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Alberto Viani e la necessità della fotografia
Nico Stringa
«… l’interpretazione fotografica, cioè l’atto critico più importante»
Cosa chiedeva Alberto Viani alla fotografia, cosa esigeva? E cosa poteva dare invece la fotografia alle sue sculture, che esse già non avessero? Guardando e riguardando gli scatti che lo scultore ha fatto eseguire alle sue opere, e rileggendo le sue lettere in alcune delle quali è esplicita l’insoddisfazione per i risultati ottenuti da continui e iterati tentativi, si delinea tutta l’importanza che l’artista assegnava alla questione. Com’è noto, Viani non è stato certo il primo scultore a interessarsi sistematicamente del problema connesso alla lettura visiva di un’opera tridimensionale. È con l’invenzione della fotografia che si rende possibile una nuova lettura degli infiniti punti di vista offerti dalla scultura a tutto tondo, arricchendone le possibilità di trascrizione che l’incisione aveva reso possibile ma in numero limitato. Il repertorio di immagini che il più grande divulgatore della propria opera scultorea, in età prefotografica, ha fatto predisporre – Antonio Canova – mette in evidenza che il notevole lavoro necessario alla trasposizione grafica ne riduceva la fissazione a pochi punti di vista, privilegiando il recto e il verso. Riducendo al minimo la complessità spaziale del barocco, la poetica neoclassica invita a privilegiare il punto di vista frontale e l’armonia del modellato, pervenendo alla essenzialità estrema delle incisioni al tratto, priva di chiaroscuro. Il virtuosismo, invece, della stagione romantica prima e di quella eclettica poi nel secondo Ottocento, fino all’imporsi del michelangiolismo di Rodin, ha messo alla prova le possibilità del medium fotografico e nel contempo ha favorito lo spostamento dell’attenzione dal globale al parziale, accentuando da un lato le possibilità metonimiche del colpo d’occhio, dall’altro documentando una complessità che lo sguardo fotografico suggerisce, anche se non sempre è in grado poi di cogliere e di fissare. Non so fino a che punto Viani fosse al corrente dell’impegno che uno scultore come Medardo Rosso aveva profuso, durante la seconda, lunga stagione italiana (e anche veneziana) dai primi del ’900 fino alla morte (1928), sul problema scultura-fotografia. È ben noto che, avendo di fatto cessato di operare come scultore agli inizi del ’900, Rosso si era dedicato con impegno e perfino con ostinazione a fotografare le sue opere, testimoniando non tanto una passione, quanto una volontà di poetica, consistente nel rendere visibile l’inafferrabile «durata», se non la specifica «aura» che la sua opera scultorea si era incaricata di esprimere. La relazione tra scultura e fotografia si intona, a partire dall’esempio di Medardo Rosso e di altri protagonisti come Brancusi, nella chiave dell’inafferrabile; e quindi nella tensione di una indagine inesauribile che mai potrà far quadrare la forma complessa della tridimensionalità nella superficie bidimensionale del foglio di carta. Proprio questo «limite» strutturale diventa il motore della ricerca che Rosso ha impresso alla sua «opera», intesa appunto come dialettica infinita tra corpo e immagine1. Diversa la situazione di altri scultori; e, per indicare un ambito sicuramente ben noto a Viani, si pensi al caso di Arturo Martini, il quale ha dimostrato una certa indifferenza rispetto alla diffusione di foto delle sue opere, se non addirittura una sostanziale sfiducia nelle possibilità del mezzo, e per motivi diversi. In un momento storico in cui la rarità delle riprese a colori non aveva ancora reso possibile l’apprezzamento compiuto delle terrecotte, Martini sembra aver rinunciato per molti anni a qualsiasi velleità di rendere l’inafferrabile «poesia» di tante sue opere, lasciando alla fotografia il compito di fornire alcuni elementi informativi; un compito «di servizio», antecedente a qualsiasi questione di merito. Eppure, proprio