LA PAGINA
D'ARTE DE "IL MONDO"
DI MARIO
PANNUNZIO (1949-1966)
Lorenzo Nuovo
Lo stato degli studi
Nel panorama degli studi di storia della critica figurativa del secondo
dopoguerra, manca una disamina delle posizioni degli autori della pagina
d'arte del periodico romano "Il Mondo" - in un primo tempo "Settimanale
di politica e letteratura", quindi, dal quarto numero del 1953,
"Settimanale politico, economico e letterario" -. Studi - raccolte di
documenti, indagini sul rapporto tra arte e critica militante in Italia
e affondi sulla trasformazione del vocabolario visivo tra anni Quaranta
e Cinquanta - che, anche quando hanno centrato la propria attenzione su
periodici o giornali non specialistici (a titolo esemplificativo, sulle
pagine culturali de "L'Unità", di "Rinascita", de "L'Europeo", de
"L'Espresso", perlopiù a caccia degli articoli delle grandi firme: Mario
De Micheli, Roberto Longhi, Francesco Arcangeli, Lionello Venturi),
hanno sempre finito per tenere fuori fuoco la definizione dei tratti
propri della specola sulle arti costituita dal settimanale diretto da
Mario Pannunzio.
Nell'ambito degli studi che, a partire dall'ultimo anno della direzione
pannunziana, hanno ricostruito le vicende de "Il Mondo", spazio
preminente è stato dato alle battaglie politiche, economiche e civili
del settimanale e alla costituzione del gruppo tra anni Trenta e
Quaranta. In questo contesto, per primo è stato Tempi di ferro di
Antonio Cardini ad avere ragionato sulle posizioni espresse dagli autori
de "Il Mondo" in ambito culturale, offrendo un tentativo di
inquadramento della "prospettiva laica congiunta alla democrazia" ed
alla "cultura neorealista" che, per quasi un ventennio, era stata
propria degli autori del periodico. Sempre trattate a parte e mai
inserite in un discorso complessivo sulla rivista, le questioni della
grafica (che, opera della matita di Mino Maccari ed Amerigo Bartoli, non
poteva essere questione disgiunta dalla definizione delle posizioni del
giornale in materia di arti visive) e della fotografia, oggetto
rispettivamente di due mostre e di un volume firmato da Massimo Cutrupi
nel 2005.
Gli autori della pagina d'arte de "Il Mondo" tra politica e
cultura
L' analisi delle pagine culturali de "Il Mondo" dimostra l'insufficienza
di un ragionamento costruito sulla base di una mera contestualizzazione
degli scritti figurativi comparsi nel settimanale nel sistema delle arti
e nel dibattito critico del secondo Novecento. "Il Mondo", ha osservato
Asor Rosa, è stato espressione di un clan, della élite raccoltasi a
partire dagli anni Trenta attorno a Mario Pannunzio; un gruppo che, in
alcuni dei suoi protagonisti (si citano, a titolo esemplificativo,
Antonio Cederna, Alberto Arbasino, Nicola Chiaromonte) e in piena
continuità politica e culturale, è poi confluito nell'avventura de
"L'Espresso" di Benedetti e Scalfari. Su un ragionamento sempre
agganciato alla logica del gruppo hanno insistito anche Scalfari,
Cardini e, più di recente, Teodori, gli ultimi saldando questione
politica ed economica a battaglie di cultura. Sulla costituzione del
gruppo, insomma, vale la pena di indugiare, resistendo alla tentazione
di una distinzione tra questioni prettamente storico-artistiche e
culturali in senso generale, o addirittura tra scelte di campo in
materia di arti visive e battaglie politiche e civili: sono gli stessi
autori della pagina d'arte
de "Il Mondo" ad indicare questa strada, in un dibattito che, negli anni
dell'immediato dopoguerra, era giocoforza carico di ragioni
ideologiche". Servono appoggi ulteriori, aperture interdisciplinari, una
ricostruzione di biografie e sodalizi umani, politici e culturali che
affondano le loro radici negli anni compresi tra le due guerre e che
permettono di fare luce sulle due componenti salienti del gruppo
gravitante attorno a Pannunzio ed alla redazione de "Il Mondo". Serbatoi
di uomini e di idee, essenzialmente cultura di fronda per quel che
attiene agli autori delle pagine culturali, intellettualità
liberaldemocratica per quanto attiene alla definizione della rotta
politica, economica e civile del settimanale. Per un periodico
squisitamente romano come "Il Mondo" e per una figura come quella del
suo direttore, la categoria della sociabilità assume un ruolo dirimente;
prima che negli ambienti di via Veneto, le tappe di costruzione del
gruppo hanno visto molti dei suoi uomini transitare negli anni Trenta
per luoghi eletti della cultura e della mondanità romana come il Caffè
Aragno, ambiente ripetutamente rimpianto sulle colonne del periodico, e
simbolo di una Roma ancora immune dalla modernizzazione soprattutto
urbanistica e tecnologica del secondo Novecento (oltre allo stesso
Pannunzio, frequentatori assidui del Caffè sono stati, per esempio,
Amerigo Bartoli, Leonardo Sinisgalli; e ancora, "rondisti" quali Emilio
Cecchi: sua moglie, Leonetta Pieraccini, è collaboratrice assidua de "Il
Mondo").
Cultura di fronda, si è scritto. Per quel che concerne la genealogia del
gruppo del "Mondo", è documentato il passaggio al settimanale di molti
intellettuali e critici prima riuniti attorno alle redazioni dei
giornali di Longanesi e Maccari ("L'Italiano", "Il Selvaggio"); di
"Omnibus" (giornale diretto dallo stesso Pannunzio e da Benedetti, che
di Longanesi erano stati allievi, giornale che fece da collettore di
molta della intellettualità italiana che, dalla fronda, nel secondo
dopoguerra avrebbe cercato un riposizionamento culturale o anche solo
lavorativo); di periodici culturali illustrati e tangenti al gusto della
intellettualità romana connotata in arte da un gusto genericamente
naturalista o, lato sensu, antimodernista, periodici quali "Il
Quadrivio" o "Il Tevere". Chi segua, per esempio - e si cita senza porre
distinzione tra disegnatori, redattori delle pagine di cultura e
scrittori che per "Il Mondo" confezionarono racconti o, sulle medesime
colonne, pubblicarono romanzi a puntate - le parabole intellettuali di
Mino Maccari, Amerigo Bartoli, Giuseppe Raimondi, Alfredo Mezio,
Giovanni Comisso, Vitaliano Brancati, Ennio Flaiano, Corrado Alvaro,
afferra con esattezza la misura di una linea di continuità troppo spesso
recisa nel contesto di periodizzazioni troppo rigide tra il giornalismo
- e la cultura, anche visiva - d'età fascista e di prima età
repubblicana. Per chi si accinga a comprendere il posizionamento della
rivista in seno alle principali diatribe culturali degli anni Cinquanta
e Sessanta, è importante, e lo si preciserà in seguito, capire che cosa
significhi il ponte gettato tra la Fronda e la redazione de "Il Mondo"
attraverso l'ineludibile tramite di "Oggi ".
Tale componente si è innestata sull'ossatura portante de "Il Mondo", i
cui autori delle pagine politiche ed economiche, accomunati dalla
militanza nei ranghi della sinistra liberale, erano transitati
attraverso la tappa obbligata dell'antifascismo - spesso di segno
azionista - e, in molti elementi, erano stati allievi di Benedetto
Croce. A tale costola liberale devono essere ascritti anche alcuni
autori della pagina d'arte de "Il Mondo": oltre a Lionello Venturi e
Carlo Ludovico Ragghianti, di cui si dirà in seguito, si possono fare
almeno i nomi di Nicola Chiaromonte, Ignazio Silone, Roberto Pane, Nina
Ruffini, Carlo Cordié, Angiolo Bandinelli. Ancora. Se si è detto del
debito contratto da Pannunzio nei confronti del giornalismo
longalonesiano - debito esteso anche all'uso della fotografia - e
dell'esempio de "Il Selvaggio" di Mino Maccari, i cui disegni, assieme a
quelli di Bartoli, hanno dato sugo anche alle battaglie di cultura e di
costume de "Il Mondo", qualche altra riga va spesa per quello che è
stato indicato come il secondo corno del problema: la tradizione del
giornalismo di impronta liberale. "Il Mondo" di Pannunzio riecheggia
l'omonima testata fondata da Giovanni Amendola nel 1922 e soppressa nel
1926 dal regime fascista. Proprio in questo giornale, il 1 maggio del
1925 era comparso il Manifesto degli intellettuali antifascisti redatto
da Benedetto Croce. Riconoscibile, inoltre, è la continuità
del giornale nei confronti della struttura e della direzione politica e
culturale di riviste
come "Risorgimento Liberale" (per l'intervallo di tempo nel quale fu
diretto da Pannunzio, 1943-1947), "L'Europeo" di Benedetti (1945-1954), "Il Mondo" di Bonsanti
(1945-1946) - Bonsanti
che fui poi autore del settimanale pannunziano - e con la poco indagata
rivista "Mercurio" diretta
da Alba de Céspedes che si era proposta, tra 1944 e 1948, la
ricostruzione civile e morale del
Paese facendo affidamento su molte delle penne poi transitate al
settimanale di Pannunzio, tra cui
vale la pena citare almeno Gorresio, Calogero e Garosci.
Nelle mani di Pannunzio, l'"estremista moderato"; la contraddittoria
sintesi tra cultura di fronda
e universo liberaldemocratico
È in Pannunzio, è chiaro, la sintesi operata tra la cultura di fronda e
l'intellettualità liberaldemocratica.
Cardini ha ragionato sul senso dell'operazione messa in atto con la
fondazione de "Il
Mondo", vale a dire la ricerca di "un contenuto specifico da tutti
riconosciuto da dare alla parola democrazia", "su tutti i fronti": "politico, storico, economico,
letterario", ed anche "artistico". In
ambito culturale, continua Cardini, tale contenuto si identificava nella
"esigenza del neorealismo". Cardini che non sbaglia quando connota tale "neorealismo" come
componente "separata
e distinta dalla propaganda", negando, per quanto riguarda l'arte
difesa dagli autori del settimanale,
la priorità del contenuto e affermando - lo aveva fatto più volte, negli
anni Quaranta,
Ragghianti - l'indipendenza delle arti dalla comunicazione di messaggi
politici; rivela, di contro,
un eccesso di schematismo quando afferma l'estraneità degli scritti di
poetica di Pannunzio e delle
sue scelte editoriali rispetto alla cultura strapaesana, riconoscendo
solo un generico "debito" nei confronti del magistero
giornalistico di Leo Longanesi.
La questione va approfondita, o c'è il rischio che la stessa etichetta
di "neorealismo" rimanga
non solo una scatola vuota, ma generi errate sovrapposizioni con la
letteratura della Resistenza o
col "realismo socialista", che gli autori de "Il Mondo" leggevano come
"realismo esteriore", segnato da "indifferenza morale".
Il primo scatto, è d'obbligo, investe la figura stessa di Mario
Pannunzio, il cui profilo è stato
tracciato da Cesare De Michelis nei primi anni Novanta. Il profilo di
un uomo che ha diretto
giornali, si è occupato di politica e storia ma, negli anni Trenta, è
stato anche scrittore, critico letterario
e cinematografico, pittore; sulle colonne de "Il Saggiatore", mensile
fondato a Roma nel
1930, e su quelle del settimanale "Oggi", il cui primo numero è del 21
maggio del 1933, ha
preso posizione in alcune delle schermaglie culturali più in voga,
difendendo, per esempio, il
genere del romanzo dal formalismo, dalla retorica neoclassica ed
estetizzante di tanta della letteratura coeva. Il suo punto di vista è stato giocoforza totale, ha
investito la complessità degli aspetti
umani, dalla politica alla cultura.
È il caso di lasciare a parte, qui, la questione dell'evoluzione del
pensiero politico e civile di
Pannunzio, la cui azione e le cui intenzioni a partire dagli anni Trenta
sono state mosse dalle pale
dell'antifascismo e del liberalismo, nodi indagati in tutta la
letteratura dedicata a "Il Mondo" ed
al suo fondatore. Si intende, piuttosto, scendere nel campo della
determinazione del pensiero pannunziano
in fatto d'arte e letteratura. Per capire come l'ingrediente della
"modernizzazione" perseguita
anche attraverso la cultura, individuato da Cardini come il punto di
discrimine con la
cultura strapaesana, non era tratto distintivo dei critici e degli
scrittori che dagli anni Trenta avevano
aderito al "gruppo" e, alla fine degli anni Quaranta, preso parte
all'avventura de "Il Mondo".
