamente connessa alla necessità di attestare ufficialmente diritti ed obblighi; un’attenzione alla documentazione che trae origini da decisioni antiche e divenuta tradizione; alla fine del secolo XVIII non era ancora stata recepita la distinzione tra archivi «antichi» e «correnti», in quanto nella prassi venivano tenuti presenti solo «affari», le cui premesse giuridico-politiche potevano ricercarsi in «atti» anche di parecchi secoli indietro, tuttavia, sembra di poter affermare che già fosse opinione consolidata la duplice valenza giuridica e culturale degli archivi.

«Li archivi che con dannata negligenza il mondo meno avveduto ne secoli infelici ha trascurati, e che oggi pare che con lodevole diligenza si vadano ristrutturando, furono dall’antichità considerati per venerabili e sacrosanti, perché non v’è capitale più certo per arricchire di sodi ammaestramenti la posterità che la sicurezza delle notizie le quali come in sacrario deverebbero nelli archivi riservarsi»2, così si esprimeva padre Clemente Zilioli nella Prefazione al primo volume degli Annali dell’archivio familiare dei Gambara, richiamando un altro filone culturale della sua epoca, la moda dell’antiquariato.

È doveroso ricordare che risalgono al secolo XVII in Italia i primi manualetti sugli archivi; non ancora veri trattati di archivistica, ma scritti comunque dedicati in modo specifico agli archivi. Noto è quello di Baldassarre Bonifacio3, il cui pensiero sembra trovarsi in sintonia con le espressioni del padre Zilioli, che apprezza il valore didattico e storico dei documenti, senza, tuttavia, tralasciarne la valenza giuridica, il valore probatorio, concetto ancora prevalente.

Le conseguenze di questa concezione esclusivistica dell’archivio e degli atti che vi erano depositati furono non indifferenti sul piano della conservazione; il fatto che venisse privilegiata la documentazione solenne, in quanto formata di atti costitutivi di diritti, obbligazioni e interrelazioni economiche e patrimoniali, ebbe come ripercussione la dispersione o addirittura la eliminazione delle testimonianze scritte della vita quotidiana e di quelle situazioni contingenti ritenute esaurite ed inutili una volta che gli impegni assunti erano stati adempiuti.

Il fenomeno è tanto più evidente quanto più è riscontrabile, nei tempi più vicini a noi, il crescendo graduale di una conservazione e di una archiviazione più accurata e completa in concomitanza con la crescente presa di coscienza dell’importanza dei rapporti tra individui e tra le collettività documentati negli atti. Questa opportunità, alle soglie dell’età moderna, cominciò ad essere oggetto di teorizzazione da parte della trattatistica archivistica, concretandosi nei provvedimenti delle autorità laiche ed ecclesiastiche che sempre più andarono precisando doveri e incombenze degli ufficiali consegnatari degli archivi.

Risultarono così disciplinate le fasi della attività archivistica con norme intese a dare sicurezza alla conservazione, esigendo fedeltà da parte degli archivisti, pur restando funzionali al solo interesse dei produttori dell’archivio, i soli ad averne la piena disponibilità. Gli atti, infatti, dovevano essere conservati, elencati, ordinati in modo da essere disponibili a seconda delle necessità contingenti degli enti produttori.

Agli archivisti, pertanto, spettava l’onere di conservare le carte in ordine e questo significava raccoglierle in filze, pacchi, mazzi, buste, curarne la legatura in volumi, renderle riconoscibili con l’apposizione di intitolazioni e segnature e infine fare in modo che fossero individuabili mediante la compilazione di mezzi di corredo che all’epoca erano repertori e indici.

Al titolare dell’archivio bastava disporre di repertori accurati per mezzo dei quali rintracciare quei dati utili alle ricerche tra documenti noti in quanto «munimina» dei suoi diritti, «memorie» del suo passato. Il procedimento teneva conto innanzitutto dell’esigenza del produttore di poter procedere rapidamente e con sicurezza non solo nel reperimento materiale dei documenti nell’archivio, ma anche nel rintracciare utilmente e con facilità notizie di fatti e avvenimenti; a tale scopo, dopo aver diviso il materiale nelle varie classi e disposto in ordine filze, mazzi e registri, prima preoccupazione dell’archivista era quella di redigere gli annali.

