Tiziana Macaluso - Silvia Zappalà

 

ELEMENTI DI CONSERVAZIONE E RESTAURO DELLA FOTOGRAFIA STORICA

 

 

 

La conservazione delle immagini fotografiche è una disciplina piuttosto recente se si considera che, perlomeno in ambito italiano, solo negli ultimi decenni si è sentita l’esigenza di parlare di restauro anche in termini fotografici. Fino ad allora la fotografia era stata relegata al ruolo di arte minore e comunque non considerata come bene da tutelare. Attualmente, in un contesto in cui le immagini sono diventate ancor più manifestazione del nostro tempo, non si può ignorare il notevole interesse che essa possiede come documento storico e artistico da salvaguardare.

Se in campo moderno siamo ormai consapevoli delle capacità espressive e delle caratteristiche esclusive della fotografia, si deve osservare che, fin dalle origini, ogni immagine si collocava come oggetto unico e differenziabile essendo il prodotto di lavorazioni artigianali e di ricette che potevano variare di volta in volta e da fotografo a fotografo. Infatti, anche se con l’avvento dei procedimenti più evoluti, e siamo quindi negli anni ’80 del XIX secolo, si è avuta una standardizzazione dei processi di produzione, i risultati estetici e qualitativi finali rimanevano a discrezione dei singoli autori. Inoltre, le caratteristiche materiche delle immagini giunte fino a noi sono da ricercarsi nei segni lasciati dal tempo e dai fattori conservativi che lo contraddistinguono. Per queste motivazioni è importante considerare che ogni fotografia deve essere valutata nelle sue qualità specifiche e quindi l’approccio al restauro e alla conservazione dei beni fotografici non può essere generalizzato o accomunato ad altre discipline d’intervento su beni più tradizionalmente riconosciuti.

Entra così in gioco lo studio analitico sia dei procedimenti fotografici, che secondo una suddivisione generale sono già un numero rilevante senza contare tutte quelle varianti che l’estro e le capacità alchemiche di molti fotografi del passato hanno reso pressoché infinite, sia della corretta applicazione pratica degli interventi.

In questo breve excursus sul restauro fotografico, quindi, si cercherà di fornire alcune indicazioni di base su questioni comunemente rinvenibili nelle raccolte fotografiche tralasciando i numerosi casi particolari. Si analizzeranno, inoltre, le problematiche che più frequentemente si possono riscontrare su quei procedimenti fotografici positivi che hanno avuto una maggiore diffusione e commercializzazione a cavallo tra la prima e la seconda metà dell’Ottocento in poi e che hanno avuto una progressiva evoluzione volta a migliorarne le qualità e la produzione, cioè le stampe su carta all’albumina, su carta aristotipica e alla gelatina.

 

Principali procedimenti di stampa

In prima analisi si daranno alcune indicazioni generali sulla tecnica di manifattura considerando che le fotografie positive prese in considerazione derivano da procedimenti riproducibili cioè ottenuti attraverso cliché fotografici, i negativi, dai quali possono essere «tirati» più esemplari.

Anche il negativo subì un’evoluzione tecnica: con l’introduzione del procedimento negativo su supporto di vetro nel 1847, ad opera di Nièpce de Saint-Victor, si sostituì il supporto di carta fino ad allora impiegato e si utilizzò l’albume come legante per disperdere i sali necessari alla sua realizzazione. Rispetto alla carta, il vetro aveva il vantaggio di essere più trasparente e quindi si potevano ottenere stampe maggiormente nitide e definite. Successivamente, nel 1851, F. Scott Archer sostituì l’albume con il collodio che, fino alla diffusione nel 1880 circa della gelatina bromuro d’argento, fu il legante della tecnica più utilizzata e ottimale per la produzione di negativi grazie alla maggiore sensibilità che permetteva tempi di ripresa di pochi secondi.

 

Stampe su carta all’albumina

Sulla base delle evoluzioni del negativo, nel 1850, Louis-Désiré Blanquart-Evrard introdusse il procedimento su carta all’albumina con il quale si potevano ottenere immagini più contrastate, brillanti e definite rispetto alla prima tecnica di stampa su carta salata. L’immagine, infatti, non era più inglobata tra le fibre della carta e quindi confusa nelle irregolarità strutturali dei filamenti fibrosi, ma venne isolata da uno strato di albumina contenente cloruro di sodio sul quale al momento dell’utilizzo veniva steso nitrato d’argento.

L’albumina utilizzata era quella sostanza vischiosa che si veniva a depositare sul fondo di un contenitore dove l’albume d’uovo, dopo essere stato battuto «a neve», veniva lasciato riposare.

La carta, sempre di ottima qualità e particolarmente sottile, era poi fatta galleggiare sul liquido, opportunamente filtrato e addizionato di cloruro di sodio, lasciata asciugare e stagionare per alcuni giorni e poi fatta fluttuare sul nitrato d’argento in modo da dare origine al cloruro d’argento sensibile alla luce. La carta era così pronta per l’esposizione alla luce e quindi per l’annerimento diretto all’interno di un torchietto fotografico con tempi che potevano variare secondo l’intensità della fonte luminosa. Una volta impressionata, l’immagine si fissava in iposolfito di sodio e generalmente si virava all’oro per ottenere tonalità più gradevoli delle originarie che potevano variare dal rosso arancio fino al bruno porpora in funzione del bagno di viraggio impiegato.

Si parla in questo caso di procedimento a due strati secondo lo schema che segue:

Al legante poteva essere aggiunto un colorante o poteva essere effettuata una colorazione a mano ad acquarello o tempera per contrastare l’inevitabile ingiallimento alla luce della proteina dell’albume. Inoltre, sulla superficie, già di per se più o meno lucida, poteva essere stesa una vernice che la rendeva ancora più brillante.

Il successo commerciale fu enorme come testimoniano, per esempio, i tipici ritratti nel formato denominato «carte de visite» (circa 6 x 10 cm), reso celebre nel 1854 da Adolphe Eugène Disdéri. Da questo momento numerosi «ateliers» presero a produrre massivamente fotografie e sorsero vere e proprie industrie di settore per la produzione di carte da stampa semi-pronte all’uso. Bisogna attendere comunque l’avvento dei procedimenti aristotipici, ed in particolare della tecnica alla gelatina bromuro d’argento, per poter parlare di «era industriale» in fotografia, epoca in cui le carte fotografiche diventarono pronte all’uso secondo una fabbricazione meccanizzata.

Osservando oggi una stampa su carta all’albumina sono spesso visibili degradazioni caratteristiche di questa specifica tecnica di cui le più importanti sono: l’ingiallimento diffuso su tutta la superficie, ed in particolare nelle zone chiare, dovuto alla reazione tra gli zuccheri e gli amminoacidi della proteina albumina (reazione di «Maillard»); le «crettature», cioè fessurazioni dello strato di albumina dovute alla tendenza naturale del legante a reticolarsi per le diverse tensioni che si generano tra la carta e l’immagine, in seguito a sbalzi d’umidità; l’arrotolamento delle stampe su se stesse a formare un tubo se non montate su un supporto rigido; lo «specchio d’argento», di cui si parlerà in seguito.

 

Aristotipi

Con il termine aristotipi si indicano le stampe su carta celloidina (aristotipi al collodio cloruro d’argento) se ottenute utilizzando il collodio come legante e le stampe su carta al citrato (aristotipi alla gelatina cloruro d’argento) se preparate con la gelatina.

Le carte aristotipiche, che dominarono tra il 1884 e il 1930 circa, a differenza delle stampe su carta all’albumina, avevano la caratteristica di essere preparate con uno strato bianco di solfato di bario sciolto con gelatina, chiamato barite, che aveva lo scopo di isolare le fibre della carta e di rendere la superficie nettamente più lucida e liscia, e l’immagine ancora più nitida e profonda.

Le fasi di realizzazione di un aristotipo consistevano essenzialmente nella stesura di una soluzione calda di gelatina o di collodio, cioé dinitrocellulosa sciolta in alcool ed etere, addizionata con sali alcalini e nitrato d’argento tenuto in eccesso che, reagendo tra di loro, formano il composto fotosensibile cloruro d’argento. Il nuovo procedimento risultò ancora più sensibile alla luce, anche il doppio, ed aveva inoltre il vantaggio di permettere il viraggio-fissaggio in un solo bagno e soprattutto, a differenza dell’albumina, sembrava ingiallire meno con il passare del tempo.

La tonalità di queste stampe era calda e bruna su una superficie lucida, mat o satinata e, con l’aggiunta di pigmenti alla barite, poteva assumere colorazioni rosa, malva o azzurre.

Si tratta ancora di procedimenti ad annerimento diretto ma in questo caso, con l’aggiunta del baritaggio, a tre strati:

 

Per quanto riguarda le degradazioni caratteristiche di questi materiali si possono comunemente riscontrare distacchi dell’emulsione dallo strato sottostante di barite, graffi più o meno profondi soprattutto per le carte al collodio e lo «specchio d’argento» visibile quasi esclusivamente sugli aristotipi alla gelatina che catalizza in maggior misura questo processo.

 

Stampe su carta alla gelatina bromuro d’argento

Le tecniche di ripresa e stampa videro un’ulteriore evoluzione con l’introduzione del processo di sviluppo in un rivelatore. Non si trattò più di un metodo di stampa per annerimento diretto in cui l’immagine si rivelava dopo l’esposizione ad una sorgente di luce, bensì l’immagine rimaneva sulla carta allo stato latente e, solo per mezzo dello sviluppo chimico, a cui seguivano il fissaggio e il lavaggio, era visibile nei dettagli.

Era comunque anch’esso un procedimento con baritaggio a tre strati, ma in questo caso il sale disperso nella gelatina era il bromuro d’argento, notevolmente più sensibile rispetto al cloruro d’argento e quindi capace di diminuire di molto i tempi di esposizione e stampa.

Verso il 1890, furono anche prodotte carte a sviluppo al cloruro d’argento e al cloro-bromuro d’argento chiamate «gas-light» per intendere che potevano essere trattate anche in presenza di un po’ di luce. In questo modo si ottennero immagini dalle tonalità più neutre e fredde e dalle finiture più varie: dal mat, al brillante, al satinato su carte levigate o ruvide e con colorazioni che potevano cambiare secondo i bagni di viraggio che le stampe avevano subito.

Quanto ai degradi tipici il più caratteristico è il già indicato specchio d’argento che, nonostante possa essere presente in altri procedimenti argentici, nelle stampe su carta alla gelatina bromuro d’argento è molto più diffuso e riconoscibile perché favorito dall’alta reattività della gelatina all’umidità.

Descritte le tecniche che più facilmente sono ritrovabili negli archivi fotografici si comprende meglio perché, volendosi confrontare sul tema della conservazione, la prima considerazione di cui tener conto è che si tratta di beni estremamente instabili, fragili e deteriorabili. Ciò risulta evidente soprattutto perché la fotografia, a differenza di un documento, di una stampa o di un disegno su carta, comprende nella sua struttura diverse sostanze capaci di reagire in modo del tutto arbitrario alle sollecitazioni dell’ambiente in cui è conservata.

 

Fattori di degrado

Numerose sono le cause di deterioramento che possono compromettere il bene fotografico e spesso trovano difficile o impossibile soluzione. I principali fattori possono essere riassunti in due classi fondamentali: fattori esterni, imputabili soprattutto all’ambiente di conservazione, e fattori interni, derivanti dai processi di fabbricazione o dai materiali impiegati per la produzione dell’opera.

 

Fattori esterni

La manipolazione non corretta da parte dell’uomo di una stampa fotografica, come di una qualsiasi opera d’arte, può causare danni fisici deturpanti quali strappi, pieghe, lacune, deformazioni e macchie di vario genere.

Sono inclusi naturalmente anche gli interventi di restauro impropri ed in particolare l’uso che si è fatto in passato di colle o nastri adesivi non conservativi e di carte e cartoni acidi. Spesso, infatti, stampe prodotte su carte di ottima qualità si trovano, per molteplici motivi, incollate in pieno su cartoni fabbricati con impasti contenenti prevalentemente lignina che hanno con il tempo degradato in maniera permanente l’opera.

Altri fattori esterni di degrado possono derivare da reazioni dell’immagine fotografica e del suo supporto con un ambiente di conservazione non idoneo: ad esempio, i composti dello zolfo presenti nell’aria reagiscono con l’argento dell’emulsione fotografica creando ingiallimenti diffusi o localizzati. Anche l’elevata umidità dei depositi di archiviazione può favorire l’insorgere di degradi ed, in particolare, può causare il già citato fenomeno dello «specchio d’argento» che consiste nel deterioramento delle particelle d’argento che tendono a migrare verso la superficie dell’emulsione creando un’antiestetica e deturpante patina bluastra.

Inoltre, è opportuno osservare che sbalzi termoigrometrici repentini possono portare al distacco di porzioni più o meno grandi di emulsione o a deformazioni del supporto cartaceo con relative tensioni e rotture. Sebbene, come vedremo, non siano consigliati valori elevati di temperatura ed umidità relativa, si deve comunque cercare un compromesso valido per stabilizzare le opere ed evitare di sottoporle a variazioni improvvise, come ad esempio spesso può avvenire tra il clima diurno e quello notturno di un’area espositiva.

Temperatura, umidità ed inquinamento atmosferico possono accelerare i processi di deterioramento foto-chimico causati dall’esposizione alla luce con la conseguenza di favorire ingiallimenti, solfurazioni, sbiadimenti in particolare dei coloranti delle fotografie a colori e, in generale, di aumentare la fragilità dell’immagine.

Altri fattori di degrado imputabili a cause esterne sono quegli eventi ambientali, come alluvioni, incendi e terremoti, che possono danneggiare indelebilmente un fondo fotografico sia direttamente (acqua, fango, detriti, ecc.), sia a causa degli interventi attuati dall’uomo per ragioni di sicurezza (prodotti antincendio).

Anche gli attacchi di microrganismi, di insetti o roditori, sia sotto forma di erosioni sia come depositi di materia organica, sono da considerare fattori esterni di degrado e possono causare la perdita di parti significative d’immagine. La gelatina, infatti, in condizioni climatiche particolari e cioè con valori alti di temperatura e umidità relativa, costituisce un terreno fertile per lo sviluppo di muffe e batteri che possono manifestarsi con macchie fortemente colorate e a volte con distacchi dello strato immagine dal suo supporto. Nei casi limite si può arrivare a vere e proprie decomposizioni e rammollimenti della gelatina e alla polverizzazione del supporto cartaceo. Nel caso di sospetta attività microbiologica si raccomanda di rivolgersi ad un biologo specializzato che, in seguito a prelievi ed analisi di laboratorio, può stabilire l’entità del danno e le misure da adottare.

Anche i materiali originali di conservazione come buste e scatole possono incidere sullo stato conservativo. Infatti, se le fotografie non sono state sufficientemente protette in contenitori chiusi possono venire a contatto con grandi quantità di polvere e sporcizia e di conseguenza si possono produrre abrasioni e graffi che nei procedimenti al collodio, particolarmente fragili alle sollecitazioni meccaniche, diventano vere e proprie reticolazioni o lacune. Inoltre, questi elementi, degradando essi stessi, sono capaci di rilasciare sostanze nocive in grado di favorire o catalizzare ulteriori alterazioni.

 

Fattori interni

Le operazioni di manifattura di una fotografia possono essere motivo di forti deterioramenti sia per la natura dei prodotti chimici impiegati sia a causa di trattamenti non sempre condotti a regola d’arte.

Un lavaggio poco accurato o un fissaggio esaurito, dove cioè non venga eliminato del tutto l’iposolfito di sodio usato per il fissaggio, sono in grado di portare all’ingiallimento, alla formazione di macchie e al successivo sbiadimento dell’immagine.

Per quanto riguarda invece il supporto cartaceo bisogna tenere presente che eventuali impurità sono spesso motivo di interazioni con i costituenti dell’immagine stessa. Ad esempio, in determinate condizioni ambientali e agevolate da concause biologiche, possono provocare, tra gli altri, il fenomeno del foxing che si presenta sotto forma di macchie brune e rossicce più o meno estese.

Singolare è il caso di pregevoli procedimenti che impiegano metalli come il platino che, pur se conosciuti per l’alta stabilità possono produrre una sorta di impronta speculare dell’immagine sulle eventuali carte conservate a contatto diretto.

 

Degradi caratteristici del materiale fotografico

Per avere un’esemplificazione di quali e quanti siano i problemi riscontrabili in un fondo fotografico di stampe positive si prenderanno in esame alcuni degli effetti reali causati dai fattori appena osservati che possono per facilità essere sintetizzati negli schemi seguenti:

Esaminate brevemente le maggiori categorie di degrado delle fotografie positive, si affronteranno ora i principali metodi d’intervento considerando che il restauratore, nell’affrontare le difficoltà pratiche trovate già in fase di progettazione, deve optare per procedure calibrate nel rispetto di ogni singolo oggetto. Dovrà, quindi, evitare metodi di recupero non convalidati a livello scientifico o sufficentemente sperimentati consapevole di agire in una disciplina ancora non del tutto esplorata. Un’attenta analisi finalizzata ad individuare la tecnica di manifattura è il punto di partenza per definire gli interventi che andranno differenziati secondo il procedimento esecutivo.

Generalmente la prima operazione, e una delle più importanti, consiste nella pulitura sia dello strato immagine che del suo supporto per consentire nei casi più critici di rendere più leggibile l’immagine e di eliminare, o perlomeno di attenuare, la polvere, lo sporco e le macchie più superficiali. Come già spiegato, queste sono potenziali fonti di degrado chimico e biologico perché, ad esempio, in condizioni di umidità relativa e temperatura non idonee le spore di microrganismi contenute nella polvere hanno la capacità di favorire lo sviluppo di muffe o batteri che, una volta attivati, riescono a creare danni irreparabili.

In presenza di sostanze più difficili da eliminare a secco si possono eseguire delle puliture a solvente, prestando comunque molta attenzione alla solubilità del legante e di eventuali timbri ed iscrizioni.

Le lacerazioni e le pieghe sono «curate» intervenendo sul verso con rinforzi di carta giapponese di idonea grammatura in modo da tenere uniti i lembi di uno strappo o per supportare la cicatrice di una piega, utilizzando adesivi a base alcolica o idrosolubili.

Le lacune dell’immagine e del supporto secondario, invece, si ricostruiscono con carte conservative adeguatamente ritoccate a riprendere la tonalità media delle colorazioni circostanti ed adagiate su una base di sostegno, generalmente in carta giapponese, secondo tecniche differenti in funzione del tipo di lacuna e di supporto.

Nel caso di distacchi di emulsione dalla base cartacea si può intervenire con infiltrazioni di adesivo conservativo per consolidare e far nuovamente aderire lo strato al suo supporto.

Anche per l’integrazione cromatica eseguita direttamente sull’opera si deve considerare che, secondo l’etica del restauro, l’immagine non deve essere ricostruita e che la tonalità del ritocco deve essere visibilmente più chiara rispetto all’originale. In sintesi ciò che vale per ogni intervento di restauro è che debba deve essere riconoscibile, reversibile ed impiegare tassativamente materiali idonei e scientificamente testati.

È frequente per un restauratore il confronto con situazioni ancora più complesse come per esempio il caso di una fotografia incollata ad un cartone di supporto secondario fortemente inacidito e degradato. In questo contesto è valutabile la possibilità di un distacco, ma bisogna sempre considerare l’effettiva necessità di un’operazione così laboriosa e fortemente stressante per le fotografie e calcolarne responsabilmente rischi e benefici. Inoltre, la presenza su un supporto secondario di timbri, marchi, firme o iscrizioni, intimamente legate al passato dell’immagine, non facilita la scelta di separare o meno un oggetto che storicamente si colloca come indissolubile. In questi casi la valutazione deve essere condotta in cooperazione tra il conservatore e il restauratore studiando soluzioni alternative quali, per esempio, un’eventuale interfoliazione tra l’originale fotografico e il suo supporto: l’originale potrebbe essere distaccato e foderato con un foglio di carta conservativa con la funzione di evitare il contatto diretto ma ricostituendone allo stesso tempo l’integrità. In ogni caso una sistematica conservazione in materiali e ambienti idonei è assolutamente consigliabile in queste circostanze.

Per quanto riguarda i degradi di origine chimica, come già indicato sopra, purtroppo ben poco è possibile fare e quindi, ad oggi, un valido compromesso resta quello di stabilizzare il più possibile la fotografia con una corretta archiviazione. La conservazione preventiva, quindi, assume valore imprescindibile quale mezzo per eliminare o rallentare le cause di degrado e per preservare le opere nel tempo, aspetti sui quali ci si soffermerà nel prossimo paragrafo.

 

La conservazione dei materiali fotografici

Apparentemente le regole da seguire possono sembrare simili a quelle generalmente adottate nel campo della conservazione libraria e cartacea, ma si distinguono per alcune differenze di significativa importanza.

Una volta conosciuti i principali fattori di deterioramento di una fotografia, si può valutare con maggiore chiarezza quali elementi monitorare al fine di applicare una corretta conservazione. Naturalmente, come si è detto, si deve tenere conto anche della natura e della tecnica della fotografia in questione ed adottare di volta in volta le necessarie cautele.

Quali sono quindi le condizioni ambientali di conservazione consigliabili in un archivio fotografico?

In generale, si può affermare che è necessario mantenere una temperatura (T.) compresa tra 18°C e 20°C, un’umidità relativa (U.R.) tra il 30% ed il 50% con oscillazioni max ± 5% e un’illuminazione massima di 150 Lux. Ci sono comunque eccezioni che possono complicare il lavoro del conservatore: il materiale fotografico a colori, ad esempio, per sua natura necessita di una conservazione in un ambiente molto freddo e ventilato, con una temperatura cioè inferiore a 0 °C ed è assolutamente sconsigliata la sua esposizione anche temporanea alla luce.

I parametri sopraindicati trovano spiegazione nel fatto che oltre i 25 °C di T. e il 50-60% di U.R. l’immagine si deteriora e si favorisce lo sviluppo di microrganismi, mentre sotto il 25% di U.R. si possono avere deformazioni e tendenza alla fragilità.

Questi sono i parametri da osservare quanto più possibile, anche se non sempre per motivi di esposizione o di fruizione le direttive conservative sono del tutto attuabili. Non potendo fare altrimenti, vale il discorso di adottare stabilmente parametri leggermente difformi da quelli standard piuttosto che sottoporre le opere a bruschi sbalzi termoigrometrici. Ciò sarebbe estremamente più dannoso di un ambiente lievemente più caldo o più umido del dovuto: le oscillazioni di temperatura e grado di umidità ambientale, infatti, possono creare dilatazioni o restringimenti del supporto cartaceo in modo completamente diverso rispetto a quelli patiti dall’emulsione fotografica e produrre distacchi tra i due strati danneggiando irrecuperabilmente la fotografia.

Si deve poi considerare che è necessario un ulteriore compromesso per consentire condizioni sopportabili anche per la fruizione da parte degli operatori e dei conservatori. Si dovrebbe perciò prevedere negli archivi una zona transitoria tra il deposito e l’area di consultazione dove i valori ambientali possano essere mantenuti ad un livello intermedio per abituare il materiale fotografico alle nuove condizioni ed evitare inutili stress per le opere.

Oltre ad un habitat adeguato per la conservazione, ottenuto con la climatizzazione dei locali e la filtrazione degli inquinanti, si deve adottare una corretta procedura di manutenzione. Soprattutto bisogna limitare l’accumulo di polvere e sporcizia predisponendo delle spolverature periodiche, affidare la manipolazione delle opere a personale qualificato ed istruito in tal senso e procedere con le operazioni di restauro solo dopo un’attenta analisi e valutazione della concreta necessità d’intervento.

Una pratica che ultimamente sta diventando comune in campo archivistico è la riproduzione delle immagini in digitale per creare archivi informatici utili, oltre che a una loro più ampia divulgazione, ad evitare il danneggiamento degli oggetti fotografici in seguito alla consultazione. Questo, anche se consente la conservazione degli originali e limita la manipolazione da parte dell’uomo, non può essere considerato come la soluzione ai problemi di conservazione. Spesso infatti si tende a «dimenticare» l’originale non valutando che molte delle informazioni si perdono con la sua riproduzione e che le tecnologie, in continua evoluzione, non sono in grado di garantire la sua durata nel tempo per problemi legati ai supporti informatici e agli strumenti impiegati per la sua lettura.

 

Materiali per la conservazione

Oltre all’ambiente di conservazione si deve determinare accuratamente anche il materiale che sarà in prossimità della fotografia. Una delle principali differenze nella conservazione di materiale fotografico, rispetto a quello cartaceo, riguarda l’utilizzo di carte con o senza riserva alcalina. Alcune tecniche, come ad esempio la cianotipia che nasce in ambiente acido, se conservate a contatto con carte alcaline tendono a scomparire. Anche le fotografie a colori attuali e le albumine non devono essere conservate a contatto con materiale tamponato ed è ormai opinione comune che siano da evitare anche per altri procedimenti. Comunque sia, delle mediazioni andrebbero operate per alcune tecniche: le albumine, ad esempio, notoriamente risentono di un ambiente fortemente alcalino, ma spesso le condizioni in cui si trovano i supporti, cartoni acidi o incollati con adesivi di pessima qualità, rendono necessario l’utilizzo di un tampone per cercare di frenare il conseguente deterioramento dell’immagine.

Oggi esistono prodotti appositamente studiati per l’archiviazione delle fotografie che sono stati sottoposti cioè, dopo i controlli per la carta permanente, anche a test specifici per misurare la reattività dell’immagine fotografica con i materiali con i quali essa viene a contatto, determinando la tendenza di un’immagine a scolorire o ad alterarsi: il cosiddetto P.A.T. (Photographic Activity Test - ANSI Standard IT9.16).

I contenitori protettivi (buste e scatole) devono essere inerti nei confronti dei materiali fotografici, cioè non devono contenere acidi, perossidi, zolfo, lignina, plastificanti, sostanze abrasive o igroscopiche e soprattutto devono offrire una protezione fisica efficace, devono cioè essere di forma e dimensioni opportune a seconda dell’utilizzo, del materiale da conservare e degli spazi di archiviazione disponibili.

Esistono differenti tipologie di contenitori protettivi a cominciare dalle custodie cartacee che, essendo opache e porose, offrono il vantaggio di proteggere l’originale dalla luce e di lasciare «respirare» il fototipo, sono poco costose e facilmente scrivibili. Hanno però l’inconveniente di non permettere la visione diretta del contenuto e, in condizioni non idonee di climatizzazione e filtrazione dell’aria, possono assorbire umidità e gas nocivi.

In commercio si trovano diversi tipi di custodie cartacee adatte ai differenti usi: buste con uno o due lati aperti dove l’adesivo utilizzato deve essere libero da acidi e privo di sostanze reattive con l’argento oppure buste senza giunture e senza adesivi formate da un semplice foglio di carta conservativa ripiegato o sagomato con tre o quattro lembi da sovrapporre. Anche una semplice cartella formata da un foglio piegato a metà offre una protezione efficace.

Le buste in plastica, a differenza di quelle cartacee, sono trasparenti e permettono la visione diretta dell’opera, isolano la fotografia dall’ambiente in cui si trova ma non la proteggono dalla luce, lasciano respirare meno il fototipo e sono più flessibili. Anch’esse devono, essere chimicamente stabili e non contenere prodotti dannosi che possono essere rilasciati nel tempo. Sono quindi consigliati materiali quali il poliestere, il polietilene e il polipropilene mentre è da evitare il polivinilcloruro (PVC) o altri materiali contenenti cloro. Possono presentarsi in forma di buste con un lato aperto, di solito unite a caldo o ad ultrasuoni senza uso di adesivi, oppure aperte su due o tre lati.

Una soluzione valida è quella formata da un foglio di poliestere termosaldato ad uno in carta o cartoncino (sistema di archiviazione pHidoc-Stouls) che ha il pregio di proteggere, sostenere e permettere la visione diretta dell’oggetto senza alcuna manipolazione.

L’incapsulazione, cioè l’immissione dell’originale tra due fogli di poliestere sigillati con nastri biadesivi o a caldo, sarebbe assolutamente da evitare: crea infatti un isolamento totale dall’ambiente circostante e, a lungo andare, può favorire la formazione di condensa all’interno della busta e l’accumulo di gas prodotti spontaneamente dall’emulsione fotografica o dal supporto cartaceo.

Una protezione efficace ed esteticamente gradevole è offerta dal passe-partout che consiste in una cartella in cartoncino dove una finestra inquadra l’originale fissato al cartone di supporto tramite cerniere in carta giapponese o angoli. Deve essere eseguito su misura con materiali (cartone, adesivi, angoli o cerniere) conservativamente idonei e può essere più o meno spesso a seconda che sia confezionato per l’archiviazione (più sottile) o per l’esposizione (più spesso). Il passe-partout consente di sostenere e di visionare l’opera senza alcun maneggiamento, anche in caso di trasporto o spedizione, e valorizza meglio la fotografia con l’inconveniente però di occupare sicuramente più spazio di una busta.

Qualunque sia il materiale utilizzato per la protezione delle stampe (buste in carta, plastica o prodotte dall’accoppiamento di entrambi) si deve prevedere anche l’utilizzo di ulteriori contenitori come scatole a conchiglia con coperchio attaccato o scatole semplici con coperchio staccato che permettono l’archiviazione in orizzontale delle opere. In questo caso si deve stimare la quantità di materiale da inserire per ogni scatola in modo da non appesantire e comprimere le stampe conservate al di sotto. In alternativa si possono utilizzare scatole ad anelli dove gli originali sono custoditi all’interno di specifiche buste con una o più tasche e conservati preferibilmente in orizzontale o altrimenti in verticale a seconda del modello e delle esigenze conservative.

Questi contenitori devono essere fabbricati con cartone idoneo e aver superato gli appositi test (Long Life ISO 9706 e Photographic Activity Test).

 

 

Regole di base per una corretta esposizione delle opere

Il momento più critico per un’opera d’arte è sicuramente quello dell’esposizione. Devono essere rispettate delle precise regole per evitare che la fotografia subisca shock che possano pregiudicare la sua esistenza e la possibilità di fruizione futura.

Il primo passo consiste in un’attenta analisi dello stato in cui si trova l’opera per definire la fattibilità della sua esibizione. Questa operazione e quelle che seguiranno dovrebbero essere condotte in stretta collaborazione tra il conservatore, il restauratore e lo staff tecnico-scientifico che curerà l’allestimento in modo da valutare i rischi ai quali si sottopone l’opera ed adottare i dovuti accorgimenti.

La progettazione di una mostra fotografica consiste prima di tutto nello scegliere, con sufficiente anticipo, quali fotografie esporre in modo da poter valutare preventivamente gli eventuali interventi di montaggio e di restauro, considerando che i tempi occorrenti per la messa in sicurezza delle opere possono essere anche molto lunghi.

Si dovrà prevedere inoltre l’eventuale trasporto in contenitori idonei ed il montaggio delle opere effettuato da personale qualificato procedendo anche a stipulare un’idonea polizza assicurativa.

Quanto agli ambienti previsti per la mostra necessiteranno del monitoraggio, per un determinato tempo, dei valori di temperatura, umidità relativa, irraggiamento ed aerazione del locale, operazione per la quale è necessario l’utilizzo di speciali apparecchiature in grado di misurare i valori nell’arco della giornata e della notte. Se dalle verifiche effettuate risultassero valori non conservativamente idonei, o sbalzi pericolosi di calore ed umidità, sarà opportuno pensare al risanamento dell’ambiente espositivo, o alla scelta di un luogo alternativo dove presentare al pubblico le fotografie.

La programmazione corretta di una esposizione farà in modo di evitare di immettere il materiale fotografico in spazi dove siano ancora presenti composti chimici emanati dalle vernici impiegate per lavori di tinteggiatura e di ristrutturazione o da altri prodotti nocivi esalati dagli arredi.

Un’altra valutazione importante ai fini conservativi è la scelta del tipo di illuminazione da adottare per l’esposizione.

I parametri da considerare sono l’emanazione di raggi infrarossi (I.R.) da parte della sorgente luminosa utilizzata, e quindi di calore prodotto, l’emissione di raggi ultravioletti (U.V.), l’intensità luminosa ed il tempo di esposizione alla luce.

I raggi infrarossi, emessi in particolare dalle lampade al tungsteno e da quelle alogene, creano un riscaldamento eccessivo soprattutto se utilizzate nelle immediate vicinanze della fotografia da illuminare o all’interno di vetrine chiuse.

I raggi ultravioletti, invece, sono emanati generalmente da tutte le fonti luminose in proporzioni variabili, ma la più alta formazione di U.V. si ha con l’utilizzo di lampade alogene e con le fluorescenti. Sono in commercio filtri specifici, da apporre sulla sorgente luminosa o a contatto del montaggio dell’opera, che sono in grado di schermare una buona percentuale dei raggi emessi.

L’intensità luminosa da adottare, come già accennato, dipende dalla tecnica fotografica che si vuole esporre. Le fotografie a colori, ad esempio, sono molto sensibili all’azione della luce che porta con il tempo allo sbiadimento non omogeneo dell’immagine: i coloranti che la compongono infatti assorbono le radiazioni luminose subendo una trasformazione in composti incolori. Il problema è che ciò avviene in maniera differente per ogni colorante che compone la fotografia e porta ad uno sbilanciamento cromatico dell’immagine. In questo, come in altri casi, si dovrebbe evitare l’esposizione degli originali o quantomeno limitare l’intensità luminosa al di sotto dei 50 Lux. È comprensibile però che tali valori non siano sufficienti per far apprezzare un’opera d’arte in tutte le sue qualità tonali ed è per questo motivo che si cerca di volta in volta una mediazione tra le esigenze conservative e quelle di fruizione della fotografia.

Esistono sistemi appositamente studiati per evitare danni alle opere e consentire la perfetta visione delle diverse tonalità dell’immagine. Sarebbe comunque auspicabile, prima di una esposizione, monitorare lo stato in cui si trova l’originale attraverso l’utilizzo di apposite apparecchiature, come il densitometro, in grado di registrare eventuali cambiamenti della densità dell’immagine non sempre visibili ad occhio nudo.

Per una perfetta resa tonale sarebbe inoltre opportuno schermare le finestre presenti nella sede espositiva al fine di annullare totalmente ogni contaminazione esterna che possa danneggiare l’originale o semplicemente falsare la percezione visiva dell’osservatore.

Un ottimo risultato lo si può ottenere anche con l’illuminazione per mezzo di fibre ottiche che, oltre a produrre un tipo di luce neutra in grado di non modificare le tonalità della fotografia, permettono di direzionare il fascio luminoso solo sull’oggetto da esporre ed hanno una bassa emissione di raggi ultravioletti ed infrarossi.

A questo proposito si può aggiungere che la quantità di radiazioni assorbite da una fotografia se da un lato dipendono dalla qualità e dall’intensità della sorgente luminosa, dall’altro derivano dalla durata della sua esposizione. Se, ad esempio, le prescrizioni conservative dispongono che il totale dei Lux/h in un arco temporale stabilito di 8 ore al giorno per due mesi non debba superare i 24.000 lux/h, si può decidere se esporre gli originali per 2 mesi a 50 Lux oppure per 1 mese a 100 Lux o ancora limitare le ore per ogni giorno di esposizione, e così via.

Concludendo questo elenco dei principali accorgimenti da osservare per una corretta conservazione di stampe fotografiche è utile ricordare la necessità di operare solo attraverso l’interazione di professionalità qualificate in grado di valutare ed agire attivamente secondo direttive scientificamente approvate.

 

 

Bibliografia consigliata

A. FEININGER, Il libro della fotografia, Garzanti, Milano, 1969.

G. CASTAGNOLA, Sviluppo e stampa del colore, Il Castello, Milano, 1971.

W. CRAWFORD, L’Età del collodio, Cesco Capanna, Roma, 1981.

A. CARTIER-BRESSON, Les papiers salés, alterations et restauration des premiers photographies sur papier, Les Annales photographiques de la Ville de Paris, Paris-Audiovisuel, Paris, 1984.

Conservation et Restauration du Patrimoine Photographique, Les annales photographique de la ville de Paris, Paris-Audiovisuel, Paris, 1984.

G.T. EATON (a cura di), Conservation of Photographs, Eastman Kodak Company, Rochester, NY, 1985.

A. FEININGER, La fotografia a colori nuove tecniche, Garzanti, Milano, 1985.

J. M. REILLY, Care and Identification of 19th Century Photographics prints, Eastman Kodak, Rochester, NY, 1986.

L. MASETTI BITELLI, R. VLAHOV (a cura di), La Fotografia, tecniche di conservazione e problemi di restauro, Analisi, Bologna, 1987.

A. MINA, G. MODICA, L’arte della fotografia, Hoepli, Milano, 1987.

M.J. LANGFORD, Trattato di fotografia moderna, Il Castello, Milano, 1987.

B. LAVEDRINE, La Conservation des Photographies, Press du CNRS, Paris, 1990.

K. EINAUDI, P. VIAN (a cura di), La fragilità minacciata, aspetti e problemi della conservazione dei negativi fotografici, Unione Internazionale degli Istituti di Archeologia, Roma, 1991.

F. GALLO, Il biodeterioramento di libri e documenti, Centro Studi per la conservazione della carta, Roma, 1992.

M.G. JACOB, Il Dagherrotipo a colori. Tecniche e conservazione, Nardini, Firenze, 1992.

H. WILHELM, The permanence and care of color photographs. Traditional and digital color prints, color negatives, slides and motion pictures, Preservation Publishing Company, Grinnell, Iowa (USA) 1993.

S. LUSINI (a cura di ), Fototeche e Archivi fotografici, prospettive di sviluppo e indagine delle raccolte, Archivio Fotografico Toscano, Prato, 1996.

A. ADAMS, Il negativo, Zanichelli, Bologna, 1997.

L. SCARAMELLA, Fotografia, storia e riconoscimento dei procedimenti fotografici, De Luca, Roma, 1999.

I. ZANNIER, D. TARTAGLIA, La fotografia in archivio, Sansoni, Milano, 2000.

B. LAVENDRINE, Les collection des photographies. Guide de conservation prèventive, Paris, 2000.

S. BERSELLI, L. GASPARINI, L’archivio fotografico. Manuale per la conservazione e la gestione della fotografia antica e moderna, Zanichelli, Bologna, 2000.

Scelte e Strategie per la Conservazione della Memoria, Atti della Conferenza Internazionale di Dobbiaco (Bolzano), 2005.

 

 

 

P.S.: Nel testo corrente sono state omesse, per questioni tecniche, le immagini.

 

 

 

 

 

Libri e Documenti 2007                                                                              © Edizioni della Laguna