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Luca Bellocchi

 

 

 

Tra Milano, Trieste e Lussino nei dintorni del '900. I rapporti di Arturo Rietti con Leonardo Bistolfi

 

 

 

 

 

 

 

 Abstract

 

Giovanni Mayer and Gianni Marin, as well as Arturo Rietti, while remaining tied to Trieste, they have been permeated by the Milanese artistic environment during their education years at the Brera Academy in Milan. Once they returned in Trieste, they were commissioned many funeral statuary projects. Among which stands out some excellent works in cemetery of Sant’Anna realized for some families of Trieste, and others, which are substantially duplicates almost identical to the previous ones, for the cemeteries of Lošinj. Mayer, Marin and Rietti, they were often assisted by very good assistants, who were responsible for the execution of the quadrature, and who, in the case of Luigi Conti, uncle of Gianni Marin, were also fine sculptors. In this study two comparisons are carried out to outline stylistic differences and relations: the commissioning of the family vault of Cobau family and that one of Ivancich family in Mali Lošinj, realized by Gianni Marin and, in the second case studied, the vault of Gerolimich family and the one of Martinolich family, both executed by Giovanni Mayer.

On background trying to shed light on the Rietti's notes about Leonardo Bistolfi, at a time when the painter from Trieste portrayed the Piedmontese sculptur. 

 

 

 

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     Nel 1900 il pittore Arturo Rietti espose alla Triennale di Milano[1] mentre Giovanni Mayer rientrò a Trieste dal capoluogo lombardo per portare a compimento  il monumento funebre della famiglia Paleologo[2] nel cimitero greco e l'altro scultore protagonista di questo scorcio di Novecento, Gianni Marin, riuscì a trovare il tempo per una tappa al Salon parigino[3]: tutti e tre gli artisti conobbero e frequentarono l'ambiente milanese – i due scultori anzi vi studiarono la loro arte a lungo - pur senza dimenticare le opportunità offerte dal mercato triestino, prova ne siano i due eleganti pastelli realizzati da Rietti per la famiglia Sartorio[4] proprio in quel primo anno di secolo nuovo.

In tale periodo, ma anche in quelli successivi, l'attività di scultori funebri ricoprì un ruolo importante tanto a livello di svilupppi stilistici quanto per i successi finanziari nelle carriere di Gianni Marin[5] e di Giovanni Mayer[6]. Entrambi attivi a Trieste e nei cimiteri d'Istria, di Fiume e di Lussino, in alcuni casi si accompagnarono a validi collaboratori che si occupavano delle quadrature – le architetture del sepolcro – che sostenevano o facevano da sfondo alle statue.

Risultano pertanto esemplificative due coppie di casi messe a confronto: quella della tomba Cobau[7], portata a compimento da Gianni Marin e Luigi Conti[8] presso il cimitero triestino di Sant'Anna, vista in relazione con la pedissequa replica realizzata dallo stesso sodalizio nel cimitero di San Martino a Lussinpiccolo pochi anni più tardi, e quella della tomba Martinolich[9], realizzata dal triestino Giovanni Mayer e che si lega ad altre figure femminili semidistese compiute dallo scultore nel cimitero triestino tra le quali spicca la figura che sovrasta la tomba della famiglia Gerolimich[10].

 

 

 

 

Tomba Cobau. Trieste, Cimitero di Sant'Anna

 

 

 

Il sepolcro per la famiglia Cobau, nel camposanto monumentale triestino di Sant'Anna, culmina in una figura femminile orante coperta da una lunga veste che scende sino ai piedi ma lascia scoperte le braccia: posta su uno stilizzato sepolcro ideato da Luigi Conti e vergato dal monogramma di Cristo, la figura, a mani giunte in segno di preghiera, venne realizzata e firmata dal triestino Gianni Marin nel 1900 e segue, nell'andamento flessuoso ed elegante del corpo, la formazione simbolista dell'artista, avvenuta fra Trieste e Milano.

 

 

 

 

 

Tomba Ivancic. Lussinpiccolo, Cimitero di San Martino

 

 

 

 

Tomba Ivancic, fotografia d'epoca. Collezione privata

 

 

 

A pochi anni di distanza, verosimilmente attorno al 1903, la stessa coppia di artisti eseguì su commissione della famiglia di Gasparo Filippo Ivancich[11] un sepolcro ben più monumentale del precedente ornato agli angoli da alcuni bronzei papaveri, fiore simbolo del sonno eterno, culminante nella stessa identica figura della tomba Cobau; a tale lavoro è riconducibile una foto d'epoca, ora presso un collezionista privato, realizzata nel 1904 da parte di un fotografo locale che ne testimonia l'avvenuta esecuzione e che reca la dicitura “Cimitero di San Martino”. Il sepolcro Ivancich, posto in posizione prediletta nel piccolo recinto funebre di San Martino a Lussinpiccolo, presenta tuttavia un cattivo stato di conservazione dettato dalla stretta vicinanza con il mare e dal grado di salinità dell'aria che ne accelera il deperimento delle parti, sopratutto degli elementi decorativi bronzei posti sul sarcofago, anche se è stato recentemente sottoposto ad un accurato interventi di restauro e pulizia.

 

Le famiglie Martinolich e Gerolimich, originarie di Lussino e attive nel campo della cantieristica navale e delle agenzie marittime, commissionarono invece al triestino Giovanni Mayer i propri sepolcri negli anni Venti del Novecento, l'una mentre era ancora attiva e presente con dinamiche attività sull'isola, l'altra ormai da tempo trasferitasi con rami d'impresa nella città di Trieste.

 

 

 

 

 

Tomba Martinolich. Lussinpiccolo, Cimitero di San Martino

 

 

 

Nel primo, compiuto nel 1926 e intitolato a Marco Umile Martinolich[12], l'artista triestino si orientò verso scelte che tradiscono la sua formazione simbolista, realizzando una figura femminile bronzea appena coperta da un drappo che si abbandona languidamente sul sepolcro coronato da una croce stilizzata. L'opera, laica debitrice di modelli sacri cui si rimanda principalmente attraverso l'elemento della croce posto a guisa di fondale, sembrerebbe la sintesi di altre figure semidistese realizzate in precedenza per il cimitero triestino di Sant'Anna, su tutte la tomba Gerolimich e quella Tureck, meno imponente la prima, meno riuscita l'altra, ancora legata ad un linguaggio caratterizzato da un certo classicismo.

 

 

 

 

 

Tomba Gerolimich. Trieste, Cimitero di Sant'Anna

 

 

 

 

Giovanni Mayer, Tomba Gerolimich. Trieste, Archivio Generale del Comune

 

 

 

Nel secondo caso, cui si lega un disegno preparatorio, la figura femminile ideata per il sepolcro Gerolimich si adagia su un finto rialzo roccioso; essa è avvolta da una lunga veste che ne lascia scoperte le spalle e porta la mano destra al capo appoggiandosi ad un'àncora. Quest'ultima, chiaro rimando all'attività principe della famiglia, è ornata da un mazzo di papaveri che alludono al sonno eterno del cavalier Federico Gerolimich, scomparso il 19 maggio del 1918. L'intervento, firmato da Giovanni Mayer nel 1921, è preceduto da un disegno conservato presso l'Archivio Tecnico del Comune di Trieste datato 15 novembre 1921[13]. Il veloce tratto a matita anticipa le forme della figura femminile avvinta all’ancora concepita dallo scultore e testimonia lo stile maturo dell’artista, orientato verso scelte simboliste e prossimo ad una ricerca plastica bistolfiana[14] che ne segnò lunghi tratti della carriera di scultore.

 

Sul rapporto tra Arturo Rietti e altri artisti della sua epoca da lui effigiati o frequentati, molto è stato detto e scritto. I suoi ritratti di pittori, scultori, nonché di cantanti liriche, baroni, senatori, politici o di familiari legati a queste figure di spicco del panorama internazionale sono diffusi e sopratutto noti alla critica: in questa sede, dato anche il taglio dell'articolo incentrato sugli sviluppi stilistici legati alla produzione funebre di due artisti triestini, si è deciso di analizzare alcune riflessioni e appunti del pittore riguardo lo scultore Leonardo Bistolfi, considerato uno dei massimi esponenti della statuaria funebre di matrice simbolista e per questo maestro ideale anche degli scultori Giovanni Mayer e Gianni Marin che sono stati presi in esame nel paragrafo precedente. Tali appunti, che il pittore teneva su alcuni taccuini dai quali emergono personali riflessioni sulla figura di Bistolfi, lasciano presagire come i due artisti non dovessero essere più sintonizzati sulla stessa frequenza, dettaglio reso ancora più stridente dal ruolo che Bistolfi, accademico di Brera, sovente rivestiva nelle commissioni delle esposizioni d'arte che si tenevano al tempo. Le frizioni tra i due, o meglio i giudizi severi di Arturo Rietti nei confronti dello scultore piemontese, derivavano anche dall'indiscussa influenza che Bistolfi aveva sulla cultura figurativa del periodo e sulle scelte nel privilegiare ai concorsi una figura artistica in vece di un'altra.

Gli scritti, come già si è detto poco più che appunti, note rapide, schizzi e flussi di pensieri fatti ad alta voce e trascritti a matita su carta, si concentrano nella seconda decade del Novecento, e partono ovviamente dal periodo prossimo alla stesura del ritratto dello scultore eseguito da Rietti.

Il ritratto venne eseguito a pastello ed è oggi disperso; dell'opera si ignorano sia il percorso che le dimensioni, ma all'epoca venne prontamente segnalata da Raffaello Barbiera e Pasquale De Luca sulle pagine de «L'Illustrazione italiana» e «Emporium»[15].

 

 

 

 

 

Telegramma di Leonardo Bistolfi ad Arturo Rietti. Roma, Archivio Rietti

 

 

 

 

Il contatto tra i due artisti e il successivo completamento dell'opera, avvenuto probabilmente nel 1910, anno in cui il ritratto viene descritto, assieme ad un volto femminile presentato alla stessa esposizione, come “un pastello così vigoroso da sembrare pittura ad olio” da Barbiera, segna quindi l'inizio di uno scambio epistolare[16] e di una serie di rapide annotazioni del pittore triestino sulla figura di Bistolfi.

Tali note spaziano dal semplice indirizzo[17], al numero di telefono[18], per passare poi ad alcune riflessioni e commenti negativi sul ruolo avuto da Bistolfi in esposizioni d'arte[19] e nei legami con influenti personalità del mondo artistico, ricordate dal Rietti come «le parentele del Male» quali Adolfo Wildt, Gaetano Previati e Ivan Mestrovic[20] nonché ad altre legate all'universo letterario e politico, come nel caso di Gabriele D'Annunzio[21].

L'insofferenza nei confronti dei giudizi della critica e di un universo figurativo che stava cambiando e del quale non si sentiva più parte, è stata, del resto, una nota costante, esistenziale, del pittore triestino[22]: un tale atteggiamento emerge pure negli scritti del periodo milanese, in cui si confrontò con un ambiente sicuramente stimolante e poco provinciale ma, per contro, anche estremamente competitivo, in cui il carattere di Rietti non tardò nel venire a galla.[23]

 

 

 

 

 


Note


[1] Il Museo Revoltella di Trieste, a cura di M.Masau Dan, Vicenza 2004, M. Lorber, Arturo Rietti, Trieste 2008, p. 244.

 

[2] S. Sibilia, Pittori e scultori di Trieste, Milano 1922, p.230, L. Bellocchi, Le sculture dei cimiteri triestini, «Acheografo Triestino», IV, Vol. LXI (CIX della Raccolta) Trieste 2001, p.111.

 

[3] Sibilia 1922, p.200.

 

[4] A. Rietti, Ritratto di Giuseppe Sartorio, Trieste Civici Musei di Storia ed Arte inv. 13/5460 e  A. Rietti Contadinella in veste blu, Trieste Civici Musei di Storia ed Arte inv. 10/5424; Lorber, 2008, p. 159.

 

[5] Sibilia 1922, G. Cesari, Sant'Anna camposanto monumentale, Trieste 1931, P. Sticotti, Lo scultore triestino Gianni Marin, Trieste 1931, C.H. Martelli, Dizionario degli artisti di Trieste, dell'Isontino, dell'Istria e della Dalmazia, Trieste 2001, L. Bellocchi, 2001 pp. 1-146, F. Salvador, La scultura triestina tra Verismo ed Eclettismo, «Archeografo Triestino», IV, Vol. LXIII (CXI della Raccolta), Trieste 2003, pp. 1-178.

 

[6] Sibilia 1922, Cesari 1931, R, Marini, Giovanni Mayer, «Porta Orientale», II Trieste 1932, pp. 47-60, Bellocchi 2001, Salvador 2003, M. De Grassi, La scultura liberty a Trieste, «Archeografo Triestino», IV Vol. LXX/2 (CXVIII/2 dellla Raccolta), Trieste 2010, pp. 155-211.

 

[7] Salvador 2003, pp. 36-37, L. Bellocchi, Alcune tombe inedite nei cimiteri triestini e istriani, «Archeografo Triestino», IV, Vol. LXV (CXIII della Raccolta) Trieste 2005, pp. 291-300, L. Bellocchi, All'ombre de' cipressi e dentro l'urne. Cimiteri storici di Trieste e del litorale istriano, Trieste 2014, p.115.

 

[8] C. Wostry, Storia del Circolo Artistico Triestino, Udine 1934, Bellocchi 2001, Martelli, 2001.

 

[9] Bellocchi  Trieste 2005, Bellocchi 2014, p.116.

 

[10] R. Marini 1932, Bellocchi 2005, p.298, L. Bellocchi, Progetti di monumenti funebri conservati presso l'Archivio Generale del comune di Trieste, «Arte in Friuli Arte a Trieste», 24, Gorizia 2005, pp. 77-82.

 

[11] Bellocchi 2014, p. 115. “A / Gasparo Filippo Ivancich / morto addì 25 marzo 1899 / nei giorni di dolore / alla religione e dala pietà ispirata / con mesto ricordo / Erminia Ivancich Trabocchia / dedicava / addì 17 luglio 1928 / a lui si ricongiunse nell'eterno riposo”.

Le prime notizie sulla famiglia lussiniana degli Ivancich, da sempre capitani ed armatori, risalgono al 1500. In seguito vari rami dela famiglia continuarono tali attività spingendosi sino a venezia, ma l'episodio nodale risale al 1861, anno in  cui un giovanissimo Gasparo Filippo Ivancich contattò Niccolò Martinolich (della cui tomba si parlerà poco più avanti), in procinto di abbandonare Lussino per la crisidella cantieristica, prponendogli un grosso affare con la costruzione di un bastimento da 500 tonnellate che, di fatto, oltre a legare le due famiglie di cui si tratta in tale studio, rilanciò la cantieristica lussianiana, che conobbe poi, verso la fine degli anni Ottanta dell'Ottocento, il suo massimo splendore.

 

[12] Marco Umile Martinolich viaggiò a lungo per apprendere le nuove tecniche di costruzione e i più moderni indirizzi manageriali: costruttore e armatore, lasciò la sua attività al figlio Niccolò. Dopo la seconda guerra mondiale la famiglia abbandonò l'isola per trasferirsi a Trieste.

 

[13] Il disegno, realizzato in scala1:10, è firmato in basso a destra “Giovanni Mayer Scultore” mentre in basso a sinistra viene datato “Trieste 15 novembre 1921”. Cimiteri. Monumenti funerari. Estremi cronologici 1920-1994; consistenza 8 metri lineari di documentazione (19 scatole a ribalta – 6304 progetti monumentali), Bellocchi Gorizia 2005, pp. 77-82.

 

[14] Bellocchi 2001, p.67.

 

[15] R. Barbiera, Esposizione Nazionale di Belle Arti a Milano, in “L'illustrazione Italiana”, XXXVII, 42, Milano 1910, pp.384-386; P. De Luca, La rinascita dell'esposizione nazionale di Brera, in “Emporium”,XXXII, 190, Milano 1910,  pp.285-288.

 

[16] Cfr. i documenti conservati a Roma, Archivio eredi Rietti (d’ora in poi RAR), tra cui lettera inedita del 13 giugno 1911 a Rietti, con indirizzo l’hotel Krantz di Vienna: “Carissimo, avevo ricevuto la tua prima lettera e avevo mandato il tuo biglietto a Polo, perché ritiri i dipinti ciò che mi promise farà certamente ed io potrò così finalmente avere il mio ritratto. Non ti ho scritto subito e me ne perdonerai. Il mio intensissimo lavoro non mi lasciò tregua anche per le più facili cose. Tante cose dal tuo riconoscentissimo Bistolfi”. Si veda, inoltre, il contributo di Olga Melasecchi negli atti.

 

[17] RAR, appunti 1916. “Bistolfi – 3 v. Bonsignore 44 78”

 

[18] RAR, appunti 1918. “Bistolfi –  44 78”

 

[19] RAR, appunti 1919. “Esposizioni italiane (....) (luglio 18 -19) Amici dell'Arte (!) di Torino (presidente Bistolfi che mi aveva invitato). Ignorato dai critici (guidati da Bistolfi). Il ritratto della sig.ra Colongo distrutto perché non erano andati subito a ritirarlo” 

 

[20] RAR, appunti 1919. “Avrei dovuto capire che le mie pitture erano importanti dall'accoglienza fredda che gli amici avevano fatto ad esse. Le parentele del Male. Da Gabriele d'Annunzio a Bistolfi, fino a Mestrovich, a Previati, a Wildt (!). Che cos'è il Bene? Sincerità, umiltà, forza... Il Male ? Falsità, superbia, debolezza. Evocare, Suggerire. Ciascun artista, con mezzi suoi propri, secondo la propria ispirazione, cioè inventando nuove forme per effetto anche della propria sensazione. Copiare, imitare, analizzare oggettivamente con la più grande scrupolosità” .

 

[21] RAR, appunti 1923 “Leggi di quando in quando un poco di questo fastidioso Notturno. Il suono di questi periodi è come l'abbaiare d'un cane. Per il volgo questa è «prosa musicale». Bistolfi, che non capisce niente, diceva un giorno parlando di D'Annunzio «Egli capisce tutto»”.

 

[22] RAR, appunti 1932. “Quanto sarebbe utile invece un libro che mandasse al diavolo la Sarfatti una volta per sempre”. Trascritto da Lorber 2008, p.45

 

[23] Cfr. Lorber 2008, p.47 : “...visse ovunque da straniero, anche nella sua Trieste o ve, paradossalmente, pur trovandosi più a disagio che altrove, ritornava ciclicamente attratto al suo cosmopolitismo”.