Pannunzio pittore, innanzitutto. Le testimonianze sono poche, ed ancora
De Michelis cerca di
sciogliere la matassa. De Michelis si sofferma su "un ritratto [pannunziano]
della sorella" esposto
alla prima Quadriennale (1931), sui "Giocatori di tennis che risalgono a
quegli stessi primissimi
anni Trenta", sulla "natura morta con Della imitazione di Cristo di
Tommaso da Kempis e un violino";
ne evidenzia l'attenzione nei confronti degli esiti "più incisivamente
realistici - non senza eco
del realismo magico - della scuola romana". Alla Quadriennale, il
ritratto della sorella di Pannunzio
era stato esposto nella sala XXI A, assieme ad opere di Mafai, Donghi,
Ziveri, Scipione, Ruggeri
Quirino; lì accanto, nella sala XXI B, quadri di Francesco Trombadori
e Francalancia, abituali frequentatori
del Caffè Aragno, nei cui locali Mario Pannunzio era presenza fissa.
Nelle sue diverse declinazioni, si trattava di un campione credibile e
rappresentativo della
pittura romana tra le due guerre, dal Novecento capitolino al suo
superamento in senso intimista,
tonalista o espressionista. A Roma si forma il gusto di Pannunzio, il
cui "neorealismo" - per dirla
ancora con le parole di Cardini - non poteva che essere declinato alla
romana, con decise abluzioni
nella cultura della "Italia magica", più che nelle direzioni
dell'espressionismo o del tonalismo.
La stessa Roma che, e il messaggio era chiaro, nelle categorie formali
del ritorno all'ordine e
nella ricostituzione d'oggetto aveva trovato riparo dall'avanguardismo e
dallo sperimentalismo dei
primi quindici anni del secolo. Nella terza saletta dell'Aragno
sedevano, accanto al futuro direttore
de "Il Mondo", l'animatore di "Valori plastici", Mario Broglio,
rondisti come Cecchi,
Cardarelli, Baldini, pittori come Francalancia, Ceracchini, Antonio
Donghi: ne è testimone il
celebre dipinto Gli amici al Caffè di Amerigo Bartoli, conservato presso
la Galleria Nazionale
d'Arte Moderna e Contemporanea.
"Realismo magico" è una parola chiave per inquadrare non solo le fonti
visive e di cultura dell'opera
pittorica, ma anche il gusto di Pannunzio; accanto ad esso, cultura
popolare ed arte degli
ingenui: antiformalismo, insomma. Centrale, per esempio, tanto
nell'opera di Donghi, quanto in
quella di Ceracchini. Realismo sì, ma solo se opposto ad astrazione,
ad avanguardismo; su
questa strada, Pannunzio non avrebbe potuto seguire la rotta intrapresa
da un democratico come
Lionello Venturi, tra anni Quaranta e Cinquanta sempre più lontano dal
sostegno ad un'arte di
rappresentazione, attivo nella ricerca di una via di neoimpressionismo
liberato dalle gabbie picassiane
ed impegnato nel sostegno del lirismo delle soluzioni pittoriche degli
astratto-concreti.
Venturi, il professore dei "Commentari", la cui indulgenza nei confronti
del formalismo, già presa
di mira da Ragghianti negli anni tra le guerre, non poteva piacere
nemmeno al gusto spiccio degli
autori de "Il Mondo", che in più di un'occasione avevano puntato il dito
contro il "tono di raffinatezza"
che si respirava negli ambienti di una Torino - era lì che Venturi si
era formato - "città
che si gloria di essere più parigina di Parigi". Il direttore de "Il
Mondo", che aveva in mente di
allestire una specola sulle arti che cercasse una acrobatica difesa di
una figurazione al di fuori del
contenutismo imposto dai corifei del realismo socialista, avrebbe
affidato la rubrica d'arte contemporanea
ad Alfredo Mezio. La sfida, per lui, non concedeva che un ritorno al
passato.
Il discorso relativo alla letteratura non è dissimile. La difesa
pannunziana del genere del
romanzo, di una "letteratura di cose", era nata negli anni Trenta sulla
scorta della necessità di
reagire all'intellettualismo ed al formalismo della prosa d'arte ed al
neoclassicismo imperante in
età fascista; tra anni Quaranta e Cinquanta, nel pieno dell'affermarsi
dei valori della Resistenza
e della letteratura neorealista, avrebbe dovuto affrontare il problema
di sottrarsi all'equazione
antifascismo-comunismo, trovando uno spazio letterario che fosse allo
stesso tempo distante
dalle tentazioni neoavanguardiste.
L'enigma è presto sciolto. Pannunzio avrebbe dato campo, ne "Il Mondo"
, a scrittori che lo
avevano accompagnato fin dagli anni Trenta. Scrittori le cui opere sono
connotate da sensualismo,
da prosa di memoria, da deformazione ironica e grottesca della realtà,
da un gallismo tutto novecentesco:
Brancati, Comisso, Flaiano. Discorso a parte meritano gli artisti del
surrealismo italiano
o, lezione preferibile, dell"'Italia magica". Artisti le cui pagine sono
intrise di elementi di
cultura vernacola - alcuni avevano pubblicato brevi racconti ne "Il
Selvaggio" di Maccari -, il cui profilo è affatto estraneo all'elitarismo e all'intellettualismo dello
stracittadino surrealismo francese:
si fanno, per esempio, i nomi di Antonio Delfini (vicino a Pannunzio fin
dai primi anni Trenta),
Tommaso Landolfi, Enrico Morovich.
Emblematica, nel panorama letterario italiano degli anni Cinquanta, la
presa di posizione del
più assiduo tra i critici letterari de "Il Mondo", Arnaldo Bocelli,
sulla polemica sollevata attorno
al Gattopardo di Tomasi di Lampedusa; opera, in tutta evidenza,
collocata lungo una terza via tra
avanguardismo ed engagement. Respingendo le critiche di "conservatorismo
o reazionarismo"
mosse al romanzo, Bocelli aveva salutato il Gattopardo come opera "di
prim'ordine", "di primaria
importanza", rigettando questioni di stile, sottigliezze accademiche
o manipolazioni politicoideologiche
che avevano offuscato la vista di tanta parte della critica.
Qui il senso della sintesi operata da Mario Pannunzio. Sintesi che era
senso comune agli uomini
del gruppo, se è vero che, alla metà degli anni Sessanta, Alfredo
Todisco se la sarebbe presa con
quanti, separando ciò che Croce aveva unito, vale a dire "forma e
contenuto", avevano da un lato
preso la via dell'engagement, avevano cominciato a lavorare sul
soggetto, dall'altro, in direzione opposta, ad indulgere al
formalismo, allo "strutturalismo". Il credito concesso alle poetiche del realismo
nelle arti e nella letteratura in un'ottica che, crocianamente,
scivolasse via dai due estremi di formalismo
e contenutismo, di avanguardismo e realismo socialista allo scopo di
marcare "un contenuto specifico da tutti riconosciuto da dare alla
parola democrazia", ha avuto un alto prezzo da pagare:
il rifiuto della modernità, la ripulsa delle avanguardie, dell'arte
del Novecento. Significativo il giudizio
che, nella seconda metà del sesto decennio del secolo, Venturi avrebbe
dato degli autori delle
pagine d'arte de "Il Mondo": "codini, forcaioli, reazionari, difensori
del latifondo". La rotta modernista
de "Il Mondo" non ha segnato che le battaglie politiche, economiche e
civili.
Croce e i crociani, Venturi e Ragghianti, ne "Il Monde: quale spazio per
una critica di terza forza?
Croce e la "religione della libertà". Croce e i crociani, innanzitutto,
seguendo il ragionamento
di Vittorio Stella, che ha messo la lente sull'eco dell'estetica
crociana nel campo delle arti visive.
Il punto era stringente per il gruppo riunitosi attorno a Mario
Pannunzio ed alla redazione de "Il
Mondo". La fede nella religione della libertà aveva implicazioni anche
nel campo delle arti visive,
ed avrebbe condizionato la rotta intrapresa dai collaboratori del
giornale nel dibattito figurativo
tra anni Cinquanta e Sessanta.
Non si intende sopravvalutare l'impatto del nume tutelare di Croce in
seno alle posizioni
espresse dagli autori delle pagine culturali de "Il Mondo"; tuttavia,
non è possibile sganciare con
troppa superficialità le feroci polemiche antiastratte comparse nel
settimanale e la linea antimodernista
seguita dai suoi autori, dalla condanna del filosofo indirizzata all'"infrenabile attivismo,
all'infiacchita attitudine umana a trascendere in valore la pura
vitalità, al narcisismo decadentistico, al sempre rinnovantesi
imbarbarimento dell'intelletto" rilevati in tanta della cultura del
Novecento, invischiata in perniciosi, elitaristi avanguardismi. Gruppi d'avanguardia letti come
sistemi snobisticamente chiusi, compartimenti non comunicanti con
l'esterno, come ne "Il
Mondo" aveva denunciato Alfredo Mezio: "quando una civiltà decade o si
corrompe, quando
un'arte, una letteratura o una poesia diventano l'esercizio di una casta
chiusa", "uno standard
universale, come nel periodo alessandrino, l'arte ha finito di
parlare".
Due sono le matasse da dipanare. Primo. Il costante riferimento dei
redattori de "Il Mondo"
agli uomini di punta delle truppe dell'esercito crociano, Lionello
Venturi e Carlo Ludovico
Ragghianti: il primo, significativamente antifascista fin dal 1931,
quando fu tra i pochi docenti
universitari a rifiutarsi di prestare giuramento di fedeltà al regime;
il secondo, coinvolto nella lotta
di liberazione nelle file degli azionisti e sottosegretario durante il
governo Parri. Sono, tra quelli che
hanno animato il dibattito critico nazionale tra fascismo e secondo
dopoguerra, gli unici critici ad
avere collaborato con continuità con "Il Mondo" e, tuttavia, in piena
consapevolezza delle posizioni
difese dal settimanale diretto da Pannunzio, scrivendo molto poco a
proposito di artisti e mostre
d'arte contemporanea: Venturi, dopo un affondo su Michelangelo comparso
ne "Il Mondo" a
pochi mesi dal quarto centenario della pubblicazione delle Vite vasariane, avrebbe aperto una
discussione sul nuovo allestimento degli Uffizi; difeso, in uno scritto
del gennaio del 1953, gli
acquisti operati per la Galleria d'Arte Moderna dall'indebito attacco di
alcuni senatori; infine pubblicato,
tra 1954 e 1955, alcune memorie di un viaggio in India. Di lì a poco,
avrebbe
collaborato costantemente con"L'Espresso dalle cui colonne avrebbe - al
fatto ci si è già riferiti - più volte
polemizzato con l'oltranzismo antimodernista degli autori della pagina
di cultura del settimanale
pannunziano. Tra Venturi, negli anni del secondo dopoguerra supporto
critico degli artisti che si
muovevano su una linea "di impressionismo astratto spremuto dal
formalismo neocubista" - linea
in cui è stato riconosciuto l'"astrattismo ufficiale
italiano" per buona parte degli anni Cinquanta
- e i critici de "Il Mondo", l'intesa sarebbe sempre stata difficile,
arroccati com'erano, questi ultimi,
su posizioni di difesa a fil di spada di un'arte di rappresentazione.
Con Venturi, tuttavia, fino alla metà degli anni Cinquanta, gli autori
della pagina d'arte de "Il
Mondo" avevano cercato di misurarsi, e l'iniziativa non aveva a che fare
solo con il ruolo di
modernizzatore che, a Roma, il critico aveva assunto a partire dal suo
ritorno in Italia. Della questione
si dirà diffusamente più in là. Qui serve dire che, ripulsa o meno dell'arte astratta, non era
semplice, per un autore de "Il Mondo" - giornale il cui orientamento,
come detto, era dato dalla
bussola crociana - sottrarsi al fascino esercitato da un critico dal
1950 membro della Associazione
italiana per la Libertà della Cultura; associazione che, ad apertura di
decennio, pareva un'ipotesi
concreta, in arte e letteratura, del costituirsi di un fronte
anticomunista, della demarcazione di un
perimetro entro il quale sarebbe stato possibile elaborare estetiche
senza l'invadenza del mondo
della politica. Prova della riverenza nei confronti del magistero leoventuriano e della cultura terzaforzista
è l'impossibilità, da parte di Alfredo Mezio, critico d'arte de "Il
Mondo", di esimersi dal
confronto con le iniziative proposte dall'associazione.
Diverso è il discorso che vale per Ragghianti. Ragghianti, che negli
anni Quaranta aveva
insistito sulla autonomia "morale, più che formale, della migliore
pittura italiana della prima
metà del secolo" alla stregua di "un modello da proseguire, senza
rotture di sorta"; che si era
dissociato dal clima trionfale nel quale, alla prima Biennale del
secondo dopoguerra, nel 1948,
erano state accolte le opere di Pablo Picasso; che, in accordo con le
coeve prese di posizione
di Cesare Brandi, intento, quest'ultimo, alla valorizzazione di una
linea italiana che aveva avuto
la propria culla nella metafisica, aveva preso le difese della
pittura di Giorgio Morandi e
Ottone Rosai; che, infine, a metà degli anni Cinquanta avrebbe
recuperato, in una Italia che
nel suo senso comune ancora iscriveva nel perimetro fascista tutta
l'arte degli anni Venti e
Trenta, le originali trovate visive di una rivista come "Il Selvaggio"
di Mino Maccari. Sono
questioni dirimenti: buona parte degli uomini della redazione de "Il
Mondo", si è visto, aveva
attraversato la stagione di Strapaese o, per un fatto generazionale, si
era formata nel clima
culturale dell'Italia degli anni Venti e Trenta.
È Alfredo Mezio, critico d'arte de "Il Mondo", a citare esplicitamente Ragghianti. In uno scritto
del giugno del 1951, Mezio si appoggia alla Miscellanea minore di
critica d'arte (Bari, Laterza,
1946), recuperando l'antiformalismo di Ragghianti in chiave
antipicassiana. Di più: il riferimento
del critico de "Il Mondo" corre ad una pubblicazione della casa editrice
Laterza, il sodalizio
della quale con Benedetto Croce e con gli ambienti della sinistra
democratica e del liberalismo italiano
è noto. Ancora: l'anno successivo, la redazione de "Il Mondo" saluta la comparsa nelle edicole
del primo numero di "SeleArte", "pubblicazione divulgativa e popolare,
ma che al tempo stesso
ha il coraggio di proclamarsi non fatta per le masse". Il periodico,
nato nel campo della terza
forza e dal sodalizio Ragghianti-Olivetti, rappresentava, tra
antiaccademismo, opposizione all'isolamento
intellettualistico di artisti e critici, volontà di coniugare critica
militante con affondi storico-critici sull'arte medievale e moderna, un modello a cui guardare.
Il legame Pannunzio-Ragghianti è testimoniato anche dalla consistenza di
missive di quest'ultimo
tra i materiali del Fondo Pannunzio conservato a Roma presso la
Biblioteca della
Camera dei Deputati". Molto spesso, oggetto dello scambio epistolare
sono problemi di storia
- centrale, la discussione sulla Resistenza e la sua eredità - e
politici; talvolta, sono messe sul tavolo
questioni storico-artistiche. A segnare, appunto, la direzione che
avrebbe dovuto prendere una
critica d'arte di terza forza.
Scrive per esempio Ragghianti, nel 1951: "mi sono molto piaciuti gli
articoli di Mezio sugli
equivoci dolorosi - ma, ahimè, data l'impostazione criticamente erronea
della mostra, inevitabili
- originati dall'esposizione caravaggesca". Il riferimento di Ragghianti corre alla sequenza di
scritti di Alfredo Mezio centrati sulla grande retrospettiva di
Caravaggio e dei caravaggeschi,
curata da Roberto Longhi e aperta a Milano, a Palazzo Reale, nel 1951.
Il critico de "Il Mondo"
aveva vigorosamente cercato di portare il confronto sui quadri esposti a
Milano fuori dall'angolo
ideologico nel quale gli intellettuali dei due partiti di massa lo
avevano trascinato: se i comunisti
avevano letto Caravaggio come "pittore proletario, popolare,
progressivo, pittore del Terzo Stato",
avevano fatto loro eco gli autori della "rivista di Padre Gemelli",
"Vita e pensiero", che nel Merisi
avevano riconosciuto un "pittore semplice, umano, cristiano".
In Mezio, era evidente, i richiami a Ragghianti e a Croce avevano un
significato non trascurabile:
quello di lavare in acqua antitotalitaria, liberale gli equivoci di una
formazione maturata
nell'ambito dello squadrismo rurale de "Il Selvaggio", eredità più volte
rivendicata, pur in
espliciti distinguo tra cultura e politica; di prendere, inoltre, le
distanze dagli imbarazzanti
orientamenti di riviste cui aveva collaborato, a partire dai giornali
del fascistissimo Telesio
Interlandi, le cui battaglie avevano preso una direzione indifendibile
soprattutto a seguito della promulgazione delle leggi razziali.
Da qui, scelte di campo esplicite, sulla scorta della consapevolezza di
essere uomini di terza
forza, oltre che scriventi d'arte e letteratura. Nella menzionata
polemica nata a margine della
mostra caravaggesca, emblematica la trovata con la quale Mezio conclude
l'attacco alle truppe del
realismo socialista, che avevano individuato in Caravaggio il campione
della "democrazia popolare":
"popolo", scrive il critico de "Il Mondo", è termine "piccolo-borghese",
"una parola che non
esiste nel vocabolario comunista" ; "per i comunisti esiste la classe", ed "è strano che debbano essere
dei liberali" a puntualizzarlo.
Su questa linea deve essere inserito l'omaggio di Alfredo Mezio a
Benedetto Croce in occasione
dell'ottantatreesimo compleanno del filosofo. Soprattutto, in questa
chiave deve essere letto
il tentativo di ascrivere i pittori del gruppo degli Otto, presentati
alla XXVI Biennale veneziana
da Lionello Venturi, ad una "terza forza" non solo visiva, alternativa
da un lato al realismo socialista
(ed al suo contenutismo discendente dall'obbedienza ai dettami dello
zdanovismo), dall'altro
al fronte concreto o geometrico, al nuovo accademismo dei "pittori
dell'astrazione, col loro ascetismo
formale e le loro nostalgie platonizzanti". Non si esauriva, è
chiaro, sulle colonne de "Il
Mondo" il tentativo degli uomini di terza forza di compattarsi su comuni
posizioni culturali. Lo
testimoniano iniziative quali il convegno organizzato nel 1955 dalla
rivista "Criterio", tra i cui
direttori c'era lo stesso Ragghianti, sul tema "Libertà e Società";
convegno nel cui contesto erano
stati ribaditi alcuni cardini sui quali avrebbe ruotato la ricerca degli
intellettuali liberaldemocratici: "libertà, misura umana, senso
societario, antidogmatismo".
Nella direzione di un ostinato antimodernismo: la polemica contro l'arte
astratta
Stupisce trovare, ne "Il Mondo", due scritti di Piero Dorazio, comparsi
nel settimanale tra ottobre
e novembre del 1949, mesi nei quali la rubrica d'arte contemporanea non
era ancora stata affidata
da Pannunzio ad Alfredo Mezio: i due scritti in questione sono Arte
degenerata in vetrina e Pittori sull'attenti. Dorazio interviene su temi inseriti a pieno
titolo nel solco scavato dal direttore
per le pagine culturali del settimanale: dalla rinnovata libertà della
cultura che si respirava in
Germania occidentale, nazione in quegli anni attenta a ritessere i fili
della cultura recisi dalla violenza
del totalitarismo e della condanna nazista all'arte degenerata, alla
polemica con il contenutismo
dell'arte gravitante in orbita comunista, emblema della quale era
diventato, nel discorso di
Dorazio, un quadro raffigurante "un comizio con molte bandiere" ad opera
di Giulio Turcato.
Chiamare in causa Dorazio, uno dei firmatari del Manifesto di "Forma"
(1947) significava, per
Pannunzio, che pure non intendeva indulgere alle nuove ricerche
sviluppate in ambiente romano
fuori dei confini della rappresentazione, mettere benzina sul fuoco
della polemica con gli artisti
del "Fronte nuovo delle arti", incatenati in pregiudizi ideologici
derivanti dalla presenza incombente
del partito; dare spazio, inoltre, ad un artista che si dichiarava
insieme marxista, formalista
e fautore della "libera creazione d'arte", aveva il preciso
significato di mettere in un angolo quanti,
sulla scorta dei dettami impartiti da Zdanov, sostenevano la necessità
del realismo sociale nelle
arti e la equazione marxismo-contenutismo.
Del dibattito critico contemporaneo e prima dell'assunzione del ruolo di
giudice delle arti da
parte di Alfredo Mezio, ne "Il Mondo" non resta altro che alcune prese
di posizione firmate da
più di un autore - perlopiù scriventi non specialisti, tra cui si
segnala Riccardo Bacchelli - contro
il camaleontismo e l'opportunismo di Pablo Picasso, attorno alla figura
del quale, in Italia,
tra la Biennale del 1948 e le mostre milanese e romana del 1953, era
venuto articolandosi molto del dibattito critico.
Il debutto di Mezio, che avrebbe rivestito il ruolo di critico d'arte
lungo tutti i diciotto anni
della direzione di Pannunzio, è col botto. Un attacco al cuore dell'arte
non formale. Bersaglio, le
opere della svolta astrattista di Capogrossi esposte alla Galleria del
Secolo di Roma nel gennaio del 1950; Mezio o non Mezio, la mostra aveva fatto scandalo,
spezzato il fronte della critica.
Nessuna indulgenza nei confronti dell'arte segnica di Capogrossi. Mezio
si chiede "che cosa possa
ripromettersi Capogrossi dall'uso di questo cifrario"; Capogrossi che
voleva collocare la propria
ricerca "decisamente fuori della pittura", in direzione di "una specie
di scrittura ideografica, a
fondo liturgico". Non bastava, continua il critico, "adottare il
linguaggio dei primitivi", perché
"non si diventa barbari per ragionamento". La rinuncia alla civiltà,
"maledizione di tanti artisti
moderni", non è che il frutto di "sovrappeso di cultura" e
"raffinatezza" : il "cifrario copto" di
Capogrossi è "una chiave che apre nel vuoto", e "manca di verità".
Alla condanna della virata non figurativa di Capogrossi in concomitanza
con la chiusura del
quinto decennio del Novecento va collegata, logicamente, la stroncatura
della direzione intrapresa
dalla ricerca pittorica di Cagli nello stesso torno di tempo. Cagli che
aveva presentato la mostra di
Capogrossi al Secolo e che, intenzionato a posizionare la pittura "nel
regno delle idee pure, della geometria e della matematica", aveva finito
per dare vita ad un'opera "quasi sempre stanca e avara".
Spazio privilegiato per il confronto sulle ultime ricerche pittoriche,
naturalmente, anche in un
contesto come quello della pagina d'arte de "Il Mondo", in cui le
assenze (di artisti, esposizioni
ed eventi) sono più significative delle presenze, è quello aperto dalle
proposte visive della Biennale
di Venezia. A partire dall'edizione del 1950. Nel contesto di questa
esposizione, Mezio si misura
soprattutto con il Padiglione del Messico, i cui protagonisti
"esponevano per la prima volta in
Europa". Il critico imposta un confronto tra le opere dei
centroamericani e quelle di Kandinsky,
Arp, Zadkine, Laurens: "di qua c'è la pittura non figurativa fatta di
circoli, di rombi, di linee, di
segmenti colorati"; dall'altra parte, invece, "una pittura urlante e
didattica, piena di fatti, terribilmente
polemica, ma spesso anche poetica e commovente". Tributo che risentiva
ancora del clima
di liberatorio mondialismo respirato alla prima Biennale del secondo
dopoguerra, evento attraverso
il quale l'Italia, dopo anni di retorica neoclassica e di algidi,
scenografici marmi fascisti aveva
finalmente aperto le porte all'arte moderna europea e americana.
Altrettanto scontata, nell'ambito di una disamina alla retrospettiva del
Futurismo italiano,
retrospettiva sulla quale, quell'anno, aveva puntato forte Roberto
Longhi, la condanna nei confronti
dell'antistoricismo avanguardista. Tutti i suoi protagonisti inclusi,
meno Carlo Carrà e Ardengo
Soffici. Su quest'ultimo, Mezio, in consonanza con gli scritti di
Ragghianti e Brandi già citati, scrive
righe chiarificatrici, ampliando il discorso alla rivoluzione operata da
"Cézanne in Toscana", rivoluzione
che arriva "alle copertine dell'editore Vallecchi, alla sigla editoriale
della Voce, disegnata nel
più puro stile cézanniano, da Strapaese fino a Rosai". Strapaese, si
noti. E Toscana rurale.
Concludono la corrispondenza da Venezia gli omaggi ad Ensor ed al
Doganiere Rousseau,
presenti rispettivamente con ventisei e ventinove opere nel padiglione
Belga e in Sala LVII; un
tiepido giudizio sulle opere di Picasso esposte nella sala riservata ai
cubisti; soprattutto, la condanna
senza appello dell'arte astratta americana, in un ragionamento che
tiene assieme le opere
esposte a Venezia (tra le altre, tre Pollock, cinque Gorky, quattro de
Kooning) ed una riflessione
generale sulle esposizioni aperte in quei mesi nelle maggiori gallerie
romane: l'arte astratta, scrive
il critico, non "ha prodotto niente di nuovo"; a dimostrarlo, il
padiglione americano alla venticinquesima
Biennale, padiglione che dava l'impressione di "aver visto una lunga
carta da parato e
senza poter ricordare un solo quadro né il nome di un artista". "Come
potrà concludersi questo
furore per lo spirito di geometria e per lo spirito di astrazione",
conclude Mezio, "il furore di questi
artisti che vogliono ricostruire un mondo di forme nuove, senza rapporto
con la logica, con la
realtà e con San Tommaso, è difficile dire".
Lo spazio dedicato alle ricerche degli artisti astratti italiani alla
XXVI Biennale veneziana si limita al citato I pittori della terza
forza, probabilmente il più sincero
tentativo di Mezio e della redazione
de "Il Mondo" di accostarsi al romanticismo venturiano, di compattare il
fronte critico di area
liberaldemocratica sull'impressionismo non figurativo degli artisti del
Gruppo degli Otto alla ricerca di una via italiana all'astrazione. Mezio mette la lente su
Vedova, che insiste "in una specie di stenografia
emotiva, alla Hartung"; Afro, che, formatosi sulla cifra del neocubismo,
ne offe "una riduzione
prospettica di forma-colore, analoga alla riduzione che Piero della
Francesca fa di Masaccio";
Birolli, che "dopo di aver bevuto fino alla feccia alla coppa del
manierismo picassiano, si prova a rivomitarlo
nel tentativo di riprendere possesso del mondo obiettivo"; Santomaso, il
quale, mai allontanatosi
"da questa obiettività, ne propone una interpretazione muscolosamente
decorativa alla Léger";
Corpora e Turcato, le cui opere erano risolte in "una specie di
compromesso lirico tra forme astratte
e immagini naturali". Il boccone è amaro, per Mezio, che tuttavia si
accontenta di andare giù duro
sul solo Birolli. I successivi giudizi sugli Otto non avrebbero, nel
tempo, mantenuto tale equilibrio;
a cominciare da quelli appuntati a proposito dell'opera di Emilio
Vedova, l'anno seguente definito "pittore-petardo che non esita a
considerarsi della famiglia dei grandi sovversivi".
Da qui ai testi centrati sulla Biennale del 1954, non cambia molto.
Appaiate, corrono dichiarazioni
generali di ostilità al modaiolo abbandono della figurazione ed una
ulteriore, cauta apertura nei confronti dell'espressionismo astratto e
del linguaggio lirico dell'impressionismo non oggettivo.
Nello specifico. Nel primo scritto sulla XXVIII esposizione
internazionale, un nuovo manifesto
antiastratto: "è inutile cercare ai Giardini le inflessioni personali,
le caratteristiche locali che facevano
delle vecchie Biennali un viaggio a sorpresa attraverso tutte le varietà
del mondo". L'astrattismo,
infatti, "assorbe tutto, il folklore e l'artigianato", e "propone
l'inventario di una realtà fatta di strutture,
di fermenti elementari, di ovuli". Operazioni di cultura e, soprattutto,
di mercato, la cui "carta
finale" sono "i fogli dell'architetto Fontana, bucherellati come un
colabrodo", e "le ovaie surrealiste
e i glomeri giganti di Arp", che "presentano il paradosso sconcertante
di una speculazione difficile,
ermetica, di élite, che diventa l'arte dei Ministeri e dei Musei".
Quindi, Mezio effettua una doverosa ricognizione sul fronte "inquieto"
degli artisti che avevano
abbandonato la rappresentazione: dai "semifigurativi" Paulucci,
Santomaso e Birolli, ad
"astrattisti a tendenza espressionistica come l'americano Kooning o di
accento divisionista come
Corpora"; da "romantici come Vedova", a "poetici inventori di favole
grafiche come Klee, Mirò o
Capogrossi". Se "non tutti i prodotti di questa formula rientrano
nell'ambito della creazione artistica",
Mezio individua, in chiave antiaccademica, come nell'oscillazione "tra tecnica e intuizione",
"sta forse la parte più viva e fremente dell'esercizio astratto", e una
sorta di "promessa di libertà".
Da lì, sulle Biennali, il silenzio più assordante. Nessuno scritto, se
non feroci stroncature, sulle
pagine de "Il Mondo". O, in un dialogo sempre più difficile con le
proposte visive e con il linguaggio
della critica contemporanea, polemiche contro il sistema delle arti in
Italia, contro il controllo
statale sulla cultura, contro la mancanza di trasparenza nei criteri con
cui erano assegnati
spazi espositivi e premi. Nelle discussioni sul sistema delle arti in
Italia, la Biennale era il bersaglio
privilegiato da parte degli autori de " Il Mondo". Da lì, tuttavia,
la polemica scivolava fino ad abbracciare anche il contesto romano nel quale, a partire dalla
metà degli anni Quaranta, era
Palma Bucarelli, direttrice della Galleria d'Arte Moderna, la figura di
riferimento, alfiere di un
modernismo che, nelle sale del Museo e attraverso esposizioni temporanee
ed acquisti, procedeva lungo il corrimano sicuro delle estetiche di
Lionello Venturi e Giulio Carlo Argan.
Negli anni in cui il dibattito critico era imperniato sulla
contrapposizione tra realismo ed astrazione,
gli autori de "Il Mondo" propendono risolutamente per la prima opzione.
Oltre la polemica tra astrattismo e realismo. La fortuna critica di
Dubuffet, Burri e Pollock
Si è scritto: il rifiuto, da parte degli autori della pagina d'arte de
"Il Mondo", di confrontarsi con
le proposte artistiche contemporanee, è esemplificato dalla freddezza
con la quale essi si sono
rapportati, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, alle opere
esposte nelle sale delle Biennali di Venezia. Decise stroncature anche
da parte di scriventi non specialisti hanno fatto il paio con l'assordante
silenzio del critico ufficiale del periodico, Alfredo Mezio. C'è, qui,
la necessità di storicizzare,
di fare il punto sulla trasformazione in atto nelle arti nella seconda
metà del decennio. Perché
una svolta c'è stata, ed è necessario riconoscere l'abbandono del
tavolo di discussione da parte degli
autori de "Il Mondo" alla stregua di una reazione a tali mutamenti.
L'astrattismo italiano andava
sempre più internazionalizzandosi, aprendo le porte alle più avanzate
ricerche europee ed americane
ed accogliendo suggestioni materiche e gestuali, fatto che non può,
logicamente, essere
sganciato da un ricambio generazionale, dall'entrata in scena di artisti
nati negli anni Trenta (Manzoni, Lo
Savio, Castellani, Schifano, Kounellis). Il tempo della svolta in corso
nelle arti visive è scandito dall'impatto
che su artisti, critici e opinione pubblica avevano avuto alcune
esposizioni (nell'ampio
spettro dei riferimenti possibili, si metta la lente per esempio sulle
opere degli americani alla Biennale
del 1956, sulle iniziative prese tra 1957 e 1958 dalla Rome-New York Art
Foundation, sulla mostra
romana di Pollock del marzo del 1958), e accompagnato dalla rivoluzione
in atto nella critica: oltre
ad un cambio generazionale, si attesta in questo ambito anche una
rivoluzione del vocabolario, fino
ad allora vincolato al lessico della pura visibilità, ed un ripensamento
dello stesso ruolo della critica, un necessario riposizionamento
rispetto ad artisti ed opere della contemporaneità.
Per quanto riguarda la pagina d'arte de "Il Mondo", si attestano
alcune significative virate. In
primis, la scesa in campo di scriventi più giovani, su tutti Paolo Barozzi e Alberto Arbasino. Il primo,
che comincia la propria breve collaborazione nel settembre del 1962
tracciando, e la cosa non sorprende,
il profilo di Peggy Guggenheim. Tra arte e mondanità, a dimostrazione
di un rapporto
sempre più stretto tra ambiente artistico italiano e americano a partire
dai secondi anni Cinquanta,
Barozzi prosegue mettendo la lente sulle novità recepite negli Stati
Uniti, tra happening e pop art;
conclude la propria parentesi con un ragionamento sull'arte di Francis
Bacon, incontrato a Londra,
e con una analisi delle ultime novità provenienti dal fronte dell'optical. Aggiornamenti necessari,
per i lettori di un periodico romano come "Il Mondo", specie per quel
che concerne la pop art, le
cui propaggini in Italia hanno avuto perlopiù i confini geografici e
culturali della capitale.
Se Barozzi si muoveva tra arte e mondanità, la questione è ancora più
stringente per Alberto
Arbasino. Molti i suoi articoli comparsi ne "Il Mondo"; articoli nei
quali suggestioni storico-artistiche
sono mescolate a critica letteraria e teatrale, sulla scorta di un
antispecialismo che, in ambito romano e come ha sottolineato Costantino autore, sulle colonne
del periodico, della cronaca
sportiva, aveva avuto il clamoroso antecedente del d'Annunzio cronista
mondano degli anni
Ottanta dell'Ottocento. Costume artistico, insomma, più che critica d'arte.
Sul pedale dell'antispecialismo è il caso di spingere ancora. Perché il
progetto culturale di
Pannunzio e degli uomini del gruppo de "Il Mondo" si è dispiegato sulla
totalità della scena culturale.
Alla questione si è già fatto riferimento qui sopra: sugli stessi
presupposti ragionavano critici
d'arte e letterari, teatrali e musicali. Battaglie contro
l'irrazionalismo e l'antistoricismo delle
avanguardie o, più specificamente, discussioni culturali generali contro
l'astrattismo hanno animato
le pagine di critica musicale o teatrale del periodico; hanno
connotato gli scritti di autori
perlopiù attenti alle novità presenti sulla scena letteraria; simili
presupposti hanno, infine, orientato giudizi positivi e stroncature su
cui sono state costruite le recensioni di libri d'arte.
Soprattutto, la polemica antiastratta o, genericamente, antimodernista,
è potentemente balzata
agli occhi dei lettori della rivista attraverso le vignette di Mino
Maccari e Amerigo Bartoli.
Bartoli per il quale, appunta Gino Visentini in un articolo comparso ne
"Il Mondo" nell'ottobre
del 1958, era impossibile "accettare quelle forme d'arte che, come
l'astrattismo, si portano fuori dalla realtà sperimentale,
denaturalizzandosi e disumanandosi ".
La matita di Maccari e Bartoli ha fornito un
pendant visivo, nel pieno
gusto della beffa, alle battaglie di Alfredo Mezio e degli autori delle pagine culturali lungo
l'intera stagione de "Il Mondo":
dai disegni, sempre accompagnati da salaci motti di spirito, comparsi
nel settimanale negli anni in
cui era più viva la contrapposizione tra astrazione e rappresentazione, a quelli pubblicati alla metà
degli anni Sessanta, quando, sulle colonne del periodico, era stata
abbandonata l'idea stessa di un
confronto con la modernità. Lo stesso bagaglio con il quale Maccari
si era presentato a "Il Mondo"
era quello costituito dall'esperienza de "Il Selvaggio" che, come ha
scritto Paolo Fossati, era stato
"una sorta di galleria permanente del disegno e dell'incisione che fece
da polmone alla ripresa della grafica negli anni Trenta". Mezio era stato collaboratore de "Il
Selvaggio": sul periodico aveva scritto
d'arte, tra la fine degli anni Trenta e l'inizio degli anni Quaranta, e
pubblicato disegni. La centralità
assunta dall'arte grafica nelle battaglie di cultura di Mezio critico,
testimoniata da scritti comparsi
in "Il Mondo" fino alla metà degli anni Sessanta, aveva radici
sicure.