a Martini è capitato di poter sperimentare il senso e il peso del linguaggio fotografico quando la sua scultura più difficile da afferrare, Donna che nuota sott’acqua, è stata fatta oggetto di una vera e propria campagna fotografica che ha portato ad un unicum nei libri d’artista; voluto da Roberto Nonveiller, il vulcanico curatore della «Piccola Galleria», il libro dedicato al marmo martiniano (Una scultura di Arturo Martini. Donna che nuota sott’acqua Venezia 1944) ha aperto una nuova strada nella storia della scultura fotografata. Con questa vicenda, che non ha eguali nel libro illustrato d’arte dell’epoca, Martini ha toccato il culmine della complessità, situando la sua ricerca al polo opposto di quella «indifferenza» che aveva caratterizzato il suo comportamento fino a quel momento2. Siamo nel 1944, la fase storica di massima vicinanza tra Martini e Viani; proprio mentre si sta predisponendo quel libro, Martini ha chiamato Viani a fargli da assistente all’Accademia di Belle Arti di Venezia e scrive una presentazione alla mostra personale, sempre alla Piccola Galleria, del suo assistente; quel libro non può non aver colpito in profondo anche il giovane scultore, che di fatto assegnerà sempre maggiore importanza alle riproduzioni fotografiche delle sue opere. Ma se in Martini l’interpretazione fotografica si qualifica come evento eccezionale, non privo di rischi, relativo ad un’opera da lui stesso più e più volte definita come eccezionale, al contrario la posizione di Viani è di estrema fiducia nella fotografabilità delle sue opere, anche se, come si deduce dalle lettere, altrettanto estrema è la sua incontentabilità sui risultati che vengono raggiunti. Al suo aperto ottimismo in materia, corrisponde poi una altrettanto grande severità nel giudizio. Ma quali siano i criteri di giudizio che egli mette in campo, non è esplicitato. Per un artista come Viani che ha sempre limitato al minimo gli spostamenti e i viaggi (nessun viaggio all’estero, Carrara, Firenze, Milano e Roma le località più lontane da Venezia da lui visitate) la conoscenza del patrimonio antico e moderno della scultura è avvenuta per il tramite prevalente della riproduzione fotografica. È ben nota la assidua, febbrile ricerca di libri, consultati all’ASAC o acquistati, anche in comproprietà, assieme ad altri amici artisti. La conoscenza diretta, prevalentemente avvenuta alle Biennali di Venezia, ha mano a mano integrato l’enorme bagaglio visivo accumulato negli anni dall’artista. Molteplici riferimenti nelle lettere a Meneghelli, in questo senso, attestano l’insistenza sul fatto che ogni innovazione viene fatta scaturire da tutto il lavoro precedente che viene portato avanti, e in profondità, con lentezza e determinazione: «Tutta la mia opera – scrive l’artista in data 14 settembre 1953 a Meneghelli – è un continuo ripensamento di pochi temi iniziali che da anni mi occupano e che l’esperienza svolge e nutre lentamente»3. A questo punto diventava determinante una lettura delle sue opere che mettesse in risalto la relazione dialettica tra continuità e innovazione, tra basso continuo e contrappunto. La predilezione per i gessi presi nella loro singolarità e anche l’interesse per le foto d’insieme (opere nello studio e allestimenti) fanno pensare a un invito alla lettura complessiva, dalla quale potesse emergere sia il senso di continuità delle sculture nel loro complesso, sia la questione di principio della perfezione della forma all’interno della singola opera. Questo forse è il punto che a Viani maggiormente interessa, dal momento che egli per anni e anni si è concentrato nella lavorazione dei gessi, opere al bianco, dotate, anzi con Bettini, «impastate di luce propria», esiti di «bianchezza a tre dimensioni»4. Si può pensare perciò che Viani mirasse a sondare la soglia tra luce esterna e luce dell’opera e fosse particolarmente interessato a verificare la tenuta delle sue sculture intese come solidificazioni di luce, espansioni foto-grafiche.
