I pittori d'Oltralpe e il "genere" paesaggio

Sabina Sorrentino

 

 

 

 

Nel corso del XIX secolo le collezioni d'arte e le esposizioni di pittura accolsero una quantità sempre maggiore di dipinti raffiguranti paesaggi, tra cui numerosissimi, spesso di piccolo formato, erano i quadri di autori nordici. Non si trattava dei nomi della grande tradizione olandese e fiamminga che avevano dato avvio al paesaggio come genere autonomo ed indipendente, quanto piuttosto di una nutrita schiera di epigoni moltiplicatisi sotto la spinta delle nuove esigenze del mercato internazionale. È un principio assolutamente accademico quello per cui ogni nazione deve dare all'arte il suo contributo nei campi in cui è maggiormente dotata, ma già rinascimentale era l'idea che gli artisti del nord fossero maestri insuperabili nella pittura descrittiva. Come ha scritto Ernst Gombrich in un illuminante saggio sull'origine della pittura di paesaggio «la posizione degli artisti settentrionali nel mondo artistico italiano rimase così fissata per secoli grazie alla generale accettazione di tale giudizio; dai fiamminghi che Tiziano teneva nella sua bottega a dipingere sfondi naturalistici, fino a giungere a pittori come il Bril, l'Elsheimer, Claude e Philipp Hackert, l'artista settentrionale in Italia poteva guadagnarsi la vita solo accettando quella parte di specialista alla quale lo avevano destinato la tradizione settentrionale e la teoria meridionale»1. Nel XIX secolo proprio con opere paesaggistiche la pittura realistica nordica si impose quindi in modo considerevole all'attenzione dei collezionisti. Come già alla fine del XVI secolo, quando il genere fiorì per la prima volta, seppur in situazioni e per motivi molto diversi, fu la concorrenza di un mercato aperto, in una società da poco arricchitasi, a dettare il successo di singoli temi pittorici da ammirare «non per il subietto ma per altre qualità»2.
Dopo i cultori d'arte e i grandi mecenati sei-settecenteschi, nel secolo XIX proprio la borghesia allora emergente, spinta dal desiderio di elevare il proprio tono in ambito culturale foss'anche solo come manifestazione esteriore, divenne l'erede dei collezionisti antichi. In breve l'affinamento del gusto portò al formarsi di raccolte specialistiche conformate agli specifici interessi e all'attività di ogni collezionista. Nel particolare ambiente triestino, dove non esistevano né radicate tradizioni artistiche né istituzioni quali le accademie, furono proprio la presenza di un pubblico interessato e la conseguente necessità di mercato a promuovere occasioni per vedere ed acquistare opere della contemporanea produzione nei più svariati generi. Come ha illustrato un esauriente studio di Donata Levi sulle strutture espositive a Trieste nell'Ottocento
3, dopo una prima serie di manifestazioni concepite nell'intento di render noti i giovani artisti locali, le esposizioni triestine divennero poi delle frequentatissime mostre-mercato. Sull'esempio delle Societés des Amis des Arts francesi e dei Kunstvereine di marca germanica, in connessione con la vicina Accademia di Venezia, nacque nel 1840 a Trieste la Società di Belle Arti. Secondo gli statuti, il principale scopo di quest'associazione era proprio una mostra-mercato annuale, in cui la società si riservava il diritto di prelazione per l'acquisto di opere che venivano in seguito messe in palio tra i soci nell'annuale lotteria. Dalle regolari pubblicazioni dei ragguagli sui resultamenti della società si viene a conoscenza del carattere internazionale dell'associazione e delle esposizioni: proprio quest'apertura e l'interesse dei triestini alle proposte d'oltralpe vuole quindi esser qui evidenziata e richiamata a memoria. Se costante fu la partecipazione degli artisti attivi in altre città della penisola italiana e saltuaria quella dei francesi, predominanti furono sempre le adesioni dei pittori di area tedesca, compresi gli artisti nordici attivi a Roma. Così a proposito della Prima Esposizione Ippolito Caffi scrisse ad un amico da Trieste nel settembre del 1840: «... la pubblica mostra sarà una delle più classiche, poiché vi saranno Opere di tutte le Scuole Italiane ed oltramontane; ciò che non è sì facile incontrarsi nelle nostre Accademie, meno che a Roma ove sarà sempre il centro delle Arti Belle»4; e ancora in novembre: «A Trieste, come vi dissi, ho avuto campo di ammirare e paragonare una quantità di Opere provenienti da molte accademie d'Italia e da tutte le principali Città della Germania, Parigi, Baviera; che a dirvi il vero non è sì facile combinare presto tante scuole insieme. Cinquecento e quaranta erano i quadri che componevano quella Esposizione la maggior parte Paesi piccoli e quadretti di genere»5. Di particolare rilevanza appariva quindi già a un contemporaneo l'internazionalità dell'ambiente artistico convenuto a Trieste per cui la città aveva saputo imporsi, come era nella sua natura, quale privilegiato luogo d'incontro e di confronto di realtà diverse. Parallelamente alle teorizzazioni e alle sperimentazioni più avanzate verso un nuovo modo di rappresentare il paesaggio, si riscontra tuttavia anche un livellamento qualitativo, un impoverimento di significato dei dipinti, ovviamente collegato all'allargamento del mercato e allo smisurato incremento della produzione.
La Società Triestina di Belle Arti nella sua politica degli acquisti mostrò sempre di operare secondo una logica equilibrata tendente a premiare a turno tutte le scuole; come ha segnalato ancora Donata Levi «più marcate si manifestarono le predilezioni in ambito privato, volte in maniera quasi esclusiva ai paesaggi e soprattutto a quelli delle scuole tedesche: ai viennesi in generale, agli artisti di Düsseldorf, di Monaco, di Berlino ed a un pittore praghese il Piepenhagen, che riuscì a piazzare ogni anno gran parte delle vedute esposte»
6. Lo stesso Barone Revoltella, socio della Società Triestina di Belle Arti, possedeva dipinti di paesaggio di scuola nordica, in alcuni casi di artisti che ripetutamente esposero a Trieste, come il Paesaggio invernale di Richard Zimmermann e nell'ambito delle marine l'immagine di sapore "medieval-olandese" di Ludwig Hermann e ancora la limpida veduta con figure di Jan Michael Ruyten. Accanto a quella del Revoltella anche le altre collezioni triestine comprendevano paesaggi di scuola oltremontana, numerosi dei quali sono pervenuti per donazione a questo Museo. Tra essi si sono scelti alcuni esemplari tra i più significativi e tuttavia tra i più sconosciuti al pubblico perché di rado esposti e trascurati dagli studiosi. Si tratta di una selezione di un vasto repertorio esposto in parte alcuni anni fa alla mostra L'Ottocento ritrovato, che dovrà esser ripreso in considerazione e conosciuto più propriamente in relazione alla sua dimensione culturale originaria. Le opere che qui si presentano provengono per lo più dalle collezioni Oblasser. Questa famiglia, giunta a Trieste dalla Pusteria all'inizio del XIX secolo e divenuta triestina per elezione e maritaggi, si dedicò al collezionismo dal 1840 al 1870, donando nel 1916 al Comune di Trieste i propri possedimenti, ora divisi tra i musei cittadini. Tra molte altre cose gli Oblasser possedevano una quadreria in cui non si scorgeva alcun ordinamento né di scuole né di soggetti né di tecniche e che, pervenuta al Museo Revoltella, ottenne in un primo tempo un'esposizione completa: si tratta per la maggior parte di pitture della metà del secolo XIX, «arte di tradizioni eroiche ma di concezione borghese che tratta aneddoticamente la storia e romanticamente il paesaggio»7. Interessanti appaiono i dipinti di paese che mettono «in particolare rilievo i valori pittorici della luce e del colore sì da precorrere i pleinairisti e gli impressionisti dell'arte più recente»8. Si vedano a questo proposito in particolare le opere presenti in mostra di Martinus Kuytenbrouwer e di Karl Girardet, entrambi pittori che ebbero prolungati rapporti con la scuola francese e che parteciparono quindi al passaggio ad una nuova visione della natura, più vera e più intimamente sentita. Prelude ai futuri contatti con la scuola di Barbizon e mostra tuttavia ancora i legami con la tradizione olandese il malinconico paesaggio su tavola di Willelm Roelofs. Appartengono invece ai soggetti alpini le opere di Bernhard Girscher e di August Piepenhagen: a differenza delle riprese degli artisti viaggiatori che per primi vollero esprimere l'imponenza e il sublime aspetto dei monti, e lontani anche dalle forti suggestioni di immagini come quella qui esposta di Wilhelm Beuerlin, questi dipinti indicano piuttosto un più moderato sentimento d'incanto di fronte all'azzurra e cristallina visione di un lago alpino; modulate su toni di pacata quotidianità appaiono anche le due tavolette di soggetto strettamente nordico con paesaggi invernali degli olandesi Remigius Van Haanen, artista molto noto alle esposizioni ottocentesche, e Johannes Franciscus Hoppenbrouwers, uno dei molti fautori della necessità di non abbandonare la pittura tradizionale.
Seppur ristretta, questa scelta di dipinti ha inteso quindi dare testimonianza e riavviare lo studio di una pittura che costituì uno degli aspetti predominanti dell'arte ottocentesca prima delle grandi svolte di fine secolo. In una panoramica sulla pittura di paesaggio era doveroso dare testimonianza anche dell'«infinità di quadri di Paese, nei quali la parte meccanica è immensamente portata all'apice dalli Artisti di Baviera e Austriaci»
9. Proprio a Trieste del resto questi dipinti ebbero straordinario successo e, come scrisse dall'Ongaro nel 1839, si vennero a creare perciò delle connessioni del tutto particolari : «I due estremi del secco purismo e del manierismo convenzionale si toccheranno forse a Trieste, e si confonderanno insieme con vicendevole utilità. Senza questo i nostri tedeschi potrebbero ricondurci ad Alberto Duro, ed i nostri accademici a Luca Giordano e al Piazzetta. Fortunata la società filotecnica se posta in un terreno neutrale potrà veder segnata quest'utile transazione... »10.

 

 

 

Sabina Sorrentino

 


 

1E.H. GOMBRICH, La teoria dell'arte nel Rinascimento e l'origine del paesaggio, in Norma e forma. Studi sull'arte del Rinascimento, Torino, Einaudi 1973 (I ed. 1950), p. 168
2 ID., p. 161
3 D. LEVI, Strutture espositive a Trieste dal 1829 al 1847, "Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia", serie III, vol. XV, 1, 1985

4 Lettera di I. Caffi datata 5 settembre 1840, in B. ZILIOTTO, Ippolito Caffi a Trieste in un epistolario inedito, "La porta orientale", settembre ottobre 1950, p. 261
5Lettera di I. Caffi datata 5 novembre 1840, in B. ZILIOTTO, op. cit., p. 261
6D. LEVI, op. cit., p. 290
7P. STICOTTI, Dipinti dell 'Ottocento a Trieste, "Umana" Rivista di letteratura ed arte, anno I, fasc . VIII, 1 settembre 1918, p. 127
8 Ibid.

9 Lettera di I. Caffi datata 5 settembre 1840, in B. ZILIOTTO, op. cit., p. 260
10 F. DALL'ONGARO, Società Filotecnica Triestina, "La Favilla", n. 18, 1 dicembre 1839
  

 

 

 

Punti di Vista                                                          © Edizioni della Laguna