"LA BATTAGLIA
DI CUSTOZA"
24 - 25 LUGLIO 1848
Mario Troso
"...il soldato
dimostra sempre una particolare sensibilità nel percepire se è ben
guidato o meno. "I (Martin Hobohm)
QUADRO GENERALE
1848. La rivoluzione
in Italia prima che a Milano comincia a Venezia, che appartenendo al
Lombardo-Veneto è anch'essa governata dagli Austriaci. Il 17 marzo 1848,
alle notizie del trionfo della rivoluzione di Vienna, la folla si
riunisce per chiedere la liberazione di Nicolò Tommaseo e di Daniele
Manin imprigionati, poi forza le porte del carcere e libera i due che
sono portati in trionfo. In Piazza San Marco è innalzata la bandiera
tricolore. Il governatore Palffy concede agli insorti una modesta
guardia civica, ma il 22 scoppia una rivolta nell'arsenale. Alle 5 del
pomeriggio il governatore militare austriaco, non ritenendo di poter
resistere e al corrente dell'insurrezione di Milano, firma la
capitolazione e s'imbarca per Trieste con 3.000 uomini. Il 23 si
costituisce il governo provvisorio sotto Manin ed è proclamata la
Repubblica. La rivolta contro gli Austriaci scoppia improvvisa il 18
marzo 1848 in parte del Lombardo Veneto e a Milano. Nel capoluogo
lombardo il comandante austriaco Radetzky dispone di circa 14.000
uomini, 900 cavalli e 30 cannoni, ma gli insorti, costruendo ben 1.650
barricate, creano insormontabili ostacoli al movimento delle truppe
austriache e, prendendo di mira e uccidendo a mano a mano tutti gli
artiglieri, impediscono ai cannoni di intervenire con la loro azione
distruttiva.
Così gli Austriaci,
sorpresi, bersagliati da ogni dove e affamati, dopo 5 giorni di
combattimenti, nella sera del 22 marzo lasciano la città. Devono
abbandonare agli insorti anche Bergamo, Brescia, Cremona, Varese,
Sondrio, Como, Monza e poi, non sentendosi sicuri, ogni altra posizione
sia in Lombardia sia in Veneto per ritirarsi parte a Verona, parte nelle
altre tre fortezze del Quadrilatero (Cartina 1) Peschiera, Mantova,
Legnago, e parte oltre l'Isonzo. Radetzky si chiude in Verona dove
riunisce 41 battaglioni, 35 squadroni e circa 100 pezzi di artiglieria.
Pure i Ducati insorgono costringendo Francesco V di Modena e Carlo II di
Parma alla fuga. L'insurrezione sorprende il Piemonte che non è pronto
però ad entrare in campagna. Soltanto il 22 marzo a Torino il Consiglio
dei Ministri decide la radunata al confine sul Ticino di tutte le truppe
che si trovano a varie distanze: i reparti più lontani sono a 14 giorni
di marcia.
Francia, Inghilterra,
Prussia e Russia esprimono contrarietà ad un intervento piemontese.
"Però assai più forti delle voci delle maggiori potenze eran le grida di
guerra della nazione e il fervore bellicoso che non aveva tregua a
Torino, a Genova, a Novara, a Cuneo, ad Alessandria ed in ogni altra
città e borgata del regno." Di fronte alla pressione dell'opinione
pubblica e di Cavour, il Governo piemontese decide di dare il via
all'avanzata prima che siano completate sia la mobilitazione sia la
radunata. Così il 25 marzo prende avvio l'avanzata oltre il Ticino di
due colonne. Una, con 3.000 uomini (comandata dal Bes), da Novara
oltrepassa Milano, ma arriva a Brescia soltanto il 31; l'altra (guidata
dal Trotti) con 4.000 uomini da Voghera arriva a Pavia e procede fino a
Sant'Angelo Lodigiano sul Lambro. Il grosso dell'esercito piemontese
passa il Ticino il 29 marzo e soltanto il 31 si mette in marcia lungo
l'asse Lodi-Cremona: dal 25 si sono persi cinque giorni preziosi. Il
Comando piemontese entra in guerra contro l'Austria, che rappresenta al
momento la più forte potenza militare dell'epoca, senza disporre di un
piano di campagna, anzi, dopo aver varcato il confine il procedere
dell'azione sarà stabilito discutendo il da farsi giorno per giorno in
successivi consigli di guerra.
L'esercito ora comprende cinque divisioni su due corpi d'armata, uno al
comando del generale Bava, l'altro del de Sonnaz. Il 4 aprile a Cremona
si tiene un Consiglio di Guerra. De Sonnaz propone di marciare lungo la
destra del Po e, attraverso il Ferrarese e il Polesine, operare a tergo
degli Austriaci appoggiandosi a Venezia, mentre il Bava consiglia una
manovra meno ardita: puntare su Mantova, della quale si spera
l'insurrezione, e da lì manovrare contro il nemico tra Mincio e Adige.
Il Comando Supremo sardo esclude il piano più ardito e decide di muovere
contro Mantova, salvo poi cambiare idea quando viene a sapere che quella
fortezza è stata potentemente rafforzata.
L'esercito è spostato allora verso nord per attaccare gli Austriaci sul
medio Mincio (Goito), fuori dal raggio d'azione delle fortezze di
Peschiera e di Mantova. Dopo due settimane dall'inizio delle operazioni
i Piemontesi sono dunque arrivati al Mincio, 150 chilometri oltre il
confine, dove però rimangono fermi due settimane per esigenze di
riorganizzazione. Questa è la prima delle tre stasi che
caratterizzeranno le operazioni dell'esercito piemontese.
In questa prima fase l'esercito piemontese è formato da circa 29.000
uomini, 2.000 cavalieri e dispone di 48 bocche da fuoco.
Alla notizia delle
insurrezioni di Venezia e di Milano, alcuni Stati italiani, Granducato
di Toscana, Stato della Chiesa e Regno di Napoli, mandano verso il
Mincio il minimo di truppe che consenta loro di andare incontro alle
esigenze dell'entusiasmo popolare. Il granduca di Toscana Leopoldo II
dichiara guerra all'Austria e invia il generale De Laugier con 5.000
regolari e qualche migliaio di volontari guidati da Giuseppe Montanelli.
Da Roma papa Pio IX invia 10.000 volontari col generale Andrea Ferrari e
7.000 regolari col generale piemontese Giovanni Durando. Da Napoli il re
Ferdinando II fa partire la squadra navale dell'ammiraglio de Cosa e il
generale Guglielmo Pepe con 16.000 regolari che potranno essere
operativi sul Po dopo un mese e mezzo. La squadra navale sarà accolta
con giubilo al suo arrivo a Venezia il 16 maggio. L'invio di queste
truppe, che ammontano a circa 40.000 uomini, avviene sotto la pressione
dell'opinione pubblica e dell'intervento piemontese che si sta rivelando
vittorioso.
Presenti in armi a sostegno dei Piemontesi ci sono anche migliaia di
altri volontari provenienti dalla Lombardia, dal Veneto, dai Ducati di
Reggio e Modena e anche dalla Sicilia al comando di Giuseppe La Masa.
Partecipa anche una legione polacca. Ma queste forze senza istruzione,
senza disciplina e male armate, saranno pure male utilizzate perché
mancanti di un adeguato comando. Per questi uomini non graditi
all'esercito regolare sarebbe stato più adatto un comandante come
Garibaldi, avvezzo a guidare truppe irregolari o bande, piuttosto che un
generale proveniente da una scuola militare, abituato quindi a muovere
le milizie secondo rigidi ordini e schemi da caserma.
I Piemontesi avrebbero dovuto procedere contro Radetzky in tempo utile
prima che si rinchiudesse in Verona o comunque prima che potesse
rinforzarsi. In sostanza avrebbero potuto sorprendere il nemico mentre
si trovava in situazione d'inferiorità numerica, confuso per gli scacchi
subiti in varie posizioni. Per attuare questa strategia si sarebbe
dovuto agire con
la massima rapidità. Secondo Piero Pieri una mossa energica dei
Piemontesi avrebbe potuto sorprendere il Radetzky, in ritirata da
Milano, già al passaggio dell'Oglio, o in alternativa tagliargli la via
di comunicazione con l'Austria lungo la valle dell'Adige. Un'altra mossa
da tentare avrebbe potuto essere quella basata su una marcia rapidissima
per sorprendere subito Mantova, ancora sguarnita, e collegarsi con
l'insorta Venezia, come suggeriva il de Sonnaz. Ma per operazioni del
genere ci sarebbe voluto un Comando con l'istinto della manovra e della
velocità! I Piemontesi persero invece tempo e non ostacolarono l'arrivo
dei rinforzi attesi dal nemico chiuso in Verona, favorendolo. L'esercito
sabaudo non solo mancò di rapidità nello sviluppo dell'attacco, ma
continuò ad interromperlo con lunghi periodi di stasi.
PRELIMINARI ALLA
BATTAGLIA DI CUSTOZA
Durante il periodo di stasi dall'8 al 27 aprile (vedi Appendice, p.
197), per cercare di sedare l'impazienza dell'opinione pubblica
l'esercito piemontese esegue puntate dimostrative contro Peschiera e
Mantova. I Piemontesi non hanno i mezzi per investire una fortezza come
Verona. In mancanza di piani si riunisce il Consiglio di Guerra il 24
aprile e si decide di passare il Mincio tra il 26 e il 27 e di assediare
Peschiera. È già passato un mese dal varco del Ticino! Non si prende in
considerazione una manovra a largo raggio per intercettare i rinforzi
austriaci che stanno sopraggiungendo da oltre l'Isonzo. Il 29 aprile i
Piemontesi conquistano Pastrengo, dove gli Austriaci difendono la linea
di comunicazione col Trentino, e li obbligano a riportarsi oltre
l'Adige... (segue descrizione da pag. 167 a 179).
LA BATTAGLIA DI
CUSTOZA, 24 - 25 LUGLIO 1848
Secondo il piano stabilito i Piemontesi del Corpo Reale avrebbero dovuto
muovere all'attacco contro il supposto fianco sinistro austriaco già
alle cinque del mattino ciel 25, ma sono mancati i viveri e sono ancora
fermi quando tra le 8 e le 9 si preannuncia invece l'attacco austriaco
verso Sommacampagna. Così all'improvviso lo schieramento dei Piemontesi
tra Sommacampagna, Staffalo e Custoza da offensivo deve tramutarsi in
difensivo, ma poiché resta valida la necessità del collegamento con le
truppe del de Sonnaz, Carlo Alberto dispone che la Brigata Aosta,
partendo da Villafranca, cerchi di scacciare gli Austriaci da Valeggio
mentre con le forze restanti tenterà di opporsi all'offensiva austriaca.
Il re sta dunque ingaggiando una battaglia difensiva sulle alture, ma
offensiva contro Valeggio e divide così le sue forze, già molto
inferiori a quelle del nemico, rinunciando a concentrarle in un punto
determinato per ottenere almeno un successo tattico significativo.
Per la riuscita dell'operazione contro Valeggio sarebbe necessaria la
collaborazione di de Sonnaz che dovrebbe attaccare gli Austriaci da
Borghetto, per chiudere il nemico tra due fuochi. Soltanto alle 11 del
25, ad azione ormai inoltrata e quindi in ritardo, de Sonnaz riceve a
Volta l'ordine di partecipare alla battaglia intervenendo da Borghetto
contro Valeggio; ma comunica al Comando che, a causa dello sfinimento
delle truppe, la sua entrata in azione non potrà avvenire prima delle 6
pomeridiane! I Piemontesi della Brigata Aosta effettuano reiterati
assalti per conquistare Valeggio, ma senza il concorso di de Sonnaz non
riescono a superare l'ostinata resistenza offerta dagli Austriaci per
impedire la riunione delle due masse piemontesi separate dal Mincio.
Sulle alture gli Austriaci hanno intanto attaccato in forze
Sommacampagna, Staffalo e Custoza con ripetuti assalti e con
l'intervento continuo di nuove truppe (Cartina 4). I Piemontesi devono
abbandonare Sommacampagna. Alle 15 si ha una sosta nei combattimenti.
Alle 16 Carlo Alberto d'accordo col Bava fa sospendere i vani attacchi
della Brigata Aosta contro Valeggio ordinando il ripiegamento su
Villafranca delle truppe là impegnate. Il de Sonnaz non dovrà di
conseguenza effettuare la prevista azione su Borghetto e Valeggio, ormai
superata, e dovrà portarsi a Goito mantenendo però la posizione di
Volta. Ma Carlo Alberto, all'insaputa del di Salasco e di Bava, fa poi
aggiungere nell'ordine l'autorizzazione ad abbandonare Volta in caso 'di
stretta necessità'. Così lo scoraggiato de Sonnaz a mezzanotte del 25
riterrà 'necessario' abbandonare anche Volta e si sposterà a Goito con
quelle forze che non è riuscito a portare in aiuto dello scontro
risolutivo in atto dall'altra parte del Mincio.
Intanto gli Austriaci hanno ripreso gli attacchi contro Staffalo e
Custoza che sono rintuzzati con estrema decisione dalle truppe
piemontesi, ma attorno alle 18 entrambe queste posizioni devono essere
abbandonate di fronte alla forte preponderanza numerica austriaca. I
Piemontesi col re ripiegano su Villafranca. La così detta battaglia di
Custoza è finita: i Piemontesi lamentano 212 morti, 657 feriti e 270
prigionieri, gli Austriaci 175 morti, 723 feriti e 422 prigionieri
(Tabella 2). "L'esercito piemontese non era né accerchiato né
annientato", ma il Re si ritira con tutte le truppe da Villafranca oltre
il Mincio a Goito, dove il 27 si riunisce con de Sonnaz e le truppe
provenienti da Mantova e Roverbella: tutto l'esercito piemontese è
dunque lì concentrato.
Bava aveva previsto di arrivare a Volta con tutto l'esercito per
contrastare, da quella posizione chiave, gli Austriaci che volessero
varcare il Mincio a Valeggio o a Mantova. Viene quindi ordinato a de
Sonnaz di rioccupare Volta, da lui inspiegabilmente abbandonata, ma
l'azione è condotta con forze insufficienti dalla III Divisione, e la
Brigata Regina è inviata in soccorso troppo tardi. Ancora una volta
l'alto Comando piemontese dimostra la sua impreparazione ad agire con
tempestività. La mattina del 27 il re raccoglie notizie "...di
stanchezza e di scoraggiamento in cui si trovava l'esercito". Lo stesso
giorno 27 nel Consiglio di Guerra si decide di chiedere una tregua al
nemico. Dal 22 al 27: cinque giorni di combattimenti durante i quali
s'erano perdute anche occasioni di vittoria. "Ma la lunga lotta aveva
messo a nudo, come non mai in precedenza, tutte le deficienze di comando
e d'organizzazione dell'esercito e la conseguente inferiorità rispetto a
quello avversario".
COMMENTO SULLA
BATTAGLIA
• Carlo Alberto il manovratore. Il re non seppe cogliere il momento
dell'insurrezione di Milano per intervenire. Indugiò nell'attesa di
avere assicurazioni circa la forma di governo, repubblicana o
monarchica, che sarebbe stata scelta a Milano e a Venezia, e non
comprese che la vittoria sugli Austriaci avrebbe messo a tacere ogni
discussione e distinguo favorendo la causa dei Savoia. Entrò in
Lombardia quando gli Austriaci erano già oltre Brescia a Montichiari e
procedette con eccessiva lentezza. Avrebbe dovuto avanzare rapidamente
in Veneto ed annientare il Nugent prima di agire contro Verona, poiché
da quei rinforzi dipendevano tutte le sorti della campagna. Il Nugent
passò l'Isonzo il 16 aprile, ma il re entrò in azione soltanto il 27.
Comunque nel 1848 ci furono da parte dell'esercito piemontese vitalità e
manovra, caratteristiche che non si ripresenteranno più nel '59 e
neppure nel '66. L'entusiasmo dei soldati per le vittorie di Goito,
Pastrengo, Santa Lucia non troverà pari nelle due successive guerre
risorgimentali. E pensare che nel '48 l'esercito piemontese aveva forze
pressappoco pari a quello austriaco, mentre nel '59 ci sarà l'apporto
dei Francesi contro le altrimenti preponderanti forze austriache, e nel
'66 le forze dell'esercito italiano (non più piemontese) saranno il
doppio di quelle austriache.
Resta il fatto che la prima Guerra d'Indipendenza vide l'esercito
piemontese impegnato in una moderna guerra manovrata: Carlo Alberto
eseguì ardite operazioni cercando di ottenere risultati con la manovra
piuttosto che con il brutale assalto frontale, come accadrà invece nel
1859 nella battaglia di San Martino; anche nella guerra del 1866 non ci
sarà da parte italiana alcuna manovra, ma soltanto uno scontro casuale e
i risultati positivi per l'Italia si otterranno unicamente in seguito
alla vittoria dell'alleata Prussia.
Quindi Carlo Alberto fu senz'altro più sensibile del figlio, che
dimostrerà, soprattutto nella guerra del 1859, di essere veramente
avulso da problemi di strategia e tattica. Carlo Alberto nel '48 guidò
tre mosse, ma gli sfuggì poi l'intervento risolutivo, il colpo decisivo.
Ma analizziamo le mosse.
- I) mossa verso Verona. Inconcludente. In realtà la popolazione non si
era ribellata, ma questo dimostrò la scarsa preparazione dell'iniziativa
con insufficiente servizio d'informazioni, piaga perenne del nostro
esercito.
- II) mossa, conquistare Mantova. Mossa avviata tanto per fare qualcosa
anch'essa inconcludente. Un servizio informazioni efficiente avrebbe
segnalato che all'inizio della campagna c'erano buone probabilità di
conquistare Mantova.
- III) mossa, attaccare il nemico sul fianco esposto mentre marciava da
Verona verso il Mincio. Mossa pericolosa: buono il concetto, troppo
lenta l'esecuzione. Avrebbe potuto essere valida se avesse colpito con
36 ore d'anticipo, con la massima rapidità e con ordini chiari e
precisi, per impedire che Radetzky, intuita la manovra piemontese,
potesse contromanovrare sfruttando la sua preponderanza numerica. È, in
effetti, quello che accadde: a Radetzky fu lasciato il tempo di capire
la nuova situazione e di modificare il suo piano, l'esercito austriaco
quindi fece una conversione a sinistra e si volse contro i Piemontesi
con il doppio delle proprie forze.
Carlo Alberto non aveva la visione globale che contraddistingue il
grande generale. In quest'occasione egli cercò con un intervento
personale, senza Consiglio di Guerra che in quel momento gli sarebbe
stato impossibile riunire, di contrastare la mossa austriaca da Verona
verso il Mincio, ma disponeva di scarse informazioni e così prese solo
provvedimenti parziali, e anche in ritardo. È discutibile il fatto che
non abbia riunito tutte le sue truppe in un unico complesso o ad oriente
o ad occidente del Mincio, ma una volta stabilito di operare con due
formazioni a cavallo del fiume, gli ordini avrebbero dovuto essere
tempestivi e precisi per tutte le truppe schierate oltre il Mincio (II
Corpo d'Armata, de Sonnaz): raggrupparsi, attaccare gli Austriaci che
avevano varcato il fiume e trattenerli, oppure cercare di unirsi con il
grosso dell'esercito piemontese che si trovava sull'altra riva. Invece
de Sonnaz, rimasto dapprima senza ordini, ricevette in ritardo la
direttiva di congiungimento attraverso Valeggio, così che le truppe
oltre il Mincio rimasero non solo separate dal grosso, ma anche
impossibilitate a contribuire in qualche modo alle operazioni. Carlo
Pisacane, commentando le manovre di Carlo Alberto, ne mette in evidenza
il mancato tempismo: "L'epoca ancora più notevole per gli errori che
spinsero con accelerata velocità il re e l'esercito verso l'abisso,
comincia dopo la battaglia di Goito. Si lascia che Radetzky compisse la
sua marcia da Mantova all'Adige senza neanche molestarlo. Si marcia su
Rivoli allorché gli Austriaci attaccano Vicenza e su Verona quando le
forze nemiche vi sono di già rientrate; infine si commette l'errore di
bloccare Mantova."
Circa l'incertezza della condotta di Carlo Alberto, che si fa risalire a
difetti del suo carattere, occorre rilevare che la situazione politica
del momento lo preoccupava per l'atteggiamento della Francia verso la
Savoia. Inoltre ritenendo egli imminente il crollo dell'Austria, tendeva
ad escludere l'intervento di altre forze: "... egli combatte ma respinge
i volontari, rifiuta gli Svizzeri che potrebbero darci un soccorso di
dieci o ventimila soldati; egli combatte ma si tarda ad armare il
popolo..." Anche il destino della Lombardia preoccupava il re,
spingendolo a richiedere l'adesione alla monarchia; ciò fomentò un clima
di discordia e gli oppositori del Governo Provvisorio "... lamentavano
che con la convenzione stipulata col generale Passalacqua, il Governo di
Milano avesse messo ogni sussistenza dell'esercito sardo a carico dei
Lombardi." "Nonostante la convenzione, nell'esercito sardo
scarseggiarono viveri e tende. Ma l'insuccesso militare della prima
Guerra d'Indipendenza è dipeso anche da altri fattori quali:
l'insufficienza della struttura di comando e delle qualità dei
comandanti, la mancanza di una visione strategica complessiva, lo
strascinamento ovvero la mancanza di decisione, il mancato utilizzo di
tutte le risorse disponibili. Se ad esempio Carlo Alberto avesse riunito
a Villafranca la Brigata Regina e la II Divisione, richiamandole dalla
zona di Mantova, avrebbe avuto a disposizione quasi il doppio dei 24
battaglioni con i quali sostenne la battaglia di Custoza.
• Insufficienza del
comando e scarsa qualità dei comandanti. Nell'esercito piemontese mancò
uno Stato Maggiore degno di questa denominazione, che preparasse cioè i
piani di guerra, li traducesse operativamente ai vari corpi
dell'esercito e ne controllasse l'esecuzione. Esisteva un Capo di Stato
Maggiore di nome (di Salasco), ma non di fatto poiché costui non aveva
predisposto e non preparò alcun piano: si limitò al ruolo del passacarte
dall'alto della sua venerabile età e della sua suprema incompetenza.
Passerà alla storia per l'armistizio da lui firmato a Vigevano, che i
più assegneranno invece a Salasco paese del Piemonte occidentale,
confondendo questa località col nome del generale! Carlo Alberto cercò
di riempire questo vuoto con un Consiglio di Guerra, dove oltre al di
Salasco intervennero i due comandanti di Corpo d'Armata, de Sonnaz e
Bava, e il Ministro della Guerra Franzini. Si decideva giorno per giorno
a maggioranza il da farsi, senza che fosse impostata una strategia a
lungo o almeno a medio termine. Prendendo in prestito un'efficace
espressione della terminologia marinara, si procedeva 'a vista' come in
un mare di nebbia. Il Comando Supremo inoltre funzionò male perché mancò
una ben definita assegnazione delle responsabilità. In base allo Statuto
il re era il comandante supremo dell'esercito in guerra; nulla ostava
però che il comando fosse delegato a persona qualificata. Ma il re
faceva anche di sua testa e interveniva, appoggiandosi a Bava e a
Franzini, sempre presente in campo, e suscitando così la gelosia di de
Sonnaz che si sentiva isolato e lasciato da parte. In realtà Carlo
Alberto dimostrò d'essere pronto alla manovra, ma essa risentì
dell'incertezza e dell'indecisione alla base del suo carattere e della
mancanza d'esperienza sul terreno, tanto sua che dei componenti l'alto
Comando piemontese. L'attenersi scrupolosamente ai regolamenti porta
alla mancanza d'iniziativa; Bava lamentava come gli ufficiali superiori
non sapessero operare da sé, senza attendere sempre gli ordini, che in
certe circostanze non possono giungere in tempo "Ma era più colpa dei
sistemi cari ai supremi gerarchi che non degli uomini. "Comunque le
truppe piemontesi si batterono bene e ottennero anche cospicui successi
contro le più addestrate e meglio comandate truppe austriache. In
conclusione l'esercito piemontese era un buon esercito, ma era comandato
male. Dove l'alto Comando piemontese mancò completamente, fu
nell'accogliere e impiegare al meglio le abbondanti risorse di volontari
provenienti con entusiasmo da tutte le regioni d'Italia. Per il buon
risultato delle azioni di guerra è di capitale importanza l'entusiasmo e
quindi lo spirito di sacrificio con il quale esse vengono eseguite. Tra
i volontari questo entusiasmo non mancava, mentre erano carenti
l'armamento e l'addestramento. All'armamento avrebbe potuto senz'altro
provvedere l'esercito piemontese con i suoi arsenali. All'addestramento,
dato il tempo limitato della campagna, si sarebbe dovuto sopperire
almeno con degli abili comandanti, dotati di carisma e quindi capaci di
ottenere il meglio da uomini poco o punto preparati ad una guerra di
movimento. Al contrario truppe molto ben preparate a combattere in
formazione, come ad esempio i mercenari svizzeri e tedeschi del '400 e
'500, potevano sostenere una battaglia anche in assenza di comandanti di
spicco: questa carenza era infatti compensata dall'automatismo
dell'azione, assicurata dal continuo addestramento. Si vedano ad esempio
gli Svizzeri nelle battaglie dell'Ariotta (1513) e Marignano (1515). Nel
1848 l'esercito piemontese non disponeva di abili comandanti.
Nel Consiglio di Guerra del 5 maggio, ore 15.00 si decise la
'ricognizione su Verona' in base al piano di Franzini che doveva
diventare esecutivo il mattino dopo; si può immaginare la preparazione
delle truppe che dovevano eseguire l'operazione! De Sonnaz aveva
espresso qualche spunto geniale, ma all'atto pratico dimostrò molta
confusione nella condotta delle operazioni. Avrebbe avuto,
nell'imminenza della battaglia di Custoza, l'occasione di mettere in
evidenza la sua intraprendenza con un attacco concentrato contro gli
Austriaci che stavano varcando il Mincio, ma gli mancò la percezione del
terreno e vagò avanti e indietro in gran confusione, senza concludere
alcunché, anzi abbandonando posizioni chiave. Quella percezione del
terreno che mancò in genere a tutto lo staff piemontese e compromise la
condotta delle operazioni fu invece una delle doti principali del
generale Garibaldi. Bava fungeva da consigliere del re, ma non riuscì a
correggere le sue incertezze, le sue mezze misure. Fatale la sua assenza
da Marmirolo tra il 23 e il 24 luglio, quando avrebbe forse consigliato
al re di concentrare tutte le forze disponibili per la battaglia
decisiva della campagna.
Purtroppo per i Piemontesi, di fronte al loro Comando Supremo
improvvisato c'era Radetzky, un generale che nonostante l'età era ancora
molto brillante, con idee ben chiare, deciso a manovrare. Egli poteva
contare su di uno Stato Maggiore efficiente, di lunga tradizione e
collaudato anche durante le recenti campagne del periodo napoleonico.
Possiamo affermare che egli operò rispettando in pieno i dettami di
un'efficiente strategia. Era di solito molto rapido. A marzo, senza
attardarsi in combattimenti di retroguardia, si ritirò subito in Verona
dove si mantenne rinserrato tenendosi sulla difensiva fino a quando non
ebbe ricevuto rinforzi . E in questo dimostrò di non sottovalutare
l'avversario. Una volta ottenuti i rinforzi si mosse con la massima
rapidità e segretezza. Uscì da Verona di notte con tutto l'esercito per
arrivare a Mantova passando di fronte all'esercito piemontese che
avrebbe potuto assalirlo sul fianco. Mosse subito da Mantova e distrusse
i presidi avversari di Curtatone e Montanara. In seguito, constatato che
l'effetto sorpresa si era esaurito dopo lo scacco subito a Goito,
retrocedette a Mantova per poi spostarsi immediatamente con tutte le
forze a Vicenza; vi diede battaglia, sconfisse i volontari e, nell'arco
di due giorni, rientrò in Verona che aveva lasciato praticamente
sguarnita. Quindi sfruttò la rapidità e la concentrazione presentandosi
sempre in forze davanti all'avversario. Adottò l'aurea regola della
strategia: colpire a sorpresa con le truppe riunite l'avversario diviso.
Così, in occasione del decisivo scontro della campagna, uscì con tutte
le forze da Verona per attaccare a Custoza i Piemontesi che avevano
invece le forze divise. Ma seppe anche osare, sfruttando la propria
rapidità e la lentezza dimostrata dall'avversario, come quando da
Mantova si portò a Vicenza per riconquistarla battendo e disperdendo i
volontari che presidiavano il Veneto, assicurandosi la strada della
Valsugana. Carlo Alberto invece sottovalutò il nemico quando a luglio si
spostò su Mantova lasciando davanti a Radetzky una linea fortemente
indebolita!
• Insufficente
visione strategica. La condotta di operazioni militari, per avere
successo, deve essere impostata secondo alcuni principi fondamentali:
informazione accurata, obbiettivo ben definito, rapidità delle mosse,
uso della sorpresa, concentrazione degli sforzi ed esatta valutazione
dell'avversario. Rapidità e sorpresa sono collegati. L'informazione è di
capitale importanza per conoscere cosa fa il nemico e per definire
l'obbiettivo. L'esercito piemontese non fu pronto a cogliere il momento
favorevole che si stava prospettando, dovuto sia alla situazione locale
nel Lombardo-Veneto sia a quella internazionale con la rivoluzione di
Vienna e in Ungheria, e si mosse alla cieca, senza informazioni circa la
consistenza delle forze nemiche che aveva di fronte e la topografia del
terreno da attraversare. Dopo aver varcato il Ticino i Piemontesi
procedettero lentamente, non cercarono di sorprendere Radetzky
tagliandogli la via di ritirata lungo la valle dell'Adige o penetrando
nella fortezza di Mantova prima che fosse rinforzata da truppe
austriache.
L'esercito austriaco in seguito alle insurrezioni si stava ritirando,
era abbattuto e stava perdendo consistenza per le defezioni. La
popolazione dei territori dell'avanzata gli era ostile, era favorevole
ai Piemontesi. Ma l'esercito piemontese oltre a mancare di informazioni
non aveva un obbiettivo preciso e, di conseguenza, gli mancò la rapidità
delle mosse.
La visione strategica del Comando piemontese fu ristretta, così come lo
sarà nel '59 e soprattutto nel '66, e fu polarizzata dal Quadrilatero
che restava il suo pensiero fisso. Tanto che ancora nel '66 l'alleata
Prussia raccomanderà a La Marmora, Capo di Stato Maggiore, di non
farvisi irretire! Eppure nel '48 il Veneto avrebbe offerto una buona
possibilità di manovra: a marzo, aprile e fino a metà maggio c'era il
vuoto di Austriaci, le popolazioni erano favorevoli e dai 12.000 ai
15.000 uomini erano pronti localmente ad intervenire in aiuto. Occorreva
un buon generale che li guidasse. Ma non esisteva un programma e quindi
neanche un obbiettivo, né purtroppo un bravo generale per raggiungerlo.
Come vedremo, nel '66 questa visione ristretta si ripresenterà, con
obbiettivo minimo e anche mal definito. D'altra parte come inventare da
un giorno all'altro una mentalità nuova? Impossibile.
Il Piemonte non s'era preparato alla guerra e continuò a non essere
preparata anche l'Italia che gli successe.
• Lo strascinamento, ovvero la mancanza di decisione. L'esercito
piemontese strascinò le operazioni attraverso tre lunghe stasi, tutte a
vantaggio del nemico perché gli consentirono di rafforzarsi e di
condurre azioni di annientamento periferiche. Queste tre stasi (vedi p.
197 Appendice) durarono rispettivamente 20, 37 e 39 giorni.
Dopo l'attacco a Verona del 6 maggio 1848 l'esercito piemontese pareva
caduto in letargo. La mancanza di un'attività di esplorazione gli
precluse la possibilità di un grande successo, quando si lasciò sfuggire
Radetzky che, uscito da Verona, marciava su Mantova offrendo il fianco.
Scrive il Raulich "... né il re,... aveva l'esperienza e le attitudini
del condottiero, ché anzi gli effetti delle incertezze proprie del suo
spirito dovevano sentirsi, del pari che nelle politiche, nelle faccende
militari, e ciò con pregiudizio molto maggiore che per quelle, quando si
pensi che sono specialmente le decisioni rapide e il comando sicuro che
accrescono fiducia alle milizie e più valgono ad avvicinar la
vittoria.:" L'indecisione dei Piemontesi nelle due settimane che
seguirono Goito ebbe non lievi effetti, dal punto di vista politico e da
quello militare. Nel campo politico cominciano ad apparire, sulle
gazzette lombarde, insinuazioni offensive circa il poco coraggio e la
scarsa buona fede dei Piemontesi. Come riferisce il Bava nella sua
relazione, i gazzettieri andavano ripetutamente chiedendo come mai si
restasse inerti con tante truppe.'"
In campo militare ne risentì il morale dell'esercito, che perse molto
della confidenza e dell'entusiasmo durati fin dopo Goito. Così si
esprimeva il duca di Genova che comandava la IV Divisione: "Durante
tutta la campagna vidi la mia divisione sopportare le maggiori fatiche e
privazioni senza lamento: vidi uomini cadere esausti per la fame, e per
la fatica, mentre si spingevano alla baionetta contro il nemico...; vidi
i miei poveri uomini nelle vie di Sommacampagna senza soccorsi, senza
che ci fosse un bicchiere d'acqua per dissetare i feriti; e debbo dire
che... non sentii mai alcuno muover lamento od imprecare al destino, che
li conduceva a quella guerra. Morivano gridando viva il Re, e
raccomandando le loro povere famiglie." E così un anonimo ufficiale
piemontese: "I reggimenti che, dopo conosciuta la mossa degli Austriaci,
il re aveva spiccati dal blocco di Mantova avviandoli su Villafranca,
patirono nella loro marcia gli affanni di un calor d'inferno non
concepibile da un uomo che non l'abbia provato... Non credo che i raggi
cocenti del sole in Ispagna od in Africa possano riuscire più tormentosi
e mortali di quel che il fossero allora nelle campagne fra Mantova e
Verona; il termometro di Réaumur segnava da parecchi giorni 28° (35°
centigradi); dal cielo spietatamente sereno non muoveva una brezza, un
filo d'aria; nella marcia da Marmirolo a Villafranca caddero i soldati a
centinaia, quali boccone per non più rialzarsi, quali trascinandosi
carponi in riva ai fossi che fiancheggiano la strada dove esinaniti (sic)
cascavano sotto il peso delle armi e l'angoscia del caldo, della fame e
soprattutto di una sete atrocissima, cercando invano una goccia d'acqua,
la frescura dell'erba, un freddo sassolino per mitigare l'arsura delle
fauci. Le file dei soldati passavano pietosamente guardando le sponde
della via ov'erano sparsi i compagni svenuti, boccheggianti o già fatti
cadaveri; i più affranti od i morienti volgevano muti a noi gli occhi
torbidi e spenti, guardando ancora una volta i compagni, quell'ultima
memoria ed immagine di una Patria che non avrebbero veduta mai più. Noi
ci affrettavamo per non piangere, ma ben giurando che la vendetta
l'avremmo sfogata sugli Austriaci." "L'istinto del soldato non tardò a
discernere che dopo delle marce e contromarce opprimenti e senza scopo,
si era molto imbarazzati a intraprendere qualcosa di meglio; che la
guerra contro i suoi desideri si trascinava in lunghezza e che il nemico
aveva tutto l'agio di ricevere rinforzi per sconfiggerci in seguito. La
confidenza nelle proprie forze e nel merito di coloro che li comandavano
andava diminuendo ogni giorno; l'entusiasmo si spense:"
E' un tragico destino quello che ha posto sempre i soldati italiani di
fronte a inutili, gravi strapazzi e a inutili, sanguinose operazioni per
eseguire ordini scriteriati imposti da comandanti impreparati e
inadeguati, senza avere mai la soddisfazione e la gioia di essere
condotti alla vittoria. Questo accadde nel 1848, ma accadrà nel 1849,
nel 1866, nel 1896, nel 1915-1918, nel 1940-1943.
A conclusione del suo commento sulla campagna del 1848 Pieri scrive: "I
soldati hanno fatto fino all'ultimo il loro dovere, sopperendo con
mirabile abnegazione alle troppe deficienze d'organizzazione e di
direzione; ma era vano pretendere che a tutto essi, ed essi soltanto,
potessero rimediare."
• Mancato utilizzo di
tutte le risorse disponibili. Nel 1848 ci fu un vizio di fondo nello
Stato Maggiore piemontese: il disprezzo per chiunque non provenisse
dalle file dei professionisti piemontesi, disprezzo che contrastò
l'offerta di combattere contro gli Austriaci da parte dei volontari,
sminuendola fortemente, in molti casi fino a renderla vana.
Rappresentativo di quest'atteggiamento, che coinvolse tutto lo Stato
Maggiore piemontese, è il caso di Giuseppe Garibaldi. Costui nel 1848 si
trovava già da 14 anni nell'America meridionale, dove aveva combattuto a
lungo sia in terra sia sull'acqua a favore dell'indipendenza
dell'Uruguay acquisendo direttamente sul terreno e non in caserma una
profonda esperienza tattica e strategica. All'inizio del 1848 fu molto
colpito dalle prime notizie degli eventi risorgimentali italiani, e il
15 aprile lasciò Montevideo per raggiungere l'Italia e porre la sua
spada a servizio dei locali moti insurrezionali. A Milano, che aveva
vissuto le Cinque Giornate, si era già instaurato un governo
provvisorio; a Venezia il 22 marzo era stata proclamata la Repubblica.
Garibaldi arrivò a Nizza il 22 giugno.
"Io fui repubblicano, ma quando seppi che Carlo Alberto si era fatto
campione d'Italia, io ho giurato di ubbidirlo e di seguire fedelmente la
sua bandiera. In lui vedo riposta la speranza della nostra
redenzione;...'' Quindi Garibaldi fu uno dei pochi Italiani che non si
lasciarono trascinare da passioni e distinguo tra monarchia e
repubblica, e adeguò subito la sua azione alla realtà e quindi
all'impresa al momento più importante: battere gli Austriaci.
Il 5 luglio, durante il periodo della terza stasi dell'esercito
piemontese, Garibaldi incontrò Carlo Alberto nel quartier generale di
Roverbella e mise a sua disposizione la propria spada e quelle dei suoi
Legionari, chiedendo "... di poter comandare, accanto alle truppe regie
regolari, un corpo di volontari" col grado di generale. Il re lo accolse
con gelida cortesia e lo rimandò a Torino al ministro della guerra al
quale comunicò che sarebbe stato disonorevole per l'esercito dare il
grado di generale ad un simile elemento! Garibaldi prima di lasciare
Roverbella prese fiduciosamente contatto anche con il di Salasco. Ma l'8
luglio, mentre Garibaldi era in viaggio per Torino, il di Salasco
scrisse al Ministro della Guerra specificando che "... se il Governo si
fosse disposto ad autorizzare formazione di Corpi di simile natura, era
d'uopo ottenere una concessione o carta, in cui risultasse lo scopo
della compagnia, della sua composizione, e dei limiti estremi della sua
forza;..." Quindi burocrazia imperante fu chiamata in ausilio per
respingere il povero Garibaldi, mentre il tempo stringeva perché intanto
nel Veneto gli Austriaci, di fronte ai Piemontesi, si stavano
rinforzando.
A Torino Garibaldi non fu ricevuto dal Ministro della Guerra, ma dal
Ministro degli Interni Ricci, che gli consigliò di partire per Venezia:
"Colà prenderete il comando d'alcune piccole barche, e come corsaro,
potreste essere utilissimo ai veneziani..." Avrebbe potuto essere un
buon consiglio, se dato con la convinzione di fare cosa giusta e
importante; dato invece con l'apparenza di un ripiego meschino, irritò
Garibaldi.
Ecco dunque Garibaldi brillantemente scaricato dal Regio Governo, con
una tecnica sempre valida anche ai nostri giorni: è facile capire come
gente che adottava simili strattagemmi, senza comprendere il valore
degli uomini a disposizione, non poteva che perdere la guerra. Garibaldi
si spostò a Milano, dove il 14 luglio il Governo Provvisorio lo nominò
generale di brigata. Ma anche qui trovò un generale piemontese a
mettergli i bastoni tra le ruote! Era l'anziano, pensionato generale
Carlo Sobrero, che inviato da Torino su richiesta del Governo
Provvisorio, vi ricopriva l'incarico di Ministro della Guerra. Garibaldi
annota: "In Milano... le cose non sarebbero andate male, senza
l'ingerenza malefica di un ministro regio Sobrero, le di cui mene ed
indefinibili procedimenti mi raccapricciano tuttora.. " La notte dal 27
al 28 luglio il Comitato di pubblica difesa del Governo Provvisorio si
riunì in consiglio cui parteciparono generali e uomini politici. Nella
seduta tumultuosa anche Garibaldi prese la parola e si scagliò contro
Sobrero e i generali piemontesi: "... i volontari accorrevano, voi in
cambio di usufruttuare di queste forze preziose le invidiaste,
avversaste, disperdeste, dicevate bastare il Re e la sua armata... Sono
stato al Campo, e ho veduto i famosi generali di Carlo Alberto: boria di
gallonati, inettezza di condottieri! Guidati bene, i soldati piemontesi
avrebbero fatto miracoli di valore... "Agli occhi di Garibaldi, esperto
per le azioni belliche condotte sul terreno nel corso di parecchi anni,
non poteva sfuggire al primo sguardo la 'pacifica' attitudine sedentaria
di quei generali, convalidata in lunghi anni di caserma. 'Garibaldi
ricevette il 30 luglio l'ordine di partire per Bergamo alla testa dei
1.500 uomini della Legione Italiana: 70 legionari di Montevideo, 300
soldati del Battaglione Anzani, 600 Vicentini, 140 Liguri, 400 Pavesi.
Ma ormai era tardi: già il 3 agosto Garibaldi ricette l'ordine di
retrocedere da Bergamo a Milano, e il 9 agosto fu firmato l'armistizio.
Anche se il trattamento subito da Garibaldi è emblematico, esso restò in
ogni caso limitato ad un periodo ormai tardo per la risoluzione positiva
del conflitto. A Milano, a Venezia e in tutto il Lombardo-Veneto le
sollevazioni popolari avevano cacciato gli Austriaci e avevano poi messo
a disposizione contingenti di volontari che, se pur contrastati nel loro
sviluppo dal comando piemontese, assommavano sempre a qualche decina di
migliaia d'uomini. Ebbene, queste forze non ebbero mai la necessaria
attenzione dell'alto comando piemontese, anzi furono disprezzate,
considerate composte da gente sospetta e d'impaccio alla causa, spesso
costrette all'inattività. Soprattutto il loro intervento fu spezzettato
in diverse e limitate azioni difensive, mentre sarebbe stato opportuno
il loro concorso, riunite con un obbiettivo ben definito. A formazioni
composte in gran parte da volontari entusiasti presenti nel Veneto fu
demandata l'azione, di importanza decisiva, di fermare Nugent e batterlo
per impedirgli di portare soccorso a Radetzky, chiuso in Verona: ma lì
mancò un abile comandante che riunisse quelle forze, che le dirigesse
con unità d'intenti e perizia tattica verso l'obbiettivo principale,
cioè fermare i rinforzi austriaci. Nugent invece riesci a portare i
soccorsi a Verona, battendo successivamente vari corpi di volontari che
gli si paravano davanti con una tecnica risalente al tempo degli Orazi e
Curiazi! Conseguenze dell'infelice esito del '48: gli entusiasmi si
spensero, così che prima nel 1859 e poi nel 1866 le popolazioni del
Veneto saluteranno i Piemontesi e l'esercito italiano con un'accoglienza
tiepida.
• Anche Milano
impreparata. A Milano "La municipalità presieduta dal conte Casati era
stata estranea allo scoppio della rivoluzione anche se contribuì alla
sua preparazione morale perché del prossimo sfacelo dell'Austria si
parlava da tempo, come di una legge di natura, tanto che Cattaneo
fondava su quello sfacelo le sue speranze federaliste. Ma per uno strano
fenomeno di imprevidenza la Municipalità non si era mai posta il
quesito: se scoppierà la rivoluzione chi governerà Milano?... Nessuno
trovò la necessità... di completare la preparazione morale in un vero e
proprio ordine di operazione rivoluzionaria, con quadri di dirigenti e
di partigiani, con programmi preordinati."
Quindi anche a Milano come a Torino si aspettò, si sperò e non ci si
preparò, rimandando di giorno in giorno fino a quando fu troppo tardi.
Potremmo affermare che questa tendenza è in linea con tutta la storia
italiana di nazione unita, anche la più recente che ha visto utilizzata
continuamente l'arte di rimandare e quasi mai adottata la preparazione
con pianificazione in tempo utile!
Malcomandati
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Edizioni della Laguna