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Isabella Collavizza

 

 

Scrittura privata e disegno nelle carte di Arturo Rietti

 

 

 

 

 

 

 

Abstract

 

The private papers preserved at the unknown Archive Rietti Allianz in Trieste bring out an image of an artist with many interests, from literature to paleography. In the pen and pastel sketches on loose sheets coexist the personal reflections and the practice of drawing in correspondence. The charm of these documents is revealed to the reader in the immediacy of the innermost concise and lapidary thoughts, annotated by the artist at any time of the day, as well as in the rapid and tightened drawings between glimpses of landscape and moments of daily life.

Many of the documents of Trieste describe the formative years between Florence, Milan and Monaco that demonstrate a concern not only for experimenting with different techniques, especially in portraits and in the different human types investigated with expressive power through graphic medium, but also for the intellectual inquiry that the artist expresses by sense of inner restlessness and discomfort. So the concept of a work of art, the dialectical relationship between painting and poetry, the role of the artist in the context of Italian art, reveal the common thread of the notebooks.

 

 

 

 

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   È  l’immagine di un artista dai molteplici interessi quella che prende forma dalle carte private conservate presso l’Archivio Rietti della società Allianz S.p.a, sede di Trieste, dove, com’è noto, si conserva un nucleo altrettanto importante di dipinti, accanto a una ricca collezione grafica, formata da disegni e schizzi su carte sciolte[1]. Sono gli snodi critici della vicenda biografica, prima ancora che artistica, di Arturo Rietti, ad emergere da queste testimonianze che vengono, dunque, ad affiancarsi al ricco patrimonio di documenti privati dell’artista conservato dagli eredi Rietti[2].

 

 

 

Taccuini, particolare del nucleo documentario, Fondo Rietti, Allianz S.p.a.

 

 

 

Riflessioni personali e pratica del disegno convivono negli schizzi a penna e a matita tratteggiati su fogli sparsi, ora nella corrispondenza epistolare, nella ricca serie dei biglietti da visita, ma soprattutto nei preziosi taccuini di appunti, oggetto del presente intervento; si tratta di un nucleo di più di una ventina di esemplari che copre un arco di tempo che va dal 1880 al 1916, gli anni di formazione tra Toscana, Milano e Monaco[3].

 

Il fascino di questi documenti, che in alcuni casi si presentano nel format del diario privato, si rivela al lettore nell’immediatezza dei pensieri più intimi, concisi, a volte lapidari, annotati dall’artista in ogni momento della giornata, così come nei disegni rapidi e serrati tra scorci di paesaggio, attimi di vita quotidiana e ritratti, in un intreccio di parole e segni.

 

 

 

 

Taccuino 1882, 10 settembre, Fondo Rietti, Allianz S.p.a.

 

 

In questo senso i taccuini diventano strumento indispensabile non solo per far luce sul pensiero di Rietti, ma anche per aprire degli squarci sul contesto culturale e sulla sua rete di rapporti tra artisti, intellettuali, gallerie e collezionisti. Si tratta di appunti la cui natura si presenta piuttosto eterogena spaziando da note di viaggio, a indirizzari[4], o ancora minute di lettere, dove, ad esempio, possiamo ritrovare Rietti che raccomanda l’amico pittore Bruno Croatto all’antiquario veneziano Michelangelo Guggeheim (Taccuino s.d.).

 

Così a guidarci nell’esame del corposo materiale sono gli stessi taccuini per gran parte riferibili al periodo della formazione toscana, ancora piuttosto sfocato sullo sfondo della biografia dell’artista. Siamo agli inizi del nono decennio dell’Ottocento e Arturo Rietti si trova in Toscana presso il fratello Riccardo, tra San Giovanni Valdarno e Firenze impegnato a seguire i corsi presso l’Istituto di Belle Arti[5]. È un giovane Rietti quello che, prima di intraprendere la carriera di pittore, si dedica alle lettere tanto da vantare una discreta preparazione umanistica che spazia dalla filosofia alla paleografia, allo studio delle lingue.

 

 

 

 

Taccuino 1880, 6 novembre, Fondo Rietti, Allianz S.p.a.

 

 

 

 

E lo confermano gli appunti presi a lezione, dove puntualmente riporta anche i nomi dei professori, le numerose trascrizioni e note di natura epigrafica[6].  Non manca di studiare autonomamente; stralci di annotazioni dai manoscritti conservati presso le biblioteche fiorentine, come accade, ad esempio, nel caso della Mandragola di Macchiavelli, o ancora, per le opere di Petrarca e Boccaccio, dei quali ricorda di aver tradotto i testi lavorando di notte. Così tra le righe emerge l’interesse per il patrimonio artistico della città di cui rimane testimonianza in alcune note registrate nel corso delle visite a Palazzo Pitti e presso il campanile di Giotto. Curioso si rivela nei confronti dell’arte toscana e, in particolare, con la riflessione «intorno alla pittura fiorentina del XIV secolo» egli dà prova di una discreta conoscenza della lingua francese, o ancora, dei grandi artisti della pittura italiana; Rietti ricorda l’incontro con uno «schizzo di una testa fata a matita dal Tiziano; ch’è bello così, che mi appare perfetto e superiore in merito a tutti più stupendi quadri di questo mondo».  Da qui, è facile immaginare il fascino che su di lui devono aver esercitato artisti come Leonardo, Raffello, Michelangelo e che riecheggiano in alcuni schizzi databili a questi anni.

 

È senza dubbio un segno ancora preciso quanto veloce tracciato a penna quello che ritroviamo nei fogli degli inizi degli anni Ottanta dove tuttavia si può leggere un tentativo da parte dell’artista di ragionamento sul concetto di sfumato; concetto qui tradotto prima attraverso l’uso dell’acquarello, poi, nel periodo monacense soprattutto, per mezzo della tecnica a pastello[7]. Lo schizzo, il pensiero tradotto sulla carta è dunque parte integrante del modo di procedere dell’artista nell’ideazione di un’immagine:

 

 

          Voglio diventar grande artista. Voglio studiare accuratamente e assiduamente figura per dar forma alle mie immaginazioni (Taccuino 1882, s.d.)

 

 

          Minima: fare uno schizzo a lapis o dipinto di tutte le persone con cui ci si trova ora, aggiungendovi delle note. Carattere, mosse, relazioni discorsi. Anche oggetti relativi e ambienti (…) Ma prendermi qualche ora per studiare il paese. Borgo, piano e paesaggio intorno. Maxima: teste, teste, teste, teste, teste. Carbone, Dipinto, Sfumino, Estremità. La mattina alle 7. Prendere appunti di tutte le foggie (Taccuino 1884, 29 gennaio)

 

 

 

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Taccuino 1884, 29 gennaio, Fondo Rietti, Allianz S.p.a.

 

 

 

Ecco allora che a queste note si accompagnano tratteggi veloci o studi di scene quotidiane e di figura vicini alla contemporanea produzione della scuola verista toscana a cui guarda l’artista. A riguardo, giova notare come egli manifesti una concreta necessità di fissare i principi della sua arte in quel procedere rapidamente per linee principali su cui poi lavorare con ombre e colori sfumati. Principi, questi, che ricorrono in più occasioni nei quaderni attraverso i concetti di «linea elegante» e «macchia armoniosa». Così anche nei ritratti, come ricorda Antonio Alisi, «solo il segno o una pennellata rapida possono diventare poesia»[8]. Sperimentazione tecnica dunque che si affianca a una profonda ricerca esistenziale ancor prima che intellettuale-artistica. La profondità di pensiero diventa protagonista delle pagine dei suoi quaderni, qui evocate dall’intensità del sentire e del vivere in particolare per gli anni monacensi:

 

 

          Rodono sul mio strazio, sulla mia pazzia (…) sul mio breve avvenire, sul mio passato triste. (…) la mia vita è certo la più infelice di quante abbia potuto conoscere finora (Taccuino 1884, s.d.)

 

 

È negli stessi caffè di Monaco che l’artista ricorda la compagnia di amici come il pittore greco Nikolaus Ghisis, di cui frequentava lo studio cittadino, e numerosi contatti tra cui la contessa Paolina Torri, presente nella città bavarese, oltre a Hugo von Habermann.

Passando per Milano nel 1885, ritroviamo Rietti a Roma l’anno successivo; gli appunti ci restituiscono una felice testimonianza del soggiorno pontificio reso interessante da incontri con artisti e intellettuali di fama, tra gli altri, Costantino Barbella in attesa di partire per Parigi, come sottoscrive Rietti, Francesco Luigi Michetti, il pittore abruzzese conosciuto a Francavilla al Mare. Nell’autunno dello stesso anno, infatti, Rietti descriveva il suo arrivo nel paese in provincia di Chieti e la passeggiata lungo la spiaggia segnata dal confronto con il collega:

 

 

          Mi accolse assai gentilmente, ma senza mostrarmi nulla. Si discorse subito d’arte. Egli aveva, una camicia un po’ aperta col goletto arrovesciato. Ciò mi diede sospetto. Ma è Michetti pensai (Taccuino 1886, 26 ottobre)

 

 

Un’attenzione ai particolari che non si esaurisce a livello figurativo ma che condiziona anche l’uso che egli fa delle parole, ancor più quando si trova limitato da una «miopia che - come puntualizza Rietti - mi togli in sentire praticamente in arte e il vedere con esattezza»:

 

 

          posso io lavorare? Si, lavorare posso certamente sebbene con un godimento minimo e con sofferenze enormi in paragone di quello che potrei senza questa disgrazia della vista. Le sensazioni poetiche sono inferiori e diverse di quelle che proverei avessi gli occhi buoni (Taccuino 1889, s.d.)

 

 

 

Tra i corrispondenti epistolari dell’artista non sorprende infatti il nome di Alfonso Neuschuller, oftalmologo, effigiato dallo stesso Rietti. Uno dei numerosi ritratti dove l’artista indaga la tipologia umana con una profondità che, come è già stato puntualmente messo in evidenza dalla critica, deriva da un’indagine esistenziale che egli compie su se stesso da cui deriva «il suo intimo tormento d’indagatore»[9]. Indagine che qui si traduce in un forte disagio interiore responsabile di una certa irrequietezza con cui l’artista non manca di confrontarsi attraverso quesiti che riguardano, in termini generali, il ruolo del pittore, il concetto di pittura, il rapporto dialettico tra pittura e poesia.

 

 

 

 

Taccuino 1909, sd., Fondo Rietti, Allianz S.p.a.

 

 

Così si appunta nel quaderno in un quaderno del 1889:

 

 

          L’artista vive non per sé nemmeno per beneficiare direttamente gli altri (sebbene egli sia benefico a quelli che lo circondano per l’emanazione stessa della sua anima…), ma per la costituzione d’un edifizio che per la sua bellezza giovi alle anime umane (Taccuino 1889, s.d.)

 

 

Qui si sofferma sulla nozione di pittura partendo dall’assunto di base che il pittore è necessariamente anche poeta, in quanto entrambi contribuiscono a rivelare la bellezza. Del resto, lo stesso Rietti non si considera solo un pittore, come ricorda Silvio Benco riferendo, ad esempio, sull’artista triestino che all’inizio della sua carriera si spacciava per negoziante, omettendo a volte la sua reale occupazione[10]. L’arte, dunque, viene vissuta come un’esperienza di relazioni che investe il sentire dell’uomo e il suo rapporto con la natura. Entrambi,  artista  e poeta, vivono nel momento, dell’istante. Il processo creativo dell’opera d’arte per Rietti ha origine, infatti, nel pensiero, ovvero in quell’Idea che deve essere tradotta dall’artista senza mediazioni esterne in modo da riuscire a catturare l’immediatezza del momento: «modellare pensando soltanto al rilievo al carattere rapidamente». È quanto egli si propone mentre lavora con il pastello; «interiore», «rapido», «impressione», «bellezza», sono solo alcune delle occorrenze linguistiche a sostegno di una lettura del suo fare artistico fatto di «impressioni». Suona allora come un imperativo categorico la nota che Rietti appunta nel taccuino del 1913: «pittura. L’esteriore deve rivelare l’interiore impressionista».

In questo suo tragitto intellettuale sembrano convergere così da una parte, la necessità di esprimere  l’impressione nell’opera e dall’altra, la sua posizione nei confronti del dibattuto tema della fotografia:

 

 

          Fotografia. L’elaborazione deve avvenire nella mente, non fuori, con altri mezzi che il pensiero. Perciò l’artista che pensa costantemente sente ripugnanza per la fotografia (Taccuino 1898, s.d.)

 

          Che cosa si copia e si cerca?  I contorni, il chiaroscuro il colore dell’oggetto? No. Si cerca di esprimere la sensazione complessa che l’oggetto nel suo ambiente ci dà. Sviluppo

Che sia vero senza essere fotografico, che esprima un pensiero senza essere manierato pomposo bugiardo affettato, La natura offre di più. L’arte chiede di più – e più sotto – Fotografia: senza discernere ciò che è per la visione e psicologicamente più importante (Taccuino 1913, s.d.)

 

 

A guidare in tale direzione l’artista partecipano senza dubbio anche le contemporanee esperienze impressioniste con cui egli aveva potuto confrontarsi già nel 1889 all’esposizione di Parigi. Non è un caso allora se tra le righe delle note ritorna il nome di Degas accanto a quello di Lieberman, mentre, con una certa ironia, viene ricordato Giovanni Segantini[11]. Così Rietti non manca di opporsi in modo polemico alla critica militante del tempo definita «speculativa», in particolare, in riferimento a Ugo Ojetti  e Antonio Fradeletto contro cui lo stesso prenderà posizione in più occasioni, con censure anche nei confronti del critico Pietro Sgabelli e dell’intellettuale Giovanni Pascoli.

 

 

          L’opera d’arte non agisce sul pubblico per forza propria. Vi sono due specie di critici: gli scopritori e i seguaci (che fanno gli eruditi). Così gli uni come gli altri di solito si sbagliano. (Come potrebbero sapere?). I critici, i negozianti, i Fradeletto fanno la réclame, e la réclame agisce sul pubblico purchè l’artista non sia tanto puro da aver in mente l’arte sola. Bisogna aiutare la réclame. Il pudore guasta ogni cosa (Taccuino 1902,  Graz 5 maggio).

 

 

Una posizione quella dell’artista che lo porterà ad un allontanamento consapevole dalle nuove correnti figurative, a partire dal movimento futurista, di cui la prefazione alla mostra alla Galleria Pesaro del 1925 ne traccia puntualmente le motivazioni[12]. Entro questo contesto critico, alimentato anche dalle note polemiche di Margherita Sarfatti, si muove l’artista triestino dichiarandosi estraneo agli sviluppi della cultura artistica a livello nazionale[13]. Significativi risultano allora alcuni pensieri annotati, tutti senza data, nel Taccuino del 1909:

 

 

          lavorare nell’Arte è un atto d’amore e non si può amare secondo il consiglio altrui (…) le parole sono nemiche dell’opera

 

          (…) due specie di attività: l’una ha una meta ideale, l’altra uno scopo di utilità pratica. Esse nell’effetto paiono talvolta confondersi fra loro, ma nell’operazione non si confondono mai, e sono anche di natura opposta

 

 

Dalla critica al mercato d’arte; Rietti affronta tra le righe l’altrettanto dibattuta questione della commissioni fin troppo spesso condizionate da una mera finalità di guadagno per l’artista. Lo scrupolo etico e ideologico professato dall’artista sembra allora contrastare lo stesso evolversi del mercato artistico:

 

 

          quello che importa nell’Arte, è di produrre delle cose pure. Il pensiero dell’utilità (ogni specie di guadagno) corrompe insudicia il lavoro d’arte

 

          (…) L’Arte si forma prima nel cervello. Gli spasmi, l’anima turbata. Il cervello è gravido dell’Idea. Ma no; la gente non si cura dell’arte, non si cura di te. Tu devi trovare denaro per altri e per vivere tu stesso (…) perché a nessuno importa che la tua idea viva che il tuo ingegno produca. Fa ritratti e magari quadretti per non dire (questo mi fu impossibile sempre, ma volli piegarmi al ritratto (Taccuino 1916, s.d.)

 

 

Nelle parole dell’artista si fa consapevole dunque la scelta già imposta da necessità di sopravvivenza; i ritratti sono una fonte necessaria di guadagno, prima ancora che di successo. L’artista è costretto ad abbandonare l’iniziale reticenza nei confronti di una condizione che aveva sempre allontanato, ovvero quella di un’arte che si mette al servizio del mercato. È nello stesso quaderno, alcune pagine dopo, che Rietti riassume il valore del fare pittura per gli artisti contemporanei:

 

 

          Tre principi: 1. Il pittore deve far quadri per vendere 2. La fotografia: perché no, se può servire a far più preso? 3. La tua attività deve esercitarsi fuori di casa (Taccuino 1916, s.d.)

 

 

Così a testimoniare l’intensa attività a cui era sottoposto il pittore rimangono le sue note su «i problemi» che si traducono in un elenco di nomi di importanti committenti, dai Sordina ai noti Economo[14]. È, dunque, nel contesto di una Trieste che si affaccia ad affrontare le ripercussioni del conflitto bellico che egli si trova a sposare la causa della società borghese di cui diventa interprete quale protagonista della vasta produzione ritrattistica di inizio Novecento. Come sottolineato da Benco, infatti, l’artista diventa una vittima, per quanto «vittima di successo», di quello stesso sistema da cui cercava di allontanarsi: «nessuno, in realtà, come pittore, era più solo di lui»[15].


 

 

 

 

Note


[1] Devo qui ringraziare la disponibilità di Allianz S.p.a. in particolare, nelle persone della dott.ssa Gaia Furlan e del dott. Alessandro Del Conte per avermi agevolato nella consultazione del fondo archivistico.

 

[2] In particolare, l’archivio è stato oggetto di studio da parte di M. Lorber, Arturo Rietti, Trieste 2008, cui si rimanda per la densa biografia dell’artista.

 

[3] Il nucleo non ancora catalogato è costituito da taccuini e piccoli quaderni di piccolo formato e di diverso volume. Accanto a pochi casi dove si contano poche carte non datate, possono essere identificati per data e luogo di riferimento i seguenti esemplari: Taccuino 1880-Toscana; Taccuino 1882-Toscana; Taccuino 1884 -Toscana; Taccuino 1885 -Monaco; Taccuino 1889-Toscana; Taccuino 1891-Toscana; Taccuino 1896-MonacoI; Taccuino 1896-MonacoII; Taccuino 1896 -Trieste; Taccuino 1896–Vienna/Monaco; Taccuino 1897-Monaco; Taccuino 1898-Toscana/Trieste; Taccuino 1898-Trieste; Taccuino 1902-Graz; Taccuino 1906-Monaco; Taccuino 1909; Taccuino 1913, Taccuino 1916 –Trieste.

 

[4] A titolo di esempio si segnala, nel primo caso, la nota relativa al viaggio a Monaco e Salisburgo riportata nel Taccuino 1884 in data 27 maggio, mentre per gli indirizzari i fogli nel Taccuino del 1916, non datati, tra cui spiccano, tra gli altri, i nomi di Emilio  Gola e Enrico Crispi.

 

[5] Sul periodo toscano si veda Lorber, cit., pp. 12-16.

 

[6] Taccuino 1880, 26 novembre.

 

[7] Sulla particolare propensione di Rietti per la traduzione grafica riferisce Lorber, cit., in particolare pp. 21-23.

 

[8] Per il puntuale profilo tracciato dal critico triestino si rimanda a A. Alisi, Arturo Rietti (1863-1943), in «La Porta Orientale», a. XX, 1950, pp. 43-50.

 

[9] G.M. Campitelli, Rietti, in «Giornale Alleato», 3 febbraio 1946, p. 3.

 

[10] S. Benco, Ricordo di Arturo Rietti, in «Fiera Letteraria», 27 giugno 1946, p. 6.

 

[11] Cfr. Lorber, cit., pp. 45-46.

 

[12] Cfr. Mostra individuale di Antonio Mancini e Arturo Rietti, catalogo della mostra (Galleria Pesaro, Milano) a cura di V. Pica, R. Giolli, Milano 1925.

 

[13] Il tema è trattato in questa sede da Valerio Terraroli

 

[14] Sulla ricca produzione ritrattistica si veda il contributi di A. Tiddia, Borghesia in posa fra ‘800 e ‘900. Scomparini, Barison, Rietti: una rivisitazione attuale, in «Arte in Fiuli, arte a Trieste», 28, 2009, pp 317-321.

 

[15]  S. Benco, Ricordo del pittore Arturo Rietti, in «Fiera Letteraria», a. I, n. 12, 27 giugno 1946, p. 6.