Allo stesso modo, alla rotta intrapresa nella critica delle arti visive
hanno fatto eco le battaglie
sostenute dalla rivista sui più pressanti temi d'urbanistica e
architettura. Protagonista soprattutto
il più assiduo scrivente in materia, Antonio Cederna, che nella sua
difesa dei beni storici e paesaggistici
d'Italia aveva finito per assumere posizioni di conservatorismo
oltranzista: ne sono efficace
testimonianza la battaglia con la quale, nel 1954, egli aveva dichiarato
la propria ostilità alla
costruzione della casa progettata da Frank Lloyd Wright sul Canal grande
a Venezia, aprendo, in
chiave antimodernista più che specificamente antiorganica, una polemica
che vedeva dall'altra
parte della barricata non solo altri autori de "Il Mondo", tra cui
Roberto Pane, ma soprattutto
uomini che, come Carlo Ludovico Ragghianti, costituivano riferimenti
ineludibili per gli autori
delle pagine culturali del periodico; infine, va sottolineata la
polemica con "L'Espresso" e Bruno
Zevi sul tema della riqualificazione dei centri storici, polemica
apertasi significativamente negli
stessi mesi in cui, in fatto d'arte contemporanea, si era consumato il
più significativo strappo tra
i critici d'arte di punta delle due riviste, Alfredo Mezio e
Lionello Venturi.
Occorrerà, ora, accennato agli scritti di Barozzi e Arbasino, rimettere
la lente sui testi degli
autori storici delle pagine d'arte del settimanale. Non è possibile
ragionare sulle posizioni assunte
da "Il Mondo" a partire dalla metà degli anni Cinquanta se, accanto alle
discusse difficoltà di
relazione con le più aggiornate ricerche figurative internazionali, non
si analizza la contemporanea
e straordinaria fortuna critica goduta sulle sue colonne da Jean
Dubuffet. A tessere le lodi
dell'opera del francese è, naturalmente, il curatore della rubrica
d'arte contemporanea, Alfredo
Mezio: a partire dal dicembre del 1956 quando, recensendo il volume The
Dada painters and
poets: an anthology (New York, Wittenborn, Schultz, 1951) e in un
ragionamento non clemente
sulla traccia lasciata nella storia dell'arte dalle estetiche Dada,
il critico salva "il genio caricaturale
di Dubuffet". Proseguendo con alcune note a margine dell'esposizione
delle opere della
collezione Cavellini presso la Galleria d'Arte Moderna di Roma della
fine del 1957, mostra
nel cui contesto erano state presentate alcune opere di Dubuffet che non
davano "un'idea del suo
temperamento violentemente satirico e scoppiettante di salute".
Concludono la sequenza una
riflessione sul rapporto Ensor-Dubuffet e, soprattutto, la
recensione alla mostra dell'artista
aperta presso la galleria Marlborough di Roma nella primavera del 1963. In questo articolo,
Mezio legge, sorprendentemente e provocatoriamente, Dubuffet alla
stregua di un "realista", i
personaggi delle sue tele come "longanesiani". Si dirà più in là delle
ragioni e delle implicazioni
a monte dell'operazione di fagocitamento in ventre strapaesano
dell'opera dubuffettiana.
A testimonianza di un gusto che non era di un singolo scrivente, ma di
un gruppo, vengono le
analoghe critiche offerte da Giuseppe Raimondi e Claudio Savonuzzi. Il
primo, nell'ambito di una disamina a due mostre parigine
dell'artista scrive che, in contrasto
con il distacco di tanta parte
dell'arte contemporanea dal dato di natura, "l'occhio e la mente di
Dubuffet sono sempre nell'osservare,
e valutare e giudicare, moralmente, le cose, e gli uomini intorno a
lui"; il secondo innesta
l'opera del francese in una linea di surrealismo che da Jarry e Breton
finisce, dopo la seconda guerra
mondiale, per comprendere "gran parte dell'attuale action painting", il
gruppo Cobra fino, appunto,
alla art brut e all'"ultimo anarchico-dada, il De Pisis del surrealismo, Dubuffet insomma".
L'arte di Dubuffet, "ammiratore dei pittori popolari", è arruolata nella
falange realista, e costituisce
la risposta antiformalistica da un lato al diluvio informale che aveva
ingorgato la scena artistica
italiana tra la fine del sesto e l'inizio del settimo decennio del
Novecento, dall'altro, in chiave
primitivistica, una reazione allo stilismo di alcune vecchie volpi della
pittura che, come Picasso
e De Chirico, nel secondo dopoguerra volevano ancora fare sentire la
propria voce.
Questione dirimente. All'opera di Dubuffet, Mezio associa sempre quella
di Alberto Burri. Fin dal 1954, quando, recensendo una mostra di
"pannelli" dell'italiano alla galleria dell'Obelisco
il critico osserva come alla base della sua arte ci sia "l'esercizio
stimolante della macchia leonardesca
di salnitro" trasferito "nel linguaggio dell'arte bruta". L'operazione
prosegue negli anni seguenti.
Per esempio, nel contesto di una discussione generale sull'arte di Burri
comparsa ne "Il Mondo
nel febbraio del 1958: al fondo della "estetica degli stracci", Mezio
riconosce il peso determinante
delle "caricature immaginarie di Dubuffet, fabbricate con centinaia
di farfalle morte". E
ancora, ad una analoga comparazione Mezio era giunto nel citato Dadà a
Berlino.
Cruciale, però, in tale accostamento, il giudizio espresso da Mezio a
proposito dell'arte di
Burri, e emblematico, in questo senso, un articolo comparso ne " Il
Mondo" nel gennaio del
1963. Lo scritto, che si informa di una disamina delle opere di
Burri esposte presso la galleria
Marlborough, si apre con una critica feroce dei cellophane e dei nylon
dell'artista: "il cellophane
è freddo e repulsivo", e "tutto ciò che l'artista riesce a cavarne è un
giuoco formalistico, un puro
artificio, di un'impassibilità altrettanto assurda quanto sterile";
"all'esercizio medievale o patarino", prosegue, "succede così l'arte povera, una metafora posticcia che non
ha in sé stessa alcuna
possibilità di rivalsa poetica"; "questi veli di cellophane
sforacchiati, bruciacchiati, sparsi di grumi
e di arricciolature, disseminati di crateri da cui emerge il fondo rosso
o nero della tela sottostante,
restano sospesi nel vuoto come delle bolle di sapone"; di paradossale,
conclude, c'è che "il cellophane
di Burri sega i nervi, è di gusto liberty".
La sensazione, nitida, è che Mezio avesse in mente i coevi testi di
Francesco Arcangeli. Il critico
de "Il Mondo" pare importare a freddo l'impianto critico arcangeliano,
liberandolo delle
inquietudini, dell'adesione esistenziale alla base del sistema dello
storico dell'arte bolognese
insistendo, tuttavia, su un confronto tra l'opera di Burri e pittori di
materia come Fautrier e
Dubuffet. Proprio Arcangeli, nelle pagine con le quali aveva presentato
l'opera di Burri in
mostra a Bologna, Galleria La Loggia, tra il 22 di ottobre ed il 1 di
novembre del 1957, aveva
distinto il concetto di "antistile", l'anti-intellettualismo
dell'opera di Dubuffet, dal "vasto e
semplice ordinamento della composizione" dell'"elegante"
Burri.
Il selvaggio, primitivo Dubuffet contro l'eleganza, la persistenza del
culto della forma in Burri:
qui è la chiave. Ma del fatto che Mezio e gli autori de "Il Mondo"
leggessero Arcangeli, esistono
prove ulteriori. Nell'ennesimo ragionamento sull'arte di Dubuffet,
ancora accostato a Burri, il
critico del settimanale diretto da Pannunzio indugia sulla "versione
astrattista del problema concernente
l'imitazione della natura". Problema risolto attraverso la constatazione
che, per Dubuffet,
la natura, "concepita non più sotto l'aspetto di un sistema di
convenzioni visive", costituiva "un
serbatoio di invenzioni e di processi, offerti al pittore in tutta la
ricchezza delle loro articolazioni".
Soprattutto, continua Mezio, "al concetto di imitazione" deve essere
sostituito "quello di
comunione", per la comprensione di una pittura astratta "che non
riflette ma diventa essa stessa
natura": era "la formula a cui Pollock in America, e Morlotti in
Italia, hanno dato lustro".
Insomma, anche sulle pagine de "Il Mondo", i neonaturalisti sono
schierati in forze: e sono i nuovi
naturalisti di Arcangeli che, attorno al 1957, aveva tentato di
coniugare Morlotti ed i padani con
gli espressionisti astratti americani ed i pittori europei di materia.
Un ulteriore tassello, almeno, deve essere aggiunto: in una riflessione
generale sulla crisi del
non figurativo della quale si sostanzia uno scritto comparso nel
settimanale nell'estate del 1960,
Mezio calca la mano in direzione arcangeliana, con una chiosa che non dà
adito a troppe interpretazioni:
con la "materia" , scrive, l'arte astratta "ritorna all'imitazione
della natura" , "con un' operazione
di riporto" indicativa "del malessere in cui si dibatte"; nel versante
materico (inaugurato
da Rembrandt, in una direzione di continuità della cultura che non fa
sconti a quanti asserivano
l'ineluttabilità della cesura frapposta dalle avanguardie del Novecento)
finiscono per convivere
Permeke e Morlotti, Burri e Dubuffet, e perfino "le stesure
delicatamente chardiniane di
Morandi". Anche relativamente al suggerito ritorno alla natura, è
tuttavia plausibile credere che
quello di Mezio - lo si deve ribadire - sia un arcangelismo di risulta,
scaturito dal distacco dal
sostegno di una figurazione stilizzata, terza via tra realismo e
astrazione su cui gli autori de " Il
Mondo" avevano puntato forte nei primi anni Cinquanta; terza via
percorsa, per esempio, da
Franco Gentilini, artista caro, in quegli anni, agli autori del
settimanale.
Sulle colonne de "Il Mondo", insomma, la pittura di Pollock sarebbe
recuperata attraverso i
testi di uno dei longhiani, proprio nell'anno - non si dimentichi che l'ambiente di riferimento,
per gli autori del settimanale, è quello romano - della mostra
dell'artista a Valle Giulia curata e
presentata dai leoventuriani Bucarelli e Ponente.
Perché gli autori de "Il Mondo" avrebbero dovuto guardare ad Arcangeli?
Per la battaglia
antiformalistica, innanzitutto. Poi, per il sostegno ad una moralità che
deriva dal controllo dei
mezzi pittorici, "ma specialmente che, con Croce (la cui religione della
libertà, per gli autori de
"Il Mondo", costituiva la bussola), non conservava tracce di
intellettualismo né veniva sottomessa
da ardori romantici". Ancora, in Arcangeli era possibile trovare la
prospettiva di riqualificazione
dell'Ottocento visivo al di fuori dello schematismo di Lionello
Venturi, che aveva individuato
una cesura troppo netta nella pittura impressionista; uno sbandierato
sospetto nei confronti
della "voce recitante" di Pablo Picasso; un recupero, senza rotture,
della migliore figurazione italiana
tra le due guerre, da Carrà a Morandi; infine - e il punto è dirimente,
lo si vedrà qui sotto -
la prospettiva padanocentrica di Arcangeli si sposava con le polemiche
degli autori della pagina
d'arte de "Il Mondo" contro l'internazionalismo delle cifre astratte tra
neocubismo ed informale.
Polemiche in favore di un'arte delle "regioni", di un rinnovato modello
di figurazione che, nella
genealogia culturale degli autori del settimanale, contava un ramo
ancora strapaesano.