Gli scatti di proprie sculture che Viani ha fatto eseguire si possono suddividere in cinque gruppi: 1 – foto estemporanee, come quella del Torso in esterno qui resa nota (Fig. 1), forse una delle rare dovute a Viani stesso 2 – foto «segnaletiche» (recto e verso); sono gli scatti che in modo più oggettivo possibile attestano la esistenza di un qualcosa di nuovo, che prima non c’era, e di cui l’artista vuole avere documentazione e di cui va informato il «lettore» (per primo il critico d’arte, ma anche un probabile acquirente e/o comunque un collezionista) 3 – allestimenti di mostre: qui, oltre all’aspetto documentario entra in causa anche l’interpretazione che il responsabile dell’allestimento (l’artista stesso o nel caso di Viani, Carlo Scarpa) ha proposto. Siamo cioè di fronte a una lettura delle opere che va possibilmente fissata in immagine sia perché l’ambientazione e la collocazione hanno il marchio del «curatore», hanno cioè il carattere di una prima interpretazione di un insieme di opere messe in relazione tra di loro, sia perché l’evento ha carattere effimero, ha una durata destinata a cessare 4 – l’artista al lavoro: Viani non ha affatto disdegnato di farsi ritrarre al lavoro, e proprio nelle diverse fasi; sia quella preliminare riservata alla preparazione degli scheletri in filo di ferro, sia quella finale dedicata alla rifinitura. Inoltre egli si è fatto fotografare spesso, a lavoro ultimato, tra i gessi dello studio, non disdegnando che comparissero gli attrezzi di lavoro e le infrastrutture dell’atelier 5 – le interpretazioni; più complessa è la valutazione delle foto dedicate alle singole sculture o alle sculture diverse nel loro insieme. Stando a quanto apprendiamo dalle lettere, Viani non ha mai pensato di scattare personalmente le foto alle sue sculture, ma ha sempre deciso di affidarsi a fotografi professionisti che non sempre lo hanno accontentato. Comunque, dopo esperienze diverse, affidate a volte anche alla nipote, l’artista visiva Sara Campesan, Viani è tornato ad affidarsi a specialisti. Non è ancora chiaro quanti fossero i collaboratori della Interfoto; certamente vi figuravano, saltuariamente Ferruccio Leiss e più stabilmente Claudio Gallo. Al primo, fondatore della «Bussola» milanese e padre putativo della «Gondola» veneziana, abbiamo visto si deve in gran parte il capolavoro del 1944 su Martini (non ancora identificate tutte le sue foto alle sculture di Viani); al secondo, conoscente se non amico personale di Viani spettano probabilmente le foto (come quella qui resa nota) scattate nello studio dei Carmini. A questo settore appartengono le interpretazioni di Ugo Mulas relative alla Biennale del 1958 e allo studio dell’artista all’Accademia di Belle Arti del 1966 e alla Biennale dello stesso anno e pubblicate anche in Alberto Viani, catalogo della mostra a cura di Riccardo Caldura, Mestre 1998, Galleria d’Arte Contemporaneo e Villa Ceresa p. 77 e sgg. Penso che nella lettera all’amico «lontano» da cui abbiamo estrapolato il titolo di questo contributo, facendo riferimento alla collezione più consistente di un privato, da parte di un amico come Meneghelli, Viani pensasse all’insieme di quelle opere come un fatto assai significativo e che fotografare quella collezione significasse perciò non solo ricostruire un percorso e renderlo riconoscibile ma soprattutto indicarne gli elementi di continuità e di coerenza. Una vera e propria strategia, al punto che sembra di leggere quasi un lieve rimprovero nel constatare che uno come Meneghelli, privo di problemi economici, non avesse ancora pensato a quel «lavoro»; ma chi poteva, chi era in grado di farlo? Più ancora di altri scultori, Viani chiedeva alla fotografia un’idea della scultura, e forse addirittura l’idea stessa di scultura – che nessuna opera, singolarmente, può fornire e che rischia di essere distratta, se non distrutta o comunque distorta, nella/dalla sequenza diacronica del corpus di un artista. Forse Viani chiedeva alla foto l’analogon di quanto aveva fatto Bettini, e dunque: la photo-graphia come equivalente del graphein del logos. Una esigenza tanto più urgente e necessaria, se egli stesso considerava la sua opera all’interno, e anzi ai bordