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Valerio Terraroli

 

 

Arturo Rietti e il clima artistico milanese tra fine Ottocento e primi Novecento.

 

 

 

 

 

Abstract

 

After his studies in Munich Arturo Rietti first presented his paintings in Milan in 1887 and until the end of the 30s he had close contacts with the artists of the town.

Between 1890 and the 30s Milan was the heart of a deep artistic debate: from the Scapigliatura to the Verismo, from Segantini to to Previati up to the political commitent of Morbelli and Pelizza da Volpedo. Very important were also the influence of post impressionist French art with the help of Vittore Grubicy, the contribution of Cesare Tallone  example of academic and naturalistic arts and also Mosé Bianchi from Luigi Conconi's materic paintings to Ambrogio Alciati's Liberty style.

Rietti is considered by the contemporary critics (Hevesi, Giolli, Sarfatti) part of a context  full of artistic turmoil: excellent portrait artist, rich in colorist sensitivity who never shared the language of the avant-guarde.

 

 

 

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     Quando il triestino Arturo Rietti[1] espone a Milano nel 1887, fresco della propria formazione a Monaco di Baviera, incontra un mondo culturale e artistico vivace che ancora si riconosce nella rivoluzione del linguaggio scapigliato e in un costante scambio di idee e di invenzioni con il mondo parigino, il cui tramite è il gallerista e pittore Vittore Grubicy de Dragon. L'occasione mette Rietti in diretto contatto con i pittori Emilio Gola, Filippo Carcano, Mosè Bianchi, Leonardo Bazzaro, Ambrogio Alciati e Cesare Tallone e con lo scultore Paul Troubetzkoy in un continuo confronto e scambio, anche attraverso le esposizioni dell'Accademia di Brera e della galleria La Permanente, particolarmente quelle dedicate al tema del ritratto contemporaneo, genere nel quale Rietti eccelle. 

 

 

 

 

 

Giovanni Segantini, Alla Stanga, 1886.

 

 

 

 

     Il 1887 è un anno cruciale per l'arte lombarda. Alla Stanga di Segantini, un grande dipinto dal tono eroico di sintesi moderna capace di spezzare gli orizzonti nostrani, dopo aver ottenuto la medaglia d'oro ad Amsterdam (1886), viene esposto alla Biennale veneziana. L'opera diventa immediatamente un modello di riferimento non solo per l'esplicito radicamento alla terra, ma dimostrando la necessità ad un'autodeterminazione figurativa, come per Paul Gauguin, Vincent van Gogh o, meglio ancora, per i cosiddetti “Ambulanti russi”, pur in un confronto serrato con le soluzioni pittoriche e le atmosfere proto metafisiche di Francois Millet, trovando la forza di superare la scelta crepuscolare di Antonio Fontanesi, così come gli esercizi luministici di Filippo Carcano.

 

 

 

 

 

Gaetano Previati, Maternità, 1891.

 

 

 

 

Tranquillo Cremona, Ritratto.

 

 

 

 

Mosè Bianchi, Il Pescatore chioggiotto, 1890.

 

 

 

La pittura elegantemente materica di Segantini, nella piena stagione della sperimentazione del lessico divisionista, da Alla stanga (1886) a Le due madri (1890), rifugge dalle regolarità filamentosa di Gaetano Previati, così evidentemente intrisa di cadenze art nouveau in Maternità (1891), in favore di un tratteggio più spesso ed irregolare che a Rietti dovette dire molto, soprattutto se unito a quelle spezzettature quadrate che si riconoscono nei ritratti di Cremona e in alcune tele di Mosè Bianchi, come il Pescatore chioggiotto (1890).

 

 

 

 

Arturo Rietti, Ritratto di Livia Veneziani, 1895.

 

 

 

 

Arturo Rietti, Ritratto femminile, 1899.

 

 

 

Risalgono al 1895 il Ritratto della signora Livia Veneziani e al 1899 un Ritratto femminile, fatto di sfrangiati tocchi di pennello su uno schema compositivo esemplato sui modernissimi ritratti di Yvette Guilbert  di Tolouse-Lautrec, ad ulteriore conferma delle influenze parigine che in Rietti si sposano con la lezione elegante e verosimigliante di Franz von Lembach.

 

 

 

 

 

Pompeo Mariani, Ritratto della moglie, pastello, 1900 circa.

 

 

 

 

 

Luigi Conconi, Ritratto femminile, 1900.

 

 

 

 

Arturo Rietti, Autoritratto, 1900.