Per la continuità di una linea di rappresentazione italiana, primitiva e
magica, e verso un rinnovato
modello di arte delle regioni
Nella individuazione della migliore figurazione italiana, da
contrapporre, progressivamente, al
neorealismo ed al neocubismo della fine degli anni Quaranta,
all'impressionismo astratto sviluppatosi
sotto l'egida leoventuriana negli anni Cinquanta e, infine,
all'informale internazionale della fine
dello stesso decennio, gli autori della pagina d'arte de "Il Mondo" si
muovono sul corrimano sicuro
dei testi e delle estetiche dei più volte citati Ragghianti, Brandi,
Arcangeli; in tale linea, significativi
punti di tangenza sono stati individuati con l'estetica crociana e con
i gusti visivi del direttore, Mario
Pannunzio; infine, lo si è visto e lo si vedrà, molte delle polemiche
contro la modernità si collegano
ad una esplicita volontà di provocare, di stupire, hanno una matrice
compiaciutamente salottiera,
tanto snob da finire con l'assumere colori antisnobistici, da giocare a
nascondere la propria cultura.
Prima che, nei primi mesi del 1950, Mezio assumesse il ruolo di critico
d'arte contemporanea, è
Corrado Sofia, sulle colonne del periodico, a separare il grano dal
loglio, a fissare, per i lettori del
settimanale, i pittori del canone. In una serie di articoli comparsi nei
primi numeri de "Il Mondo",
ragiona attorno ad una galleria virtuale, ad una lista di artisti di
riferimento: De Pisis, Morandi,
Mafai, Maccari, Bartoli, Donghi, Carlo Levi, Savinio. Ad unire
questi pittori, l'appartenenza alla
medesima generazione (sono tutti nati nell'ultimo decennio
dell'Ottocento o nei primissimi anni del
Novecento); la frequentazione, per alcuni più assidua, per altri
limitata ad alcuni anni della attività
(caso a parte, evidentemente, quello di Morandi, al cui nome, tuttavia,
era impossibile rinunciare
in una operazione culturale che intendeva riaffermare l'autonomia morale
degli artisti negli
anni Venti e Trenta) degli ambienti artistici e letterari romani";
l'abbraccio ad una figurazione che,
dopo l'ultima guerra (il discorso vale anche per Levi, che solo negli
anni Cinquanta avrebbe virato
verso l'opzione politica e culturale comunista, dopo il
postimpressionismo di marca leoventuriana
del ventennio e l'azionismo degli anni della Resistenza) non aveva
accettato di essere inglobata nella
pittura di marca socialista o di piegarsi a direttive di movimenti o di
mercato, e aveva continuato a
mantenere una posizione orgogliosamente appartata, tra intimismo,
espressionismo e declinazioni
"magiche". Se Maccari e Bartoli, inoltre, si erano ritrovati fianco a
fianco nell'esperienza de "Il
Mondo", non va sottovaluta, e della questione si è detto sopra, neppure
la componente donghiana
e "magica" a monte della stagione di Mario Pannunzio pittore, all'inizio
degli anni Trenta.
Il primo passo da compiere, per chi si accosti alla lettura de "Il
Mondo", è quello di afferrare
la necessità, avvertita dagli uomini del gruppo riunito attorno a Mario
Pannunzio, di riprendere
a ragionare secondo una prospettiva regionale delle arti, prospettiva
che si sostituisse all'internazionalismo
delle mode figurative astratte (nella stagione compresa tra neocubismo e
informale) e
a quello della rappresentazione (nello zdanovismo, l'internazionalismo
comunista aveva una propaggine
visiva). La questione è stata anticipata qui sopra, allorché si è
provato ad individuare i
punti di contatto di tali istanze con il modello di arte padana di
Arcangeli.
Quello astratto si profilava, agli occhi degli autori della rivista,
come un nuovo accademismo,
una maniera internazionale di matrice newyorchese che seguiva di pochi
anni l'algido e scenografico
neoclassicismo dei marmi del ventennio e che si era sostituito ai
pariginismi, al mito stracittadino
della prima metà del secolo; neoclassicismo e prospettiva francocentrica
che molti di essi
avevano fieramente combattuto dal fronte delle regioni dell'arte,
perlopiù nelle file di Strapaese.
L'insofferenza rispetto alla nuova accademia, al formalismo astratto tra
anni Quaranta e
Cinquanta e ad una New York nuova Parigi, appare evidente fin dai primi
mesi di vita del settimanale.
La manifesta, in particolare, il critico delle arti visive, Alfredo
Mezio. L'allarme è lanciato
nell'ambito del primo scritto sulla Biennale del 1950, nel quale il
critico aggira con calcolo
il problema della disamina delle opere esposte, preferendo analizzare
l'impatto della manifestazione
sul paesaggio umano e culturale veneziano: "soffocati
dall'internazionalismo dell'arte del
Novecento", "i veneziani commentano non senza rimpianto la scomparsa di
un tono, di uno spirito
e di un color locale". Paga un prezzo salato la Venezia dei "lettori del
Gazzettino", la Venezia
di Longhi e Guardi, per ritrovare la quale "bisogna risalire verso certe
piazzette e certi vicoli d'acqua",
ed "è impossibile visitare senza tristezza la saletta che la Biennale ha
voluto dedicare quest'anno
alla memoria di Favretto". La Biennale, conclude Mezio, aveva invaso
Venezia, mutandone
l'aspetto: "quest'anno Venezia è una città fauve e post-impressionista
come la sua Biennale".
La questione è dirimente anche nelle analisi di alcune figure d'artisti comparse ne "Il Mondo"
negli stessi mesi. Si vedano, a titolo esemplificativo, gli scritti su
Franco Cannilla che, per dirla
con le parole di Mezio, come "i Guttuso, i Franchina", aveva cercato uno
stile al di fuori della Sicilia
e della rappresentazione, ma "dopo di aver fatto il giro completo di
tutta l'arte contemporanea",
aveva scoperto che "la Sicilia è la migliore delle isole
sconosciute"; il giudizio non tenero espresso
qualche settimana prima sull'arte di Luigi Bartolini, le cui intuizioni
erano spesso complicate
dall'imperio delle fonti visive, "una pioggia di colori violentissimi e
incandescenti" alla Rouault o
alla Vlaminck, un diluvio di riferimenti, cifre stilistiche da Van Gogh
a Gauguin sulle quali, in
scritti precedenti e coevi, aveva puntato il dito anche Francesco
Arcangeli; le considerazioni spese
a proposito dei "tappeti su disegni astrattisti" di Carla Accardi
presentati alla Mostra del
Mezzogiorno, Accardi che era scesa dalla torre d'avorio
dell'avanguardismo ed aveva "avuto l'idea
di far tessere i suoi tappeti ad Erice, presso Trapani", con
"preistorici telai". Ne risultavano lavori
che avevano mantenuto "la solidità e la resistenza che sono le
caratteristiche dei tessuti fatti in casa".
Operazioni simili, Mezio aveva imbastito anche per artisti centrali nel
suo ragionamento sull'arte del Novecento, per esempio Gentilini, pittore che Mezio aveva
presentato anche sulle pagine
del catalogo della XXVI Biennale veneziana. L'artista, scrive Mezio in un articolo del febbraio
del 1951, aveva dato il meglio di sé quando, in disaccordo con le nuove
cifre imposte dai
centri dell'arte internazionale, dove la "specialità" d'ogni artista è
"bella e preparata", aveva saputo
ritrovare la propria natura di faentino e ceramista, e ritrarre
"l'Italia che appare dal finestrino del treno, simile ad un
miraggio o ad un immenso trucco archeologico".
In questo progetto rientrava, in tutta evidenza, in anni nei quali i
sofisticati mercanti newyorchesi
stavano cominciando ad assumere il controllo del sistema artistico
internazionale, la polemica
operazione di riqualificazione dell'artigianato e dell'arte americana
dell'Ottocento: "l'arte
popolare americana non ha uno stile proprio", ma ciascuna comunità
presentava la propria cifra;
l'America che, se riusciva a parlare un linguaggio comune, lo faceva
"nei materiali, negli strumenti
di lavoro e nei bisogni ridotti di una società isolata"; gli umili
artigiani americani "non avevano la
spregiudicatezza degli artisti d'oggi", "ignoravano l'arte dei pastiches";
i loro oggetti, tuttavia, "ci
parlano di un'America patriarcale, arcaica, spontaneamente povera".
Per concludere, la presa di posizione più lampante. Nell'ambito della
recensione al Premio
Nazionale di pittura di Bari del 1955 (significativamente messo al
centro dell'agenda critica, dalle cui pagine era già scomparsa
l'Esposizione internazionale veneziana), Mezio loda quanto gli
organizzatori dell'evento erano stati in grado di fare, vale a dire
"riconoscere le zone vive della pittura
contemporanea, ed evitare l'estremismo, la moda, lo snobismo".
Carattere essenziale per la
concezione dell'intellettuale promossa dal gruppo Pannunzio, il fatto
che il Premio Bari avesse
anche un significato politico: "nato dallo sforzo delle piccole élites
radicali del Mezzogiorno", era lo
specchio figurativo dell'"illuminismo" liberaldemocratico. Insomma,
costituiva la proposta di un
riveduto regionalismo dell'arte, in anni in cui, in ambito politico,
fervevano i lavori nei cantieri
delle Comunità olivettiane e, da parte di alcuni liberaldemocratici
vicini alle posizioni degli autori
de "Il Mondo", era da poco stata fondata la rivista meridionalista
"Nord e Sud". "Oggi che gli
artisti parlano suppergiù lo stesso linguaggio internazionale", era
possibile tirare una boccata d'ossigeno
solo di fronte a opere come quelle dei marchigiani presentate, nella
primavera del 1954, al
Palazzo della Quadriennale di Roma: montava, tra i redattori del
settimanale, una nostalgia sempre
più acuta per le vecchie "esposizioni regionali", per l'arte di una
"provincia arretrata, ritardataria,
isolata, un po' rustica", evocata attraverso un'aggettivazione di
patente matrice strapaesana.
Questione altrettanto centrale, quella dell'arte dei primitivi, dei
pittori della domenica. Pittura
popolare contrapposta ad ermetismo, elitarismo, esistenzialismo,
cripticismo delle avanguardie del
Novecento. Il filone degli scritti sull'arte degli ingenui è il più
consistente, tra quelli portati avanti
dal critico d'arte de "Il Mondo", Alfredo Mezio. Tanto per cominciare,
l'operazione di recupero
dell'arte dei semplici impostata sulle colonne del settimanale non
risulta del tutto immune da
discendenze crociane: come ricorda Carlo Antoni, il filosofo aveva
individuato "una certa affinità
tra il poeta e il fanciullo e il selvaggio".
Tale filone è inaugurato in concomitanza col primo scritto di Mezio,
centrato sull'arte del
"bracciante e disoccupato " Bruno Rovesti; contraddistingue gli
articoli usciti su "Il Mondo" nel
1950, quasi a fornire una soluzione visiva alternativa alle mode
internazionali presentate a
Venezia nell'ambito della Biennale; cavalca Fonda delle iniziative che,
tra la fine degli anni
Quaranta e l'inizio degli anni Cinquanta, avevano promosso la Galleria
nazionale di arte moderna
e la sua direttrice, Palma Bucarelli, iniziative spesso consistenti in
concorsi rivolti a studenti di
università e scuole, tra le quali spicca la Mostra di Artigianato
artistico dell'Istituto d'Arte
Zileri; scivola dalla difesa dell'arte dei bambini a quella di
un'altra categoria dimenticata dalle
maggiori rassegne d'arte internazionale, quella delle donne, tra le
quali spazio precipuo, sulle
colonne de "Il Mondo", hanno la "popolana e autodidatta" Deiva
De Angelis e la "pittrice
improvvisata" Antonietta Raphaël Mafai. Le donne, secondo Mezio,
sanno tenere lontano dalle
tele gli infingimenti della cultura e dello stile e, in chiave
autenticamente primitiva, presentano
"tutto ciò che l'astrattismo proibisce all'artista quale materiale
spurio e perciò inconciliabile con
la vera poesia o la vera pittura". La serie prosegue con una
significativa sequenza di scritti comparsi
nel settimanale tra il settembre del 1954 ed il gennaio del 1955 mirati
alla messa a fuoco
dell'arte del "pittore per passatempo" Ilio Vannucci e del
barbiere di Ischia Luigi De Angelis; ha, infine, significative code
negli anni Sessanta, con scritti come Ruggeri e Carmelina.