Gli annali esponevano in ordine cronologico il regesto dei «fondamenti» dell’archivio, cioè il compendio accurato dei documenti più importanti dell’ente con l’indicazione della collocazione archivistica. Adempiuto a questo primo punto, si procedeva alla redazione di repertori, indici e inventari, cioè di quegli strumenti che guidavano e facilitavano la ricerca. A tale scopo l’archivista premetteva ai repertori delle avvertenze, con le indicazioni per la corretta consultazione dell’archivio.

A parte le numerose ripetizioni, indispensabili per intrecciare i diversi dati registrati su Annali, Inventario e Repertorio o Indice, il metodo raggiungeva pienamente il fine che l’archivista si era prefisso; non un fine culturale, come si è più volte ripetuto, ma una finalità pratica, volta ad agevolare l’individuazione dei titoli, tanto richiesti dalla giurisprudenza e dalla prassi burocratica del tempo. Tali mezzi di corredo, quando pervengano con l’archivio, sono tuttora di estrema utilità per muoversi nelle documentazioni.

La seconda metà del ‘700, dunque, fu momento di grande fervore archivistico: ordinare gli archivi, compilarne gli inventari; ma con quali criteri? Con i criteri allora vigenti che erano in perfetta consonanza con la mentalità razionalistica e classificatoria propria della cultura dell’epoca4.

Ma grandi innovazioni si preparavano anche per gli archivi e per l’archivistica. Fu la Rivoluzione francese con le sue mediate e immediate conseguenze a porre in crisi l’impianto archivistico allora vigente; e tre furono i concetti innovativi: il concetto dell’importanza storica della documentazione dell’Antico Regime; l’apertura al pubblico degli archivi storici; la concentrazione degli archivi.

Cominciarono ad essere elaborati quei principi – respect des fondes, principio di provenienza, metodo storico – che formarono le basi della moderna scienza archivistica.

Se diamo anche soltanto uno sguardo d’insieme alla storiografia archivistica di maggior rilievo vedremo che anche sui mezzi di corredo influirono i nuovi concetti.

Gli archivisti olandesi, Muller, Feith e Fruin, autori del primo manuale archivistico scientifico5, posero le basi di un concetto essenziale, affermando che l’archivio, inteso come sedimento documentario formatosi presso un singolo ente o ufficio, è un organismo, cioè un complesso organico con proprie intrinseche leggi di struttura e quindi di ordinamento; un organismo che va lasciato così come si è venuto formando giornalmente.

Per gli archivisti olandesi, pertanto, l’inventario «deve servire solo di guida e deve dare soltanto il prospetto dell’archivio e non già il contenuto dei documenti»6; definizione molto vicina al pensiero di Francesco Bonaini7, nel senso che la conoscenza dell’istituto produttore, della sua storia e delle sue competenze sarebbe sufficiente guida alla ricerca. Il concetto di guida diventa il motivo conduttore di tutta la trattazione relativa alla sezione descrittiva, e pur nella analiticità del lavoro non si notano preoccupazioni particolari in relazione all’eventuale complessità della natura dell’inventario.

Gli archivisti olandesi – pur facendo rientrare l’inventario nella fase descrittiva – hanno avuto il merito «di aver determinato la vera entità di questa fase operativa, per la quale hanno affermato che ‘conviene che non sia troppo particolareggiata, ma si limiti a dare il prospetto generale del contenuto dell’archivio’ », aggiungendo poi «chi si sforza di far conoscere il contenuto di ogni singolo documento compie senza dubbio opera utile, ma non fa un inventario d’archivio»8.

Eugenio Casanova nel suo manuale, pubblicato nel 1928, vero e proprio trattato scientifico della disciplina archivistica9, considera i mezzi di corredo secondo una visuale tecnicistica; l’inventario è per il Casanova lo strumento specifico del lavoro archivistico perché: «dal concetto di inventario si sprigiona quasi il senso della numerazione e della localizzazione, senso di distinguere questa scrittura dalle consimili», perché l’inventario viene definito «quella composizione o quella scrittura, nella quale sono segnate partitamente le cose e, nel caso specifico, gli atti di un istituto dei quali esprime l’entità"10.

Secondo questo autore la scientificità del lavoro risiede solo nell’ordinamento che tende a far rivivere l’organismo che emanò gli atti; l’inventario deve rispecchiare, deve fotografare in ogni sua parte l’ordinamento e conservarne intatta la struttura.