 

 

 

E la via pittorica di Rietti sembra mantenersi in un personale equilibrio tra un naturalismo alla Pompeo Mariani (vedi Ritratto della moglie del pittore, un bozzetto a pastello del 1900), e un radicale linguaggio scapigliato alla Luigi Conconi (come in Ritratto femminile, datato 1900), a cui aderisce, quasi palmarmente, l'Autoritratto di Arturo Rietti, del medesimo anno.

Con Segantini, Previati, Morbelli, Pellizza da Volpedo e Grubicy de Dragon, nell'ultimo decennio dell'Ottocento e nei primi del Novecento, il Divisionismo diventa la koinè del modernità e Arturo Rietti vi si immerge frequentando con Paul Troubetzkoy ed Emilio Gola “La Famiglia Artistica” e viene citato nelle pagine del “Corriere della sera” come artista di talento che utilizzava una raffigurazione compendiaria dal tipico abbozzo impressionistico.

 

 

 

 

Ambrogio Alciati, Ritratto di Javotte Bocconi Manca di Villahermosa, 1916.

 

 

Se la figura di Troubetzkoy è determinate per lo sviluppo della pittura sfrangiata di Rietti, certamente non da meno sono le fonti visive di Mosè Bianchi e del nipote Pompeo Mariani, ma soprattutto è attratto dalle innovazioni apportate al genere del ritratto da parte di Emilio Gola e di Ambrogio Alciati: le sue fonti, quindi, non sono gli scapigliati più ortodossi come Tranquillo Cremona e Daniele Ranzoni, bensì gli innovatori di quel linguaggio e appartenenti alla seconda generazione della Scapigliatura milanese ormai connessa la divisionismo.

La prima Triennale di Brera, nel 1891, rappresenta un momento di sintesi degli esiti più ideologici e impegnativi  della corrente verista e il concretizzarsi delle teorie cresciute intorno alle sperimentazioni tecniche del divisionismo. In quell'occasione l'anima della Famiglia Artistica milanese, Gustavo Macchi, scrive: “Rifuggendo dall'abbrutimento del mestiere in molti artisti tentano, nel campo dell'arte, ciascuno per conto suo, di rendere al viva natura ispiratrice attraverso il loro organismo di osservatori; e, ciò che è assai significante, non servendosi di mezzi convenzionali, di formule belle e pronte, ma accompagnando di pari passo l'attuazione dell'idea, con il perfezionamento dei mezzi per estrinsecarla, pur subordinando sempre questi a quella.

 

 

 

 

Luigi Conconi, Ritratto, fine XIX secolo.

 

 

 

Si va dalla pittura larga e riassuntiva del ritratto di Feragutti, alle analisi raffinate della figura umana di Attilio [sic] Rietti; dalle bizzarre e preziose ricerche di Luigi Conconi, alla serena e semplice interpretazione pittorica del sentimento della natura di Pietro Fragiacomo; dalle ricostruzioni sintetiche della natura di Filippo Carcano alla minuta e curiosa scomposizione della luce di Angelo Morbelli; dal realismo socializzante di Emilio Longoni al simbolismo delicato e trascendente di Gaetano Previati. Varia con l'individuo, non solo il motivo, l'idea, ma altresì la tecnica.....[...]. Eppure è stata appunto questa varietà di tentativi individuali, questo cozzar di opposti ideali, questa indipendenza sconvolgente le comode divisioni di scuole che hanno suscitato a taluni disgusto e rammarico”[2]. Ne emerge dunque un panorama estremamente variegato nel quale Rietti ricopre il ruolo di un artista raffinato, attento alla resa degli stati d'animo strettamente connessi alla rappresentazione delle apparenze naturali, ma allo stesso tempo sperimentatore di tecniche che, nelle varianti luminose e materiche della materia cromatica, afferma un modo, e  un mondo, nuovo di espressione.

“Alla vigilia dell'Esposizione, la rivista “Cronaca d'Arte” aveva ospitato un editoriale di Vittore Grubicy significativamente intitolato Le nuove battaglie dell'arte dove si auspicava l'avvento di poetiche figurative aggiornate sulla sensibilità contemporanea e capaci, attraverso l'applicazione di tecniche esecutive sperimentali, di opporsi al formalismo di maniera gradito alla committenza ufficiale e anche in grado di affrontare con soluzioni espressive più consone il dibattito in corso sulla rappresentazione della realtà e dei suoi traslati”[3]. L'ambiente milanese, attraversato anche da scontri ideali e di gusto che si enucleano intorno alla Maternità di Gaetano Previati, opera che suscita contrasti accesissimi nella critica contemporanea, è determinate per lo sviluppo della poetica di Arturo Rietti, anche se egli non percorrerà fino in fondo la strada della sperimentazione tecnica come codice di trasformazione radicale dell'espressione artistica contemporanea, preferendo attestarsi su una mediazione, certamente più tranquillizzante anche per la propria committenza,  tra un verismo indagatore di fondo e una superficie frammentata, sensibile alle variazioni luministiche e all'asperità di una materia cromatica, senza mai rinunciare alla riconoscibilità fisionomica e “sentimentale” del soggetto ritratto.

La sua fama cresce intorno ai primi del secolo, se un intellettuale raffinato come l'ungherese Ludwig Hevesi, creatore e autore della rivista viennese secessionista “Ver Sacrum”, ne parla in un articolo pubblicato il 5 aprile 1903 in “Wiener Fremdenblatt”: “Per un austriaco, apparire interessante in un simile assieme è una dimostrazione d'incontestabile lavoro. Il triestino Arturo Rietti l'ha ottenuta con la sua collezione di 17 ritratti a pastello. L'artista, fin troppo modesto, è da lungo tempo conosciuto dai viennesi, dal tempo di certi pastelli con toni neri, piccanti, nei quali si mescolava una eleganza prettamente italiana e con in più il merito di un carattere assoluto. Un non so che di bizzarro e di personale faceva distinguere queste opere, imprimendone il ricordo […]. Rietti ha tanto sangue nero che anche se dipinge di bianco, resta un certo sapore di fuliggine. Naturalmente quello piacevole, comune anche a Velasquez e a Goya. Egli è superlativamente colorista, ed il più esperto. Bisogna vedere come crea i suoi insiemi bruno-grigi, con toni polverizzati che sembrano dello sporco ed invece danno effetti di luce e di nitore. Egli vi mescola minime dosi di scoppiettante veleno, fuggevoli lampi di azzurro, di rosso, di giallo e di verde; questi vi lampeggiano e brillano energeticamente tra i veli delle tinte neutre; si potrebbe chiamarlo un pittore brillante. La sua pittura mi ricordava molto la plastica del russo- milanese Troubetzkoy, ed invero si è saputo che i due sono amici intimi”[4].

In effetti la pittura franta e l'uso del pastello e della tempera da parte di Rietti, che assecondano il suo amore per il bozzetto, sembrano una traduzione pittorica del modo di modellare di Troubetzkoy, nella quale la pittura compendiaria ottenuta con rapidi frammenti di materia ha come obiettivo quello di cogliere la verisimiglianza espressiva e transeunte del soggetto.

Così ne scrive, ma già nel 1925, il sensibilissimo critico milanese Raffaello Giolli: “Ora tu non ti avvicini più a questi ritratti per sorprendervi sorrisi compiacenti o deliziose ritrosie di maliziosi atteggiamenti, guardando cioè al gesto delle mani o al movimento delle labbra per vederne uscire la parola o a certo spiritoso occhieggiare: ma neppure questo non vuol dire che il quadro per te diventi soltanto una algebrica o alchimistica composizione di colori, di linee, di toni.

In tutta la sua unità quel quadro è per te una voce d'anima, nel suo colore illuminato, nella sua forma commossa, nella sua linea sensitiva.

E' negli accenti coloristici, vivaci, impulsivi e inattesi, o invece vasti e semplici: nelle forme plasticamente salde e segnate, o impressionisticamente palpitanti, o distese riposanti in piani larghi e riassuntivi; nella linea calma, austera o rapida e viva; che il gioioso e pulsante fremito esplosivo dell'anima, o le sue emozioni più nobilmente solenni, che la chiarezza sottile e irrequieta, o il lento e grave ondeggiare della coscienza ora ti si rappresentano.

Egli è grandioso se dipinge il ritratto d'un bambino; squisito e aristocratico in quella testa di vecchia bitorzoluta; vivo cioè in tutta la sua coscienza in ogni istante della sua arte.

Senti ora tutti gli aggettivi letterari e le interpretazioni poetiche dell'opera di Rietti aver diritto di risorgere: ma non più a rima obbligata.

Senti ormai che tu stai penetrando nel mondo lirico di Rietti.

A quel modo vigilato e difeso, ora si apre ne' suoi freschi fiori”[5].

Il successo ottenuto a Parigi, poi a Vienna, tra la fine del secolo e i primi del Novecento, accompagna un continuo muoversi del pittore fra Trieste e Milano, città e e ambiente artistico ai quali resta legato per tutta la vita. Anche se, in sostanza, Rietti, risulta estraneo ai radicali cambiamenti che via via si susseguono nella cultura artistica italiana, a partire dal movimento futurista, e mantiene con coerenza la propria scelta stilistica che viene confermata nella mostra presso la Galleria Pesaro di Milano (insieme ad Antonio Mancini) organizzata nel 1925. L'intenso saggio di presentazione scritto da Raffaello Giolli e le polemiche nei confronti del movimento Novecento e delle posizioni critiche di Margherita Sarfatti, caratterizzano l'orizzonte critico in cui Rietti si muove nei pieni anni Venti.

