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Stefano Franzo

 

 

Rietti ritrattista altoborghese e la moda

 

 

 

 

 

 

Abstract

 

À la différence de Veruda, dont le bref parcours artistique s’était montré, d’une certaine manière, le fidèle miroir des coutumes, toujours prêt à refléter les vogues du XIXe siècle qui allait se terminer et les éclats de la Belle Époque seulement de Trieste, on dirait que Rietti interprète par ses touches du pastel les modèles d’un milieu bourgeois bien établi, à côté de ceux d’une aristocratie penchée, comme le peintre, vers une “sobre élégance”. Même après les expériences internationales, parmi lesquelles le passage parisien de 1909 avec Troubetzkoy et la précédente présence dans la capitale française à la fin des années 80 du XIXe siècle, le travail du pastelliste peut être considéré, grâce à la maîtrise de son art, intéressé à la mode. S’il y a la possibilité d’une comparaison avec un marché qui bouge, il faut aussi souligner le rapprochement aux vogues et aux noms importants de la peinture de Salon. Mais c’est ailleurs qu’on doit chercher les détails de la mode que suggère le tableau, en donnant l’idée des façons de s’habiller et ce sont les chroniqueurs à montrer les nouveautés qui, au début du XXe siècle, continuent à regarder surtout la France. Chez Rietti, chroniqueur de la vie moderne, plus rapproché à Carrière qu’à Blanche, les portraits des hommes célèbres et l’esprit des rencontres après Paris avec le milieu littéraire, musical et mondain de D’Annunzio et Puccini sont proches à ceux qui montrent les membres des familles de l’industrie unis par de “sages accouplements” reflétés au cours du XIXe siècle dans les manuels de bon ton, en arrivant sur le long chemin à remplacer, dans les préférences des vicentins Marzotto, le vénitien Alessandro Milesi.

 

 

 

 

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     Più che specchio fedele degli usi, pronto a riverberare le mode del tramontante Ottocento e i barbagli della Belle Époque solamente triestina, di cui s’era fatta carico la breve parabola artistica di Veruda, Rietti si direbbe incarnare i modelli di un milieu borghese pienamente affermato, colti accanto a quelli dell’aristocrazia di solido casato, propensa come il pittore alla “sobria ricercatezza”[1].

Emergono per tempo dalle cronache i differenti modi di approcciarsi all’abito dei due pittori triestini e pensando al rapporto di Veruda con Svevo, si può parlare di un trittico di figure che si muovono sulla scorta della moda, passando dall’eleganza degli artisti alla trascurata sobrietà impiegatizia dello scrittore documentata dall’iconografia sveviana, quasi indice di una diversa “cifra esistenziale”[2]. Sullo sfondo della Trieste di Svevo, in un tempo scandito dai colpi dati sul selciato dall’ombrellino di Angiolina come nell’inizio di Senilità, si dispongono dunque i richiami alla moda che diversamente si colgono nei quadri. Rimandi puntuali e palesemente descrittivi in Veruda, che lascia distinguere le tenute da giorno dei professionisti, da Carlo Beniamino Marina ai fratelli Mandel, non tralasciando Davide D’Osmo e il più spavaldo Menotti[3], mentre il salottiero Terzetto riprende, a guisa di un giornale di moda, assieme alla donna “bizzarramente” bionda[4], meno comuni voghe di cui altrove lasciano traccia i diari dei Goncourt[5] e alle quali indulge “sfacciatamente” il giovane in frac rosso, farfalla e gilet bianchi e importanti favoriti, come li appellava un recensore, emblema del gommeux o del giovanotto high-life approvato da altri[6].

Laddove le pagine delle riviste riservavano all’uomo lo spazio della moda per lo sport e i periodici davano corpo ad accorti consigli per l’uso delle toilette da giorno e da sera, il giovane moderno doveva avere l’aria anglais o américain tanto negli abiti che nei copricapi[7]. Per Rietti cronista della vita moderna la figura maschile si inquadra invece in un’aura di composta sobrietà, calibrata nei rigidi solini dalle punte rivoltate e nelle cravatte chiare o scure – i primi solini ricambiabili vennero propagandati da un Almanacco e guida di Trieste per gli anni 1870 e 1873[8] –, che accompagnano abiti parimenti neri, di cui il pastellista delinea talora con decisione colletti e revers, come per il barone Giovanni Economo. Dando corso a un costume pacato e severo, che si apre proprio nel primo Novecento a qualche nuova libertà, specialmente nelle tenute estive votate alle tinte chiare e al colore, di cui lasciano forse segno l’immagine di Giuseppe Sartorio e ancor più quella del principe della Torre e Tasso, che culmina nel copricapo chiaro quanto l’abito, la ritrattistica mossa di Rietti tramanda memoria dell’uso maschile dei baffi spioventi e rivoltati, mostrati da Ugo Brettauer nel 1897, dal conte Sordina e dal pittore o “bravo semita” Tolentino nel 1903 e in parte dal senatore Hortis più di una decina di anni dopo. All’uso ottocentesco si giustappongono modelli formalmente più spigliati, di cui dà conto Costantino Economo e qualche altro giovane raffigurato sempre a mezza figura[9], non potendo però vedervi rispecchiati i caratteri di novità suggeriti in più frangenti da “La Mode Illustrée”, che parlando del rilancio della rasatura completa decretava essere démodé i bandeaux e l’acconciatura en brosse[10].

     Tralasciando di evocare strettamente il rapporto mode e lettere[11] e andando oltre lo spazio conchiuso tra le date parigine di Rietti, occorre notare come il panorama triestino si ponga giocoforza nel solco della tradizione mitteleuropea, godendo, come altre zone dell’impero austro-ungarico, di quel “privilegio della periferia” teorizzato per l’Ottocento e fondato su di un allontanamento dai dettati formalistici della corte di Vienna, scandito da diversi modelli di comportamento[12]. In ciò andranno comunque inclusi i contatti con una testata di rilievo come “Wiener Mode”, oltre che i necessari influssi dell’imperante modello francese. Stemperati verso la fine degli anni Novanta dal galateo uscito dalla casa editrice della rivista viennese, che marcava nel titolo Die Frau comme il faut una evidente vicinanza al gusto parigino e alle modalità comportamentali anche inglesi accostate agli usi teutonici esposti nel 1881 da Ebhardt in Die gute Ton[13], i modelli di comportamento si dovevano uniformare nel contesto civile e sociale a quanto serpeggiava in altri manuali editi con larghezza in questo frangente, almeno per quanto concerne la giurisdizione della famiglia, se non del tutto per gli atti ufficiali di particolare riguardo, come il matrimonio e la cerimonia religiosa. È nei casi ibridi e non infrequenti nell’impero asburgico che il galateo viennese contemplava appositamente per la sposa di non presentarsi in Kranz und Schleier, ma bensì in abito da visita innanzi al borgomastro, al fine di evitare di mostrare un visibile segno di protesta nei confronti di una legge che non consentiva il matrimonio in chiesa tra persone di differente credo. In una simile circostanza la cattolica Livia Veneziani, che nel 1896 sposava Ettore Schmitz indossando un abito dalle maniche a gigot, porta comunque il velo pure nel rito civile, come riferisce una fotografia dell’atelier Zanutto, dove Svevo è ritratto in frac, mentre la tenuta della moglie si mostra in consonanza con altri abiti da sposa documentati nel contesto locale[14]. Oltre all’immagine candida di cui si fanno carico i figurini di “Wiener Mode”, l’uso tramanda abiti da sposa interamente scuri, giacché il bianco si configura come preferenza ma non esclusione[15]. Va però notato come “Wiener Mode” nella prima uscita del gennaio 1888 sottolineasse con forza l’asse strettamente territoriale delle sue pertinenze, contrapposte alla frivola attenzione francese per il dettaglio: “Es gibt eine Wiener Mode, eine Mode, die enge mit der Stadt, mit ihrer Physiognomie, ihrem Leben und Treiben verwachsen ist”[16].

Per Rietti il quadro non descrive ma suggerisce le mode su cui la cronaca giornalistica indugia prodiga di dettagli, colmando in un’immagine suggestiva, che Veruda sostanziava nell’olio, gli effetti svaporati delle fogge chiare e leggere degli abiti delle donne d’alto bordo, come la contessa Secchiari, legata a Rietti quanto a Troubetzkoy, che racchiude nella figura intera i rimandi a voghe che nella disimpegnata realtà domestica concedevano spazio a una differente disinvoltura, benché non siano del tutto appaiabili alle robe d’intérieur o tea-gown di Ortensia Schmitz[17], che non dovevano andare però disgiunte dal corretto approccio suggerito già dalla Marchesa Colombi, pari al riserbo che traspare dalla solida e tornita immagine di Livia Veneziani. Le simulate leggerezze delle fogge legate per tutto il primo Novecento agli obblighi del busto[18] non possono non emergere da altri pastelli del triestino e segnatamente dalla Figura femminile seduta del 1906, in cui la fierezza della posa di profilo si unisce al candore riservato alla blusa chiara dal colletto montante e dall’effetto remboursé. Più austera che leggiadra è invece la contessa Sordina[19], complice non solo l’ostentata sicurezza del piglio, ma pure l’abito scuro che dovrebbe mostrare maggior verticalità e un accenno di volumetria, in cui si bilanciano i bianchi e i neri e la luce è captata dai lunghi e irrinunciabili guanti bianchi calzati seguendo l’uso di disporli a mezzo in fitte e artatamente disordinate pieghe[20].

Si appoggiano invece sul solco delle fogge francesi talune toilette che ritornano nei ritratti, come quella con strascico della signora in rosa di Rietti, completata dai guanti neri, che si direbbe assommare le linee delle robes di Worth, come quelle portate dalla principessa Murat, dalla jupe à train in ottoman bianco alla robe du soir in stile impero, frutto di un revival che avrebbe surclassato la linea a “S”, trovando buon risultato negli abiti da sera e da sposa e concretandosi in una linea affusolata enfatizzata dal taglio à princesse che cancellava l’evidenza del punto vita[21].

 

 

 

 

 

  

 

Franzo Worth, Robe de cérémonie, 1900 ca. Musée du Costume de la ville de Paris

Franzo Worth, Robe du soir, 1900 ca. Musée du Costume de la ville de Paris

 

 

 

 

 

Trasversalmente diffuse, le tendenze di Parigi dovevano aleggiare dall’Hudson all’Arno[22], improntando quanto concerneva gli abiti per il passeggio, a cui immancabilmente si accostava “Wiener Mode”, a partire dalla Promenadentoilette mostrata nell’agosto del 1894, sino agli Straßenkleidung illustrati nel febbraio 1903, in cui occorre cogliere l’attenzione per quei copricapi che si sarebbero fatti importanti, tanto da marcare con un’ombra decisa i volti femminili ritratti da Rietti[23].

 

 

 

 

 

 

Franzo Worth, Promenadentoilette, in “Wiener Mode”, 15. August 1894 (in Wiener Damenmode 1994)

 

 

 

 

 

     A Parigi come a Vienna le modisterie costituivano il fitto panorama dei luoghi di produzione dei complementi della moda, in un contesto di mercato progressivamente industrializzato, che si univa alle grandi maison de couture, come quella di Madame Eléonore Lelong, trasferita nel 1898 in place de la Madeleine o la più antica casa Doucet, appaiabili ai non pochi Modesalon viennesi, come Drecoll, Francine e le sorelle Flöge[24].

Consolidato per tempo dall’abilità del mestiere, il lavoro del “sobrio e compendioso” “maestro della mezzatinta”[25] può a ragion veduta essere considerato per diversi riguardi incline alla moda, vedendolo dopo le esperienze internazionali e fra tutte il passaggio parigino del 1908 con Troubetzkoy, preceduto dalla sortita del chiudersi degli anni Ottanta del XIX secolo, quando vi si recò per la prima volta su suggerimento di Boldini. Se non si può tacere sulla possibilità di un confronto con un mercato in movimento, occorre notarne l’accostamento ai bei nomi della pittura da Salon, come quella di Sorolla, menzionato nei taccuini e noto alla Biennale. Pur valutando la necessità di altri affondi atti a inquadrare pienamente il suo rapporto con le committenze parigine procurategli dallo scultore e la cerchia delle loro frequentazioni fuori d’Italia – da cui emerge Rodin, ma che potrebbero aver gravitato attorno al parc Monceau dei Camondo e degli Ephrussi, che contavano parentele nella “Zionstraße” di Vienna –, almeno per il periodo che va sino alla prima guerra mondiale, non si può non considerare come nell’entusiasmo manifestato da Rietti si debba includere anche una sua attenzione al contesto artistico e una propensione più a Carrière e Besnard che al quasi coetaneo Blanche, anche se questi era tra le personalità che più animavano il panorama della ritrattistica da salotto[26].

In Italia i ritratti degli incontri après Paris con l’ambiente letterario, musicale e mondano di D’Annunzio e Puccini si accostano a quelli che raffigurano i membri delle famiglie dell’industria settentrionale uniti da “accoppiamenti giudiziosi”, indagati per l’area lombarda quale manifesto della solidità locale e rispecchiati nei manuali di comportamento[27], arrivando su lunga gittata e seguendo modalità esecutive oramai semplificate (come avviene col pastello per l’orafo Ravasco)[28], a sostituire nelle preferenze dei vicentini Marzotto il veneziano Milesi, che ritrae Ita Garbin, Gaetano e Vittorio Emanuele Marzotto[29].

 

 

 

 

  

 

Arturo Rietti, Ritratto di Gaetano Marzotto, 1933

Arturo Rietti, Ritratto di Gaetano Marzotto, 1941

 

 

 

 

 

 

Arturo Rietti, Ritratto di Margherita Lampertico, 1933

 

 

 

 

 

Qui i due ritratti di Gaetano Marzotto e di Margherita Lampertico chiudono in un’aria mutata la necessità di una immagine famigliare che lasci il segno dell’ultima generazione imprenditoriale, di cui Rietti fu turbato e infelice ospite e su cui lasciò in un manipolo di lettere secchi commenti[30].


 

 

 

 

Note

 


[1] A. Alisi, Due pittori triestini. I. Arturo Rietti, in “La porta orientale”, a. XX, 1950, p. 43. Cfr. RAR, Taccuini, inverno-primavera 1914: “Il vestito è cosa importantissima. Non si conosce dunque la nobiltà o la trivialità dell’animo dal vestito?”.

 

[2] R. Sgubin, Veruda e la moda, in Nella Trieste di Svevo. L’opera grafica e pittorica di Umberto Veruda (1868–1904), catalogo della mostra a cura di M. Masau Dan, D. Arich de Finetti (Trieste, Civico Museo Revoltella), Trieste 1998 (cit. 1998b), pp. 57, 61, note 1-2, col rimando a Livia Veneziani; B. Sturmar, “Menzogne, titubanze e rossori lasciano traccia anche sulla tela”. Italo Svevo e l’arte figurativa, in “Arte in Friuli Arte a Trieste”, 25, 2006, pp. 87-102.

 

[3] Nella Trieste di Svevo 1998, pp. 168-169, 175-178, cat. 25, 37, 42, 44, 45.

 

[4] D. Arich, ivi, p. 167, cat. 23.

 

[5] S. Franzo, Patron découpé, Padova 2005, p. 91, nota 17.

 

[6] Arich, in Nella Trieste di Svevo 1998, p. 167, cat. 23.

 

[7] S. Franzo, Cronachette di moda francese e italiana primo Novecento, in Lontananze capovolte. Nuovi scritti di amici per Raffaella Piva, a cura di A. Pasetti Medin, Padova 2009, p. 68, nota 18.

 

[8] Sgubin 1998b, pp. 58, 62, nota 9.

 

[9] M. Lorber, Arturo Rietti, Trieste 2008, pp. 27, 43, 61, 68, 86, 159, 160, 163, 165, 169, nn. 27, 31, 32, 39, 53, 66, 89. Utile ricordare al Museo Revoltella pure il ritratto di Francesco Basilio del 1897 (inv. 4074).

 

[10] Franzo 2009, p. 68, nota 18.

 

[11]De la mode et des lettres” du XIIIe siècle à nos jours, catalogo della mostra a cura di M. Delpierre, G. Garnier (Paris, Palais Galliera), Paris 1984.

 

[12] C. Milic, Il privilegio della periferia, in Abitare la periferia dell’Impero nell’800, catalogo della mostra (Trieste), Trieste 1990, p. 4.

 

[13] Si tratta di F. Ebhardt, Die gute Ton in allen Lebenslagen, Berlino 1881; N. Bruck-Auffenberg, Die Frau comme il faut (Die vollkommene Frau), Vienna 1895 [?]. Cfr. R. Sgubin, Fiori d’arancio. Abiti, accessori e corredi di nozze tra Otto e Novecento nelle raccolte dei Musei Provinciali di Gorizia, in Fiori d’arancio. Abiti, accessori e corredi di nozze tra Otto e Novecento nelle raccolte dei Musei Provinciali di Gorizia, catalogo della mostra a cura di R. Sgubin (Gorizia, Casa Morassi, Borgo Castello), Gorizia 1998 (cit. 1998a), pp. 8, 13.

 

[14] Sgubin 1998a, pp. 15, 23, 24. Cfr. V. de Buzzaccarini, D. Davanzo Poli, L’abito da sposa, Modena 1989, p. 29.

 

[15] Wiener Damenmode im Fin de Siècle, catalogo della mostra (Wien, Modeschauran des Historischen Museums der Stadt Wien, Schloß Hetzerdorf), Wien 1994, p. 17, per un Brautkleid nero datato al 1890; D. Milford-Cottam, in E. Ehrman, The Wedding Dress. 300 Years of Bridal Fashion, London 2011, pp. 96-97, per l’abito purple di Harriett Joyce, maritatasi a trentacinque anni nel 1899. Vedi anche La Marchesa Colombi, La gente per bene. Galateo, a cura di S. Benatti, I. Botteri, E. Genevois, Novara 2000, p. 115; L’abito da sposa e… dintorni, catalogo della mostra a cura di P. Caccia, V. Cavaiuolo, M. Mingardo (Milano, Biblioteca Nazionale Braidense), Milano 2003.

 

[16] Citato in Wiener Damenmode 1994, p. 2. Sulle posizioni critiche della rivista, organo della moda cittadina, e delle sartorie viennesi rispetto alle riforme dell’abbigliamento: H. Koeck, Moda e società intono al 1900. La moda a Vienna, in Le arti a Vienna. Dalla Secessione alla caduta dell’impero asburgico, catalogo della mostra (Venezia, Palazzo Grassi), Milano 1984, pp. 503-515: 506.

 

[17] Sgubin 1998b, p. 60; C. Pasquali, Proust, Primoli, la moda. Otto lettere inedite di Proust e tre saggi, Roma 1961 (“Quaderni di cultura francese” a cura della Fondazione Primoli); R. Levi Pisetzky, Il costume e la moda nella società italiana, Torino 1995, p. 336.

 

[18] La Marchesa Colombi 2000, pp. 127-128. Recentemente la mostra “A History of Lingerie” (New York, The Fashion and Textile History Gallery, June 3-November 15, 2014).

 

[19] Lorber 2008, p. 162, cat. 49.

 

[20] Levi Pisetzky 1995, pp. 343-344.

 

[21] Modes de la Belle époque. Costumes français 1890-1910 et portraits, catalogo della mostra (Paris, Musée du Costume de la ville de Paris), s.l. s.d. [1961], cat. 39, 41, 63, 70; Sgubin 1998a, p. 24.

 

[22] G. Chesne Dauphiné Griffo, Società e moda tra l’Hudson e l’Arno, in La Galleria del Costume / 3, Firenze 1988, pp. 17-22.

 

[23] Wiener Damenmode 1994, pp. 9, 10, 13; M. Santarsiero, Il figurino: l’immagine della moda nell’Ottocento, in Il figurino di moda. La donazione Carlo Gamba alla Biblioteca Marucelliana, a cura di R. Todros, Roma 1989, p. 53, tavv. 41-43. Cfr. Lorber 2008, p. 165, cat. 65, 67.

 

[24] Modes de la Belle époque [1961], cat. 76, 49; Wiener Damenmode 1994, p. 3; Roman d’une garde-robe. Le chic d’une Parisienne de la Belle Époque aux années 30, catalogo della mostra (Paris, Musée Carnavalet), Paris 2013. Per le macchine per la fabbricazione completa dei cappelli di feltro alle esposizioni di Parigi del 1897 e 1900, E. Bolomier, Le chapelier et la modiste, in Artisans de l’élégance, catalogo della mostra (Musée National des arts et traditions populaires; Roman, Musée international de la chaussure; Calais, Musée des beaux-arts et de la dentelle; Poitiers, Musée Sainte-Croix; Conservation départementale des musées de l’Ain; Niort, Musée du Donjon; Chazelles, Musée du chapeau), Paris 1993, p. 46. Per la realtà triestina R. Sgubin, Il fascino sottile della borghesia, in Vestiti per immagini. L’abito femminile da società tra Ottocento e Novecento e la sua immagine pittorica e fotografica, catalogo della mostra a cura di G. Borghini, G. Piantoni (Roma, Sala degli Arazzi del Complesso Monumentale del San Michele – Museo Boncompagni Ludovisi per le Arti Decorative, Costume e Moda del XIX e XX secolo), Roma 2003, pp. 223-228.

 

[25] P. Torriano, Cronache milanesi, in “Emporium”, vol. LXI, n. 362, febbraio 1925, p. 133.

 

[26] Le indicazioni di Lorber 2008, pp. 35-36, 38-39, sono state cfr. con RAR, Taccuino di appunti del 1908 e 1920, pure per le annotazioni da Parigi del 2-3 giugno 1908; ciò in merito al periodo segnato dalla corrispondenza tra i due artisti e da un legame di cui sono state colte le tracce sino al principio degli anni Venti.

 

[27] Accoppiamenti giudiziosi. Industria, arte e moda in Lombardia 1830-1945, catalogo della mostra a cura di S. Rebora, A. Bernardini (Varese, Civico Museo d’Arte Moderna e Contemporanea - Castello di Masnago), Cinisello Balsamo 2004; L. Tasca, Galatei. Buone maniere e cultura borghese nell’Italia dell’Ottocento, Firenze 2004.

 

[28] Alfredo Ravasco, 1939, pastello su masonite, 44,5x55 cm, Milano, Pio Albergo Trivulzio: M.A. Previtera, in 200 anni di solidarietà milanese nei 100 quadri restaurati da Trivulvio, Martinitt e Stelline, catalogo della mostra a cura di P. Biscottini, Milano 1990, pp. 72-73, 125, cat. 83.

 

[29] S. Franzo, Il ritratto a Vicenza 1866-1918, in Il ritratto nel Veneto 1866-1945, a cura di S. Marinelli, Verona 2005, pp. 117-118, nota 59; G. Roverato, Una casa industriale. I Marzotto, Milano 1986.

 

[30] RAR, corrispondenza con la figlia Anatolia e il genero Max Capuano: lettere da San Vigilio 1 marzo 1931 e Milano 12 agosto 1933; due biglietti non datati firmati “Tullio”, scritti da Valdagno, uno dei quali recante l’indicazione “presso il Comm. Gaetano Marzotto”. I due biglietti risultano firmati “Tullio” anziché Arturo, giacché Rietti quando scriveva a sua figlia piccola si firmava “Pip”, dal nomignolo datogli da Anatolia; quando la figlia era giovinetta e pure in seguito, dopo che si era sposata, se scriveva a lei e ai suoi generi si firmava “Tullio”, anche se in una lettera alla figlia riferisce di non ricordare più perché scelse tale nome; quando poi scriveva ai due nipoti Giulio e Silvio si firmava il “Nipote”. Le tre fotografie in RAR coi ritratti dei Marzotto (il pendant è del 1933, l’altro di Gaetano del 1941) sono pubblicate in via dubitativa in Lorber 2008, pp. 231, 236, cat. 177-178, 229.