Per rendere più rispondente a tutte le esigenze della scienza l’inventario, è opportuno inserire una sobria prefazione con brevi cenni sulla vicenda dell’ente (in stretto rapporto con la documentazione), l’indicazione delle modalità del lavoro svolto dall’archivista, la descrizione di altri elementi strettamente tecnici.

È un’apertura verso gli aspetti dell’inventariazione che sono alla base della moderna scienza archivistica, ma Eugenio Casanova punta non tanto sulla qualità degli atti, quanto sulla quantità, «insistendo su una concezione estremamente tecnicistica e scarsamente dotata di valenze culturali e scientifiche»11.

Giorgio Cencetti è l’autore di un importante studio: Inventario bibliografico e inventario archivistico12, l’assertore della teoria del rispecchiamento.

Naturalmente si richiama al metodo storico e pensa alla realizzazione di un inventario-guida, nel quale l’indicazione sommaria degli archivi e delle serie con il loro numero d’ordine, le date ecc. è una semplice appendice, perché il vero inventario: «è invece da un’altra parte, e precisamente in quella che i ... non iniziati scambiano per una prefazione qualunque»13, una introduzione, che fa «idealmente rivivere e rifunzionare l’istituto cui l’archivio apparteneva».

In tale mezzo di corredo si concretizza la vera essenza dello strumento archivistico, la sola fase descrittiva (più o meno analitica) «non permette di ‘invenire’ un bel nulla, se non interviene quella tale evocazione magica per cui l’archivio, novello Lazzaro, da morto si trasforma in vivo». Posizione in aperto contrasto con quella del Casanova, poiché gli elementi culturali e scientifici si contrappongono in maniera netta a quelli eminentemente tecnici e li sovrastano.

Entrambe le posizioni, tuttavia, peccano, secondo Romiti di estremismo e tendono a risultati che non mirano a quell’equilibrio che le dovrebbero caratterizzare in ogni singolo momento e nelle risultanze finali14.

È universalmente conosciuta l’importanza dello studio di Adolf Brenneke15, del suo contributo teorico, che consiste nel modo assolutamente nuovo di concepire l’archivistica come ricerca di una tipologia delle possibili strutture dei fondi d’archivio.

Il Brenneke qualifica i mezzi di corredo con il termine mezzi sussidiari per l’archivio e la registratura e li distingue a seconda che siano posti in essere per uso interno d’ufficio o per uso esterno.

Per i mezzi di corredo ad uso interno propone una forma secondaria di repertori che corrisponda a «quegli inventari che vengono eseguiti dettagliatamente in vista di una finalità precisa», quindi con risultati soggettivi, mentre afferma che limitare la figura degli inventari analitici, cioè quelli predisposti dall’archivista quando opera con criteri scientificamente archivistici, all’ambito della soggettività è opinabile e discutibile; per soggettività intende l’attenersi ad orientamenti collegati con la ricerca storica e più pericolosamente alle proprie inclinazioni storico-culturali16.

Leopoldo Cassese17 giudica l’inventario fondamentale e destinato ad assumere la funzione di copertura di tutte le esigenze proprie dell’archivio, dell’archivista e di tutti coloro che chiedono l’accesso alla documentazione per le diverse possibili finalità18.

Distingue l’inventario in sommario o generale (quantità), analitico (qualità), ma ha una idea poco chiara dello strumento inventario, poiché definisce quello sommario: trascrizione delle schede che nell’insieme ci fanno conoscere la consistenza dell’archivio relativamente alle buste, filze ecc. non ai singoli documenti; quello analitico: compilazione del regesto di ciascun documento da compilarsi per pergamene, registri, cartulari, ecc. Distinzione deviante dal concetto di inventario, perché riduce a mera elencazione l’inventario sommario ed estende smisuratamente, verso applicazioni più vicine alla diplomatica, quello analitico.

Soluzioni di notevole interesse propone Alessandro Pratesi19. L’Autore non si sofferma su di un mezzo di corredo particolare, ma sulla differenza tra strumenti di ricerca e strumenti di corredo, vedendo nei primi il pericolo della soggettività aumentata dal fatto che il soggetto non è l’archivista ma un terzo, il ricercatore; nei secondi la caratteristica dell’oggettività, nella quale il prodotto consiste in una risultante rappresentativa della realtà archivistica.

È indiscutibile che il mezzo di corredo archivistico non può essere predisposto e strutturato a seguito di istanze provenienti dalle diverse aree di ricerca, per i seguenti motivi: l’eterogeneità delle richieste, le motivazioni dipendenti dalle norme basilari della dottrina archivistica.

Scrive il Pratesi che «il lavoro dell’archivista deve essere in funzione dell’archivistica non di altre discipline»20, principio di fondamentale rilevanza che ricorda l’operare del Bonaini e della sua scuola; «l’attività ordinatrice e catalogatrice svolta dal funzionario dell’archivio – continua il Pratesi - avrà di mira il proprio lavoro, che è anzitutto ricerca nel suo pieno significato scientifico, e nell’organizzarsi secondo un proprio fine e una propria metodologia». «Il mezzo di corredo – conclude Romiti21 -, nella sua fase costitutiva, deve essere tale per l’archivio e non per l’archivista o quanto meno per il ricercatore; nella fase di utilizzazione deve essere tale sia per l’archivista, sia per il ricercatore, in tal modo potrà soddisfare, con la stessa intensità qualsiasi momento della ricerca, perché i suoi caratteri oggettivi lo consentiranno».

Elio Lodolini, rifacendosi al Cencetti, tende ad attribuire la massima qualificazione alla presentazione storico-istituzionale ed alla illustrazione delle vicende dell’archivio, ponendo in un ruolo quasi secondario la sezione descrittiva.

«Il vero inventario, cioè il mezzo di corredo necessario per trovare la documentazione che interessa, è la introduzione, cioè lo studio che indica le competenze, le strutture, il modo di funzionamento, l’evoluzione della istituzione o magistratura che ha prodotto il materiale documentario descritto nell’inventario e quindi il modo secondo cui il materiale medesimo è ordinato. L’inventario che segue (sezione descrittiva) non è altro che un elenco, la cui consultazione è possibile soltanto dopo che chi lo consulta ha studiato l’introduzione che lo rende intelleggibile»22. Discutibile lo squilibrio che tale Autore determina tra la fase introduttiva e quella descrittiva.

Per Paola Carucci23 l’inventario è lo strumento fondamentale per eseguire le ricerche; descrive tutte le unità che compongono un archivio ordinato. Il lavoro di inventariazione è visto come quasi un tutt’uno con quello di ordinamento.

Altro elemento è l’introduzione nella quale debbono essere spiegati con molta chiarezza i criteri adottati nell’ordinamento e nell’inventariazione. Quindi l’inventario non è solo un problema tecnico-descrittivo, rappresenta un momento d’interazione del lavoro archivistico da considerarsi nelle sue valenze culturali e scientifiche.

L’archivista deve farsi contemporaneo del lontano burocrate che nel passato ha formato l’archivio, deve conoscere quali ne furono le esigenze di lavoro, gli interessi, dovrà inquadrare i minimi aspetti dell’opera svolta dal singolo ufficio (competenze) in base agli interessi, le consuetudini, le regole che guidavano il funzionamento degli organi di uno Stato a cui apparteneva l’ufficio le cui carte si riordinano.

L’inventario deve essere il risultato di una complessa attività tecnico-scientifica; non può avere parti minori o maggiori, perché è il risultato di un lavoro di elevato valore culturale e scientifico. Tutti gli autori contemporanei puntano sul valore culturale e scientifico dell’inventario.

 

Per Arnaldo D’Addario l’inventario non è assolutamente la semplice fase descrittiva, ma un elemento complesso di elevato valore culturale e scientifico, poiché investe una articolata rete di fasi operative fra loro intimamente collegate24. L’inventario non è soltanto un problema tecnico-descrittivo, ma un momento di interazione del lavoro archivistico, da considerarsi nelle sue valenze culturali e scientifiche.

 

In occasione del XIV Congresso degli Archivisti Ecclesiastici25, dedicato al tema L’inventario. Un problema sempre aperto, Vito Tirelli esponeva il suo pensiero analizzando la natura e la funzione dei mezzi di corredo26. Per Tirelli l’inventariazione di un fondo archivistico è l’ultima operazione effettuata, strettamente collegata all’avvio dell’ordinamento del fondo stesso, inserendola così teoricamente nell’ambito di quella tradizione archivistica che considera il carattere di organicità e unitarietà caratteristica costante dell’archivio. Le due operazioni, riordinamento e inventariazione, rimangono interventi distinti, rappresentando due momenti non confondibili del medesimo processo conoscitivo, il cui fine ultimo è la consultabilità delle carte27. Per Tirelli, dunque, «inventariare un fondo significa provvedere alla compilazione di uno strumento che consenta l’accessibilità alla consultazione di esso e a favore di coloro che intendono utilizzarlo per le ricerche»28.

Nell’esame dei mezzi di corredo Tirelli si rifà ad alcune osservazioni di Claudio Pavone relative al fatto che l’inventariazione deve essere in grado di definire la struttura del fondo e non semplicemente descriverne il contenuto. Tale concetto era stato sostenuto da Pavone nel VII Congresso archivistico internazionale di Mosca29, dove aveva suggerito di utilizzare il termine «strutturale» al posto di «storico» per la definizione del metodo di ordinamento, in quanto il termine strutturale renderebbe più dinamico il rapporto tra gli archivi e le istituzioni produttrici della documentazione, rapporto che il metodo storico, così come è definito in Italia, limiterebbe ad un rispecchiamento tra archivi e istituzioni secondo la lezione di Cencetti alla quale Pavone aveva opposto una critica rigorosa30. Per Tirelli e Pavone l’inventario non può che essere strettamente correlato all’ordinamento e quindi connesso alla struttura del fondo.

Giuseppe Plessi nel suo manuale archivistico31 «inventa» una nuova terminologia per parlare di quel settore della disciplina archivistica che si occupa della redazione dei mezzi di corredo: l’archivografia, considerata momento fondamentale della dottrina archivistica, «in quanto attiene alla conoscenza diretta dei complessi documentari, nella loro consistenza e nei loro contenuti, e delle vicende attraverso le quali essi sono passati dalla loro origine fino all’attuale condizione»32.

Plessi considera imprescindibili l’aspetto descrittivo e quello storiografico, poiché ritiene che non si possa procedere all’inventariazione di un archivio senza conoscerne le vicende intrinseche ed esterne e allo stesso tempo non si può tracciare la storia di una entità archivistica senza conoscerne la consistenza e i contenuti.

L’inventario deve riflettere la struttura generale e articolata dell’amministrazione che ha prodotto l’archivio, da esso deve emergere l’ambito di competenza, entro il quale si è svolta l’attività dell’ente produttore, e le direttrici delle prassi esecutive seguite. Plessi poi enumera i vari gradi dell’inventario a seconda dello scopo che attraverso di esso si vuol raggiungere: inventario di consistenza, inventario sommario coincidente con la guida, inventario analitico, cronologico e topografico.

Antonio Romiti ritiene due momenti distinti l’ordinamento e l’inventariazione33. In riferimento alla fase storica dell’archivio Romiti considera essenziali quattro compiti primari:

a. garantire alla documentazione una corretta conservazione permanente;

b. effettuare, nel rispetto della teoria e della prassi archivistica, una definitiva riorganizzazione, operando il riordinamento del materiale;

c. realizzare l’illustrazione e la descrizione del materiale attraverso mezzi di corredo e gli eventuali strumenti per la ricerca;

d. consentire la fruizione della documentazione, nel rispetto dei tempi e dei limiti imposti dalle norme e dalle esigenze di conservazione.

Nell’esaminare la tipologia degli strumenti di ricerca e in particolare quelli destinati alla utilizzazione esterna, Romiti respinge il concetto brennekiano di analisi indirizzata ad una ricerca di ambito soggettivo e di interesse storico, perché «l’analisi ... non deve assolutamente discostarsi dal campo assolutamente archivistico, in tal modo che la scheda presenti una redazione analitica di natura prettamente tecnica senza tuttavia prevaricare certi limiti che farebbero sconfinare o nel «regesto» o nell’opera storica in senso lato»34.

Romiti, poi, considera l’inventario uno strumento tecnico, un mezzo di corredo destinato anche alla ricerca storica, ma non uno studio storico, anche se in esso è insita e inevitabile la caratteristica storica in senso lato, in quanto descrive una documentazione che porta in sé tale particolarità. «Una corretta forma di inventariazione ... ha il compito di coadiuvare la «ricerca storica» fornendo solo, esclusivamente e rigidamente, caratteristiche descrittive della natura formale e sostanziale della documentazione»35.

La dottrina archivistica è oggi quasi concordemente orientata al fatto che l’inventario debba essere dotato di una consistente sezione introduttiva dalla quale sia possibile comprendere i significati della documentazione ancor prima di accedere alla sezione descrittiva: si tratta di fornire a tale sezione quelle caratteristiche che soddisfino prima di tutto l’archivio, in secondo luogo rispecchino le esigenze dell’ente produttore e terzo offrano all’archivista e al ricercatore le chiavi di accesso36. È necessario articolare tale spazio introduttivo inserendo le nozioni riguardanti le situazioni storiche e storico-istituzionali generali in collegamento con l’epoca e con la realtà territoriale e riconducibili all’ente produttore, così come in uno specifico settore sono da indicarsi i medesimi aspetti riferibili alle realtà locali.

Se è vero che l’inventario rappresenta il massimo di scientificità posto in essere dall’ archivista, è necessario fare alcune considerazioni sul ruolo che l’archivista occupa oggi.

Al presente, contrariamente alle apparenze e nonostante le tecniche di rapida diffusione del pensiero, diventa sempre più difficile far capire ciò che sottende il lavoro d’archivio in quanto l’archivista non si rivolge più al solo mondo degli specialisti della ricerca storica che, pure con diversi intenti da quelli archivistici, conoscono la realtà delle fonti ed i loro spesso criptici meccanismi; è cambiato l’interlocutore, poiché le sale di studio degli istituti archivistici hanno visto la frequenza di un pubblico più numeroso, ma più eterogeneo e diversificato di quello che le frequentava un tempo.

Oggi l’archivista non può permettersi di essere come consigliava la relazione della Commissione Cibrario nel 1870, per la quale chi fa lavori d’archivio «non sceglie, non illustra, non confronta. Inventaria tutto ... Serve alla storia, non si appassiona per nulla: e finito un registro, ne prende un altro».

Filippo Valenti, nella sua critica al metodo storico37, puntava l’attenzione sul fatto che gli archivi presentano strutture storicamente e intrinsecamente condizionate, e che, pertanto, diventa necessario verificare sul vivo la natura di questo condizionamento.

L’archivio si presenta strutturato secondo un ordine precostituito, è vero, ma è anche il luogo in cui confluiscono parti, settori, aree, brani di vita; il luogo in cui, al di là delle memorie ufficiali, esiste tutto un vasto campo di altre memorie. È proprio in quest’area che l’archivista supera la fase quasi esclusivamente esecutiva, meccanica, del proprio lavoro consistente di norma nel disporre secondo l’ordine dato le carte che gli giungono, perché essere archivista significa anche essere estremamente sensibile al mondo che ci circonda. Significa saper captare i vari ritmi della vita al di là delle istituzioni, significa farsi attori nel saper vedere altri documenti rispetto a quelli ufficiali e contenuti diversi anche in quelli ufficiali.

Per questi motivi l’archivista non sarà più il passivo annotatore di un ordine che trova precostituito, ma dovrà sforzarsi di capire come e perché l’ente o la persona produttori di documentazione hanno voluto tramandare la propria memoria in una determinata forma e con determinate prassi; il suo lavoro dovrebbe consistere nella ricostruzione storica della strategia della memoria del produttore e con questo fine attuare un ordinamento capace di provvedere non soltanto alla consultabilità della documentazione, ma anche spiegare le motivazioni per cui la documentazione è stata proiettata nel futuro38.

Tutto questo l’archivista deve saperlo trasfondere nell’inventario, che solo così sarà veramente un valido mezzo di corredo, dove si potranno leggere i tanti significati presenti nell’archivio, poiché in esso confluiscono i valori diversi che formano la vita con le logiche diverse che la governano.

 

Note

1 Gabriella Cagliari Poli, Il sistema petroniano. In: Gli archivi peroniani (Atti del seminario svoltosi a Milano la 26 gennaio 1993). Milano; Regione Lombardia, 1994, p. 11-18.

2 Leonardo Leo, L’archivio Gambara presso l’Archivio storico del comune di Brescia, in «Brixia Sacra, memorie storiche della diocesi di Brescia», terza serie, VI/1-2 (2001), p. 173-202.

3 Baldassarre Bonifacio, De archivis liber singularis, Venezia, apud Jo. Pinellum Typographum Ducalem, 1632. Sull’argomento si vedano pure: Leopoldo Sandri, Il «De archivis» di Baldassarre Bonifacio, in «Notizie degli Archivi di Stato», X (1950), p. 95-111, in cui l’Autore pubblica integralmente il testo latino; Lestern K. Born, Baldassarre Bonifacio and His Essay «De Archivis», in «The American Archivist», IV (1941), p. 221-237. Altri autori si sono occupati delle tematiche archivistiche, tra questi è noto N. Giussani, Methodus archivorum, seu modus eadem texendi ac disponendi, Milano, Tipografia di Francesco Vigoni, 1634; anche di questo autore si è occupato Leopoldo Sandri, Nicolò Giussani e il suo «Methodus archivorum seu modus eadem texendi ac disponendi», in «Bullettino dell’Archivio paleografico italiano», n.s., II-III (1956-57), p. 330-342. Anche la Chiesa attribuì maggiore importanza alle raccolte documentarie e il papa Benedetto XIII emanò la costituzione «Maxima Vigilantia», il cui testo è pubblicato in Enchiridion archivorum ecclesiasticorum, a cura di Simeon Luca, Città del Vaticano, 1966, p. 104-116, in cui è pubblicata anche la allegata Istruzione per le scritture da riporsi negli archivi, alle pp. 331-376.; si veda pure Ermanno Loevinson, La costituzione di papa Benedetto XIII, in «Archivi italiani» III/3 (1916) e Gino Badini, Archivi e Chiesa. Lineamenti di archivistica ecclesiastica e religiosa, Bologna, Patron Editore, 1984.

4 Roberto Navarrini, Un ordinamento «logico» o «razionale» ovvero «enciclopedico»: il sistema per materie nel Lombardo-Veneto, in Salvatore Bongi nella cultura dell’Ottocento. Archivistica, storiografia, bibliologia, Atti del convegno nazionale, Lucca, 31 gennaio – 4 febbraio 2000, a cura di Giorgio Tori, Roma, Ministero per i beni e le attività culturali, Direzione generale per gli archivi, 2003, II, pp. 773-797.

5 Samuel Muller, Johann A. Feith, Robert Fruin, Ordinamento e Inventario degli Archivi, trad. di Giuseppe Bonelli e Giovanni Vittani, Torino, Unione Tipografico-editrice torinese, 1908.

6 Ibidem, p. 53.

7 Su Francesco Bonaini e la scuola archivistica toscana si veda: Elio Lodolini, Storia dell’archivistica italiana. Dal mondo antico alla metà del secolo XX, Milano, Franco Angeli, 2003, cap. 14, pp. 173-183. Sulla base dei principi enunciati dal Bonaini, Salvatore Bongi redasse quell’opera che fu considerata il più rilevante esempio di lavoro archivistico effettuato seguendo il metodo storico, l’inventario (in realtà guida) dell’Archivio di Stato di Lucca; si veda sull’argomento Paola Carucci, Dalla guida del Bongi alla Guida generale degli Archivi di Stato italiani, in Salvatore Bongi nella cultura dell’Ottocento. Archivistica, storiografia, bibliologia, Atti del convegno nazionale, Lucca, 31 gennaio – 4 febbraio 2000, a cura di Giorgio Tori, Roma, Ministero per i beni e le attività culturali, Direzione generale per gli archivi, 2003, I, pp. 309-316.

8 Antonio Romiti, I mezzi di corredo archivistici, in Idem, Temi di archivistica, Lucca, Maria Pacini Fazzi editore, 1996, pp. 67-102 (cit. a pp. 71-72).

9 Eugenio Casanova, Archivistica, Siena, Lazzeri, 1928.

10 Ibidem, op. cit., p. 253; A. Romiti, op. cit., p. 73.

11 Antonio Romiti, op. cit., p. 74.

12 Lo studio si legge in «L’Archiginnasio», XXXIV (1939), poi in Giorgio Cencetti, Scritti archivistici, Roma, Centro di Ricerca Editore, 1970.

13 Giorgio Cencetti, Inventario bibliografico e inventario archivistico, in «L’Archiginnasio», a. XXIV (1939), pp. 106-117.

14 Antonio Romiti, op. cit., p. 75.

15 Adolf Brenneke, Contributo alla teoria ed alla storia archivistica europea, red. di Wolfgang Leesch, trad. Renato Perrella, Milano, Giuffrè, 1968. Si veda anche F. Valenti, A proposito della traduzione italiana dell’«Archivistica» di Adolf Brenneke, in «Rassegna degli Archivi di Stato», XXIX/2 (1969),
pp. 441-455.

16 Adolf Brenneke, op. cit., p. 30 e ssg.

17 Leopoldo Cassese, Teorica e metodologica. Scritti editi e inediti di paleografia, diplomatica, archivistica e biblioteconomia, a cura di Attilio Mauro Caproni, Salerno, P. Laveglia, 1980.

18 Antonio Romiti, op.cit., p. 76.

19 Alessandro Pratesi, Inventari e altri strumenti di corredo al servizio della scienza, in «Archivi e Cultura», V-VI, nn. 1-2, (1971-1972).

20 Ibidem, p. 113.

21 Antonio Romiti, op. cit., p. 80.

22 Elio Lodolini, Archivistica. Principi e problemi, Milano, Franco Angeli, 1984, p. 178.

23 Paola Carucci, Le fonti archivistiche: ordinamento e inventariazione, Roma, NIS, 1983.

24 Arnaldo D’Addario, Lezioni di archivistica, Bari, Adriatica Editrice, 1972.

25 Tenutosi a Roma nei giorni 3-6 novembre 1982.

26 Vito Domenico Tirelli, L’inventario e la guida dell’archivio. La compilazione, «Archiva Ecclesiae», XXVI-XXVII (1983-1984), pp. 61-77; si veda anche Donato Tamblé, La teoria archivistica italiana contemporanea. Profilo storico critico, Roma, NIS, 1993, p. 171 e ssg.

27 Vito D. Tirelli, L’inventario e la guida, op. cit., p. 62.

28 Ibidem, p. 63.

29 Claudio Pavone, Strumenti per la ricerca, in Intorno agli archivi e alle istituzioni. Scritti di Claudio Pavone, a cura di Isabella Zanni Rosiello, Roma, Direzione Generale per gli Archivi, 2004 (Pubblicazioni degli Archivi di Stato, Saggi 84), 83-88, già edito con il titolo Le rapport entre l’archiviste et le chercheur. L’inventaire d’après la structure et l’iventaire d’après la matière. Les index. Pour une normalisation des instruments de recherche, in «Archivum», XXIV (1984), pp. 178-181.

30 Claudio Pavone, Ma è poi tanto pacifico che l’archivio rispecchi l’istituto?, in «Rassegna degli Archivi di Stato», XXX/1 (1970), pp. 145-149; ora anche in Intorno agli archivi e alle istituzioni. Scritti di Claudio Pavone, a cura di Isabella Zanni Rosiello, Roma, Direzione Generale per gli Archivi, 2004 (Pubblicazioni degli Archivi di Stato, Saggi 84), pp. 71-75.

31 Giuseppe Plessi, Compendio di archivistica, Bologna, Editrice Clueb, 1990.

32 Ibidem, p. 125.

33 Antonio Romiti, Aspetti metodologici e criteri organizzativi dell’inventariazione archivistica, in «Archivi e cultura», XIV (19980), pp. 197-215; ora anche in Idem, Temi di archivistica, Lucca, Maria Pacini Fazzi editore, 1996, pp. 145-166; si veda anche Idem, Archivistica tecnica. Primi elementi. Gli Elenchi, le Guide e gli Inventari archivistici, Lucca, Civita Editoriale, 2004.

34 Antonio Romiti, Aspetti metodologici e criteri organizzativi dell’inventariazione, in Temi di archivistica op. cit., p. 150n.

35 Antonio Romiti, Aspetti metodologici e criteri organizzativi dell’inventariazione archivistica, in Temi di archivistica, op. cit., pp. 154-155.

36 Virgilio Giordano (Archivistica e beni culturali, Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia editore, 1978) classifica i mezzi di corredo anche quali «chiavi di ricerca» e l’inventario serve fondamentalmente a rintracciare o ‘invenire’ i singoli documenti e nello stesso tempo a garantire l’integrità delle serie archivistiche conservate.

37 Filippo Valenti, Parliamo ancora di archivistica, in «Rassegna degli Archivi di Stato», XXX-XXXV (1975), pp. 161-197.

38 Roberto Navarrini, Archivi e archivisti nella società d’oggi, in «Studi Bresciani. Storia. Cultura. Società», 1, gennaio-aprile 1980, pp. 109-116.

 

 

 

P.S.: Nel testo corrente sono state omesse, per questioni tecniche, le immagini.

 

 

 

 

 

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