“Questo momento è importante, oltre che in lui, per quel che ora dipinge, anche in noi. Se Rietti non s'inquadra nella pittura di nessuna regione, neppure nella lombarda, sebbene qui abbia, dall'86 in qua, vissuto a intervalli e assai lavorato, amico stretto e cordiale di pochi ma tuttavia d'alcuni dei più eminenti storicamente egli sempre assume una chiara posizione.

Di quel movimento di liberazione dalle convenzioni accademiche e romantiche in cui si rappresenta la pittura europea e italiana del secondo Ottocento e che fu sopratutto una ricostruzione de' valori plastici e coloristici nella pittura, in Italia oggi Mancini e Rietti sono i soli, o i due più illustri rappresentanti.

E in quella battaglia ch'è ancor oggi la vita dell'arte, in cui più sembra che oggi si voglia contraddire quella posizione impressionistica che non superarla, smentirla più che non integrarla, questo Rietti che, mentre Mancini è tutto nell'impeto della sua geniale creazione, oggi, come ieri Gola, tenta questo passaggio, non contraddicendo ma integrando, è pure in noi d'una vitale esperienza.

Ci mostra appunto come in lui si venga costruendo, di sopra l'irrequiete esperienze impulsive e cosiddette impressionistiche, il tono grave e libero dei classici, che è poi quello maturo dei grandi”[6].

Ma nonostante la valutazione estremamente positiva espressa da Raffaello Giolli sulla ritrattistica di Arturo Rietti, l’ultima fase di attività del pittore è un percorso segnato da numerose amarezze. L’attestazione di Giolli rientra nella rivalutazione che, a partire dagli anni Venti, molti studiosi e critici avevano espresso a proposito della pittura di artisti quali Cremona, oltre che Fattori, Carnovali, Medardo Rosso, Gola, Previati e Mancini. Quasi che questi pittori rappresentassero un “impressionismo italiano” foriero della moderna pittura nazionale. “La vera grande arte dell’Ottocento è rivoluzionaria anche in Italia” scriveva Margherita Sarfatti. Gli autori che si schierarono su questo fronte furono, oltre al già citato Giolli, Ugo Ojetti, Enrico Somarè, il pittore Arturo Tosi, il figlio Franco e Giorgio Nicodemi. Le recensioni positive che Rietti ottiene in “La Sera”, “Il Popolo d’Italia” e “Corriere della Sera”, rientrano appunto nel novero di quel recupero tardivo della critica relativo alla tradizione lombarda.

 

 

 

 

Rietti, Ritratto femminile, 1920.

 

 

 

 

Rietti, Ritratto femminile, 1930.

 

 

 

Tuttavia Arturo Rietti con il rifiuto delle avanguardie e con l’incompatibilità che dimostrava, apertis verbis, nei confronti del regime non solo non seppe avvantaggiarsi di tale attitudine della critica, ma scelse di rientrare tra coloro i quali non fecero compromessi.

 

 

 

 

 

Note:

 

1 M. Lorber, Arturo Rietti, Fondazione CRTrieste, Trieste 2008 (con bibliografia precedente).

 

2 G. Macchi, L'Arte a Brera, II, in “La Lombardia”, Milano 8 luglio 1891, pubblicato in C. Sisi, 1861-1899: gli anni delle Esposizioni, in Ottocento da Canova al Quarto Stato, catalogo della mostra a cura di M. V. Marini Clarelli, F. Mazzocca, C. Sisi, Milano 2008, p. 67

 

3 C. Sisi, 1861-1899: gli anni delle Esposizioni, in Ottocento da Canova al Quarto Stato, catalogo della mostra a cura di M. V. Marini Clarelli, F. Mazzocca, C. Sisi, Milano 2008, p. 67

 

4 L. Hevesi, in “Wiener Fremdenblatt”, 5 aprile 1903, pubblicato in M. Lorber,  Arturo Rietti, Fondazione CRTrieste, Trieste 2008, p. 29

 

5 R. Giolli, Arturo Rietti, in Mostra Individuale dei pittori Antonio Mancini Arturo Rietti, Milano, galleria Pesaro, Milano, febbraio 1925, p.45

 

6 R. Giolli, Arturo Rietti, in Mostra Individuale dei pittori Antonio Mancini Arturo Rietti, Milano, galleria Pesaro, Milano,