Alla medesima sequenza e in una chiave che risente sensibilmente delle
prese di posizione di
Ragghianti a guerra conclusa, sono da annoverare gli scritti sui
toscani, dall'"autentico popolano"
Lorenzo Viani, "legato a quel mondo di squinternati, di lunatici, di
ubriachi, di filosofi da
taverna", fino a Mario Marcucci, artista vicino al Rosai "più tirannico"
e che rifiuta di mettere
"il piede nella trappola di un'arte troppo intellettualizzata".
Allo stesso Rosai è dedicata una
ingente serie di scritti, a testimonianza del fatto che, negli ambienti
de "Il Mondo", sulla difesa
dei testi di Ragghianti si era giocata una partita di prima importanza:
dell'arte di Rosai è marcata,
in particolare, la "autenticità di autodidatta", dimostrata anche dalla
"fedeltà al Comune",
dalla sua fiorentinità, da "l'istinto riottoso del popolano" che lo
aveva "tenuto ostinatamente al
di fuori della Città letteraria, dove regnavano gli scrittori del
Marzocco e trionfava la retorica dannunziana del rinascimento".
Il gusto per l'arte popolare, in alcuni passaggi, spinge il pedale
dello spiritualismo: lo testimoniano
l'insistenza di Mezio sull'arte di Fiorenzo Tornea e i frequenti
richiami al magistero critico
di Edoardo Persico. Tornea inserito da Mezio nel novero degli artisti
del canone, all'inizio del
1951; Tomea le cui opere sono, tra 1952 e 1953, oggetto di attente
analisi, tra recensioni ad
esposizioni e commenti a monografie. Nel contesto delle letture fornite dagli autori de "Il
Mondo", Mezio su tutti, alla sottolineatura delle componenti popolari
nell'arte tomeiana si salda
la marcatura dell'elemento del "territorio", del rapporto tra arte e
regione: nell'ambito di una
mostra a Cortina, scrive Mezio, Tomea è, tra gli espositori, l'unico,
autentico "indigeno".
L'attenzione sul mito di uno dei cavalli della scuderia dei cristiani di
Persico ha code ancora negli
anni Sessanta: a ulteriori squarci aperti sulla pittura di Tomea,
vanno aggiunte alcune riflessioni
sul lascito culturale di Persico. Dopo le caute prese di posizione
in favore dell'espressionismo
astratto e dell'impressionismo non figurativo cresciuto sotto l'ala di
Lionello Venturi, l'opzione
Persico-Tornea è, ancora una volta, una dichiarazione di fede romantica.
Nemici, come sempre,
l'accademismo, nella vecchia veste classicista e in quella astratta, nel
secondo dopoguerra rappresentata
dalla ricerca concreta, geometrica.
Ultimo punto: il senso del recupero delle poetiche del realismo "magico"
e italiano. Per dipanare
la matassa, è necessario mandare l'attenzione agli scritti in memoria di
Antonio Donghi che
compaiono ne " Il Mondo" tra il 1962 ed il 1964, qualche mese prima ed
appena dopo la morte
dell'artista. Omaggi a Donghi, artista che, si è scritto in più di
una occasione, aveva lasciato il
proprio marchio sugli esordi pittorici di Pannunzio; omaggi, tuttavia,
che esulano dal ricordo
personale e, come rivela un articolo, sempre di Mezio, del marzo del
1964 centrato sul volume
di Mario Praz Casa della vita, rientrano in un filone di rinnovato
interesse nei confronti della
questione del magico.
Magico italiano, tuttavia. Un magico dalle solide radici storiche,
tenacemente contrario ai filosofismi
bretoniani, ai cifrari avanguardisti. Tra le polemiche ingaggiate sulle
colonne de "Il
Mondo", quella aperta contro il surrealismo è seconda solo a quella
indirizzata nei confronti del
realismo socialista; polemiche che, anzi, in alcuni casi coincidono,
quando alle discussioni generali
sulle caratteristiche del movimento si associano riflessioni a proposito
della militanza comunista
di molti dei suoi membri. Il problema dell'ostilità degli autori de
"Il Mondo" rispetto alle poetiche
del surrealismo ha una doppia chiave di lettura: da un lato un sospetto
tutto regionalista,
figlio di una formazione strapaesana, nei confronti del connotato
stracittadino ed internazionalista
del surrealismo; dall'altro, altrettanto potente, spinge lo stigma che
sul movimento aveva apposto
Benedetto Croce, della cui avversione per l'irrazionalismo, il
narcisismo decadentistico, l'elitarismo
dell'arte del Novecento si è già scritto. Sicché già i primi numeri
de "Il Mondo" presentano attacchi
impietosi ai corifei internazionali del surrealismo, recensioni ad
esposizioni che assumono i
caratteri di discussioni culturali generali: è così, per esempio, per
gli scritti di Mezio centrati sulle
mostre di Fabrizio Clerici, Stanislao Lepri ed Enrico Donati
all'Obelisco, rispettivamente nella primavera
del 1949, nel marzo e nel novembre del 1950; ragionamento analogo,
infine vale per
bilanci complessivi sul movimento, tra i quali si segnala quello offerto
negli stessi mesi da Bruno
Romani. La polemica procede, inesorabile, fino agli ultimi anni della
stagione de "Il Mondo": al
di là del menzionato Il rifiuto totale, di Giorgio Granata, è possibile
segnalare interventi che, opera
di più di una penna, dimostrano come, sull'antisurrealismo, il fronte
degli autori della rivista avesse
saputo compattarsi saldamente, e marciare sulle due strade delle arti e
della filosofia: emblematico,
in questo senso, Surrealismo e simbolismo, di Michele Biscione.
Occorrerà, per tirare le fila del problema del magico italiano,
richiamare alla mente l'ingente
pattuglia degli scrittori del surreale già dagli anni Trenta vicini a
Pannunzio: Delfini, Landolfi,
Morovich. Uomini che hanno seguito il direttore anche nel corso della
stagione de " Il Mondo".
Occorrerà rammentarne, inoltre, la componente culturale vernacola, la
collaborazione alle riviste
dirette tra le due guerre dai nani di Strapaese, Maccari e Longanesi.
A segnare la rotta, ancora, sono gli scritti di Alfredo Mezio, che già
nel giugno del 1954 individua
una linea italiana al surrealismo, linea che affonda le proprie radici
nel Cinquecento
dell'Arcimboldi: nel rapporto tra l'arte di questi e la contemporaneità,
il critico afferma la pregnanza
anche culturale del confine naturale alpino, negando ogni ipotesi di
affinità "tra la fantasia
dechirichiana" dell'Arcimboldi, "così allegra e scoppiettante di
vitalità", e "le rappresentazioni mortuarie
dei Dall, dei Magritte e dei Tanguy con la loro carica di sottintesi
sessuali, l'ostentazione tecnica
e la perversità a freddo". Ancora, ribadita la via italiana al magico
nel dicembre dell'anno successivo, ascrive ad essa le ricerche di Zuccheri, i cui Bestiari affondano
le radici nella "vecchia
natura morta secentesca a base di ucellame", natura morta che pareva
morta "con le oleografie di
Strapaese", e che faceva da contrappeso ai "barbarici" bestiari
picassiani. Insomma, lontana dalle
componenti freudiane del surrealismo francese, la "bonomia" popolare
dell'arte di Zuccheri non
portava con sé alcuna traccia "di quell'affettazione manieristica e
conturbante"; non è casuale che, pochi anni prima, Maccari avesse
lavorato alle incisioni delle Bestie del '900 di Aldo Palazzeschi.
Nel solco dell'Italia magica, allora, c'è spazio anche per Dino Buzzati, il cui surrealismo, in barba
ai "fanatici della psicanalisi", "non ha radici nella psicologia": "esso
pesca nel mondo dell'immaginazione", e "i suoi spunti figurativi" "ricordano lo spirito del Giornalino
della Domenica".
Mezio avrebbe ribadito simili temi anche con la bocca lontana
dall'altoparlante costituito dal
settimanale pannunziano e fino alla metà degli anni Settanta quando,
volgendo la mente alla stagione
de "Il Selvaggio", avrebbe affermato che alla rivista "deve qualcosa
anche il surrealismo che,
almeno in Italia, è figlio dell'Arcimboldi piuttosto che di Freud".
Da Longanesi a Longanesi: in arte e cultura, gli autori de
"Il Mondo"
guardano ancora al vecchio
maestro di giornalismo.
Non solo Maccari, nella testa degli autori della pagina d'arte de "Il
Mondo". Anche Leo
Longanesi. È doveroso cominciare da alcuni dati già discussi. A partire
dal costante riferimento
da parte di Alfredo Mezio al magistero artistico, non solo culturale di
Leo, l'altro nano di
Strapaese. Riferimento che, per il critico, era la naturale
continuazione di dichiarazioni di stima
pubblicate sulle colonne di quotidiani e periodici negli anni Trenta e
Quaranta. Almeno due,
tra i punti indagati, devono essere ribaditi, per afferrare i contorni
del problema.
Primo, la legittimazione delle ricerche visive di Dubuffet sulla scorta
della somiglianza dei personaggi
delle sue tele ai pupi "longanesiani ". Per Mezio, insomma, alla
radice del realismo di
Dubuffet, c'è la grafica europea degli anni tra le guerre, in Italia
alimentata soprattutto dalle
vignette comparse ne "Il Selvaggio". Secondo, la affermata centralità
della figura di Longanesi
dentro tutte le ricognizioni sull'arte grafica, in particolare quella
proposta nel quadro della disamina
delle opere esposte alla Biennale della caricatura e dell'umorismo,
esposizione articolata
appunto attorno ai lavori di Longanesi e evento il cui catalogo è
accompagnato proprio da una
introduzione di Mezio.
Non basta. Ulteriori indizi spingono a ragionare sul fatto che la
spaccatura tra Mezio e
Longanesi, tra Pannunzio e Longanesi sia solo e tutta politica. Uno su
tutti dà la misura della questione.
In un ragionamento sui pittori della domenica e sull'arte di Alfredo
Ruggeri e Carmelina
di Capri del febbraio del 1961, Mezio ripercorre la storia delle
esposizioni di pittura popolare,
filone centrale, si è detto, tra quelli informanti il gusto dei
collaboratori de "Il Mondo"; e marca,
in tale panorama, il ruolo di apripista di Leo Longanesi (sua la prima
mostra sugli "ingenui", scrive
il critico, che "risale all'anno della Liberazione di Roma"), ed il
successo che i quadri degli artisti
della domenica avevano riscosso nell'ambito degli intellettuali che, tra
anni Venti e Trenta, avevano
animato gli ambienti del Caffè Aragno.
La riqualificazione operata da Mezio nei confronti di Leo è ancora più
esplicita in un articolo
comparso ne "Il Mondo" solo qualche mese prima, Longanesi e bodoni.
Commentando "il cortometraggio
su Longanesi, di cui il regista Primo Zeglio" (anche lui autore de "Il
Mondo", e contato
da Romano Bilenchi tra gli Strapaesani torinesi del 1931, anno del
trasferimento a Torino della redazione della rivista "ha iniziato la lavorazione per la
Documento Film", Mezio si concentra
sulla stagione di "Omnibus", rivista presso la quale - nelle parole di Mezio c'è in tutta evidenza
la volontà di riscattare il ruolo di Pannunzio e Benedetti,
collaboratori della rivista -
Longanesi aveva mobilitato "scrittori che il fascismo tollerava come il
fumo negli occhi". Qui è
la novità dello scritto di Mezio, che nell'ambito della cultura di
fronda e della sua eredità colloca
una cesura che intende separare quanto meno politica e cultura,
contrapponendo Longanesi, voce
di "una società conservatrice ma nutrita di cultura fino alla cima dei
capelli" , oltreché ineludibile
riferimento per i pannunziani, alla "retorica plebea del regime".
Stanti divergenze insanabili sul piano politico e civile, sulle pagine
de "Il Mondo" si era cercato
a lungo di glissare sulla figura di Longanesi. La sua morte, tuttavia,
avvenuta nel 1957, aveva
costretto ad una presa di posizione. Nell'ambito di un coccodrillo
pubblicato nel "Taccuino", i
redattori della pagina politica del periodico procedono con cautela,
cercando di separare le battaglie
di cultura condotte negli anni tra le due guerre da un intellettuale
definito un "esempio d'indipendenza, di libera critica, di dissidenza" e il cui ideale "era
un'Italia civile, fattiva, vivace
moderna", dal "qualunquismo che trabocca dalle pagine dell'opera
recente" e, il riferimento è ineludibile, dalle colonne de "Il Borghese".
Più spesso, al nano di Strapaese erano andati riferimenti inseriti in
pagine di memorialistica
soprattutto a firma Leonetta Cecchi Pieraccini. Nei suoi "Aneddoti e
occasioni", ricordi carichi di
nostalgia per la Roma spazzata via dalla modernizzazione e dalle
trasformazioni urbanistiche in
atto a partire dagli anni Trenta, non mancano allusioni a Longanesi, al
suo ruolo di editore ed
organizzatore culturale; anche qui, in alcuni casi, con tributo
d'obbligo alla stagione d'"Omnibus", che aveva visto lavorare, al fianco dell'intellettuale, Mario
Pannunzio e Arrigo
Benedetti. Alla medesima temperie culturale sono da ricondurre,
infine, le tenere suggestioni
ricavate da parte di più di un collaboratore de "Il Mondo" dalla lettura
di Almanacchi e
Strenne, pubblicazioni che avevano traguardato agli anni Cinquanta e
Sessanta un gusto letterario e visivo che, in Italia, era stato soprattutto quello degli uomini
della cultura di fronda. In
pubblicazioni che, ancora nel secondo dopoguerra, presentavano
illustrazioni di Maccari
Bartolini, testi di Italo Cremona.
Longanesi, però, e al fatto si è già fatto riferimento, voleva dire
anche "Il Borghese", rivista sulla
quale, qualche anno fa, ha fatto luce uno studio di Raffaele Liucci. Gli autori de " Il Mondo", "I
Borghese" lo leggevano eccome. Da un lato contrastandone le posizioni
politiche, nel quadro di battaglie a tutela dell'antifascismo di segno democratico e del dettato
costituzionale, dall'altro per un
interessante confronto sulle posizioni espresse in fatto d'arte e
letteratura. È ancora Alfredo Mezic
che ce ne dà prova, Mezio attraverso i cui scritti è possibile tirare i
delicati fili del rapporto tra le linee
culturali sulle quali le due riviste si sono mosse tra anni Cinquanta e
Sessanta.
Un suo scritto, in particolare, fa chiarezza: Pesce d'Aprile, del
settembre del 1962. Una rilettura storico-critica del surrealismo, a commento del volume
Le Surrealisme di Patrick Waldber
(Genève, Skira, 1962). Fondamentali le righe centrate sul versante
italiano delle poetiche del surreale: nulla più che "imitazioni provinciali", scrive il critico, quelle
partorite in Italia. "Basta sfogliare
i pochi numeri di Circolare sinistra", "che alcuni anni fa" aveva
tentato di "acclimatare in
Italia lo scandalo surrealista". La rivista dimostrava soltanto che "i
surrealisti torinesi sono crepuscolari e leggermente qualunquisti", e "si servono di materiale di
seconda mano" che, peraltro
"Longanesi sfrutta sul Borghese con altro spirito ed energia".
"Arruolato per ragioni d'affetto" nella
fine del surrealismo, al termine del ragionamento sui più importanti
lavori del movimento, un
"poisson" di Maccari - l'altro dei nani dell'Italia vernacola tra le due
guerre -, il pezzo più notevole tra quelli prodotti di qua delle Alpi.
Quanto a "Il Borghese", l'analisi deve essere approfondita. Estesa,
almeno per quanto attiene
agli anni della direzione di Longanesi (1950-1957), alle sue posizioni
in materia di arti figurative. Confrontata, in un dialogo stringente,
con la specola sulle arti costituita dalla rivista di Mario
Pannunzio che, come si è scritto, sul crinale fra il quinto ed il sesto
decennio del Novecento è
impegnata in potenti dichiarazioni antiastratte. "Il Borghese" nel
quale, per cominciare, a prendere la parola è lo stesso direttore, che fin dai primi numeri, in un
discorso carico di nostalgia per
la Roma tra le due guerre, la Roma di Bartoli e Vespignani spesso
evocata sulle colonne de "Il
Mondo" da Leonetta Pieraccini, dichiara guerra aperta all'arte astratta
ed al nemico giurato Lionello Venturi, col cui "velo intellettuale" "è
meglio pulirsi il naso".
Nello stesso torno di tempo, la rivista, in significativo accordo con le
posizioni assunte in quelle
settimane dai critici del settimanale di Pannunzio, aveva cominciato a
prendere di mira gli artisti che,
a partire dalla stagione delle avanguardie, più erano stati indulgenti
con lo stile, con la maniera. Il
caso Severini è emblematico. Liquidato su "Il Mondo" da Alfredo Mezio
con l'infamante etichetta
di "pittore di testa, razionale", "sempre avido" delle "sottigliezze
professionali" proprie di un artista
che "non ha nulla da dire", ancorato ad un decorativismo di echi
settecenteschi, egli non avrebbe
trovato, tre mesi più tardi, da parte degli autori della pagina d'arte
de "Il Borghese", parole più concilianti.
La sua pittura, scrive un anonimo redattore del periodico diretto da
Longanesi, "continua,
col belletto sulle grinze, a presentarsi in pubblico con abiti di
vecchia foggia"; artista, insomma, la cui più "grande novità" era
quella di "scoprire un nuovo linguaggio".
Tangenze evidenti tra "Il Mondo" e "Il Borghese" si rilevano anche nella
polemica indirizzata
contro l'elitarismo avanguardista, perlopiù di segno esistenzialista,
degli intellettuali parigini: tra
quanti animavano, per esempio, gruppi come il "Dupont-Latin", scrive
Enrico Fulchignoni in un
articolo comparso nella rivista di Longanesi nel dicembre del 1951,
nessuno "dimostra il minimo
talento, e soprattutto nessuno lavora a crearsi una tecnica, un
mestiere, tanto nel campo delle
lettere che in quello delle arti", ambito in cui le produzioni "sono,
nella quasi totalità, di tipo surrealista".
Il significato del ragionamento si comprende ancora meglio se si fa
procedere una comparazione
tra la predilezione per l'anti-intellettualismo, l'antiformalismo
degli artisti della domenica
propugnato dagli autori de "Il Mondo", e le analoghe battaglie sostenute
dagli autori de "Il
Borghese" che, per esempio, nella primavera del 1956 avevano dato
assoluta centralità ad una esposizione di quadri di vigili urbani alla
Galleria romana del Manichino.
Ad accomunare le riviste, ancora, argomentate, granitiche riserve
espresse nei confronti dell'arte
di Pablo Picasso; se per quel che concerne le polemiche tra Picasso e
gli autori de "Il Mondo" si è
scritto, per quel che attiene a "Il Borghese" sarà necessario riportare
almeno uno stralcio del testo
riservato da Mario Monti all'artista in occasione della grande mostra
milanese del 1953. Nello
scritto citato, la denuncia dell'avanguardismo fa il paio con attacchi
indirizzati in chiave d'arte nazionale
all'ecumenismo delle mode visive del Novecento: l'evento, scrive il
critico, "ha permesso di far
conoscere opere d'arte della potenza del manubrio di
bicicletta-attaccapanni a quegli strati sociali che
continueranno ad ignorare i capolavori dimenticati nelle loro chiese e
nei musei".
Emblematica anche la linea scelta a proposito delle Biennali di Venezia.
Qui, i punti di contatto
con la rotta intrapresa dagli autori de "Il Mondo" si fanno ancora più
evidenti. Se, come si
è visto, questi ultimi avevano optato per un eloquente silenzio a
partire dal 1956, silenzio interrotto
solo da alcune accuse rivolte nei confronti del sistema delle arti e
delle giurie selezionatrici
e premianti, i redattori de "Il Borghese" avevano fin dal 1950 preso la
via dello scontro frontale
con finanziamenti sbagliati, scelte artistiche discutibili, "competenti"
tromboni, " universitari,
burocratici o sindacali". Alla Biennale, nei mesi successivi si
sarebbe aggiunto un altro bersaglio,
vale a dire la Triennale che, nel 1955, aveva ricevuto dallo Stato e dal
Comune di Milano sovvenzioni per duecentoventicinque milioni.
Ancora due questioni, niente affatto marginali. Primo, la convergenza
tra "Il Mondo" e "I
Borghese" travalica lo spazio della critica delle arti contemporanee, e
fa sentire la sua presenza
anche nell'ambito della disamina dei più pressanti problemi di
urbanistica ed architettura: pel
esempio, sulla polemica scoppiata nel 1954 attorno al progetto di Frank
Lloyd Wright per il Canal
Grande a Venezia, sulle colonne de "Il Borghese" Antonio Fornari si
assesta sulle stesse posizioni
sulle quali, ne "Il Mondo ", si era mosso Antonio Cederna, e in una
discussione generale contro
il modernismo conclude, polemicamente, che ormai ogni città italiana
poteva "vantare il suo
wrightiano, così come già da tempo il suo picassiano".
Secondo, non è senza significato, per chi voglia definire il gusto
visivo espresso dalle due riviste
registrare un movimento, un passaggio di collaboratori delle pagine
d'arte da un giornale all'altro
nello specifico, è dirimente appurare come, nell'agosto del 1954, ne "Il Borghese", sia pubblicato
un disegno di Amerigo Bartoli, attraverso la cui matita, come si è
scritto, ne " Il Mondo" si è operato
un costante lavoro al fianco delle ricerche artistiche dell'oltranzismo astrattista.
Occorrerà, per chiudere, tenere presente la collaborazione, costante,
col giornale di Longanesi
di Soffici e Bartolini. Quest'ultimo, reduce dall'esperienza di
"Mal'aria" (1951-1954), rivista
maremmana diretta da Arrigo Bugiani che aveva traguardato agli anni
Cinquanta arte e culture
dal sapore ancora tutto strapaesano, intensifica la propria
collaborazione a "Il Borghese " nella
seconda metà degli anni Cinquanta, tra racconti e scritti d'arte che
confermavano, in sostanza
la dichiarazione del Fallimento della pittura espressa nel 1948, di ritorno dalla prima Biennale
dell'Italia democratica.
Soffici, invece, sarebbe diventato collaboratore fisso de "Il Borghese"
dopo la morte di Longanesi
perlopiù occupandosi della rubrica "Sull'orlo dell'abisso" o della
memorialistica delle Pagine di diario, all'interno della quale è efficacemente ricostruito l'ambiente
culturale romano degli anni
Trenta: centrali, e ormai non può stupire, le figure di Leonetta
Pieraccini, Mino Maccari, Amerigo
Bartoli, insomma, alcuni tra i più significativi membri della redazione
de "Il Mondo". Soffici non
avrebbe nemmeno disdegnato di occuparsi d'arte, a partire da Chiave
della pittura moderna, comparso nel periodico il 16 gennaio del 1958, mescolando, così,
cultura e mondanità.
Nel secondo dopoguerra, insomma, Longanesi (e poi Soffici) e Maccari si
schierano in due campi
politicamente contrapposti, traghettando tuttavia fino agli anni
Cinquanta quanto era stato possibile salvare della cultura di fronda, delle riviste di Strapaese, del
gusto del rotocalco. "Il Mondo"
"Il Borghese" usano l'un l'altro il randello quando c'è da discutere di
Repubblica e Resistenza, ma si strizzano l'occhio quando sul tavolo c'è
la polemica contro l'arte contemporanea. Non c'è prova
migliore di quella che lascia uno scritto di Piero Buscaroli comparso
nel periodico milanese nel giugno del 1960, nell'ambito di un commento alla Trentesima Biennale di
Venezia: se la prima parte
dello scritto serve a liquidare quadri astratti "tutti uguali, tonti,
tetri, lugubri ", e sculture "iettatorie
e oscene", la visione di alcune opere di Maccari nella sala del bianco e
nero fa stringere il cuore de
giornalista: "ma tu, Maccari, che cosa ci fai là in mezzo?".
Lorenzo Nuovo
p.s.: per motivi
tecnici, nel testo, sono state omesse le note dell'autore.
La pagina
d'Arte de "Il Mondo" di Mario Pannunzio
Edizioni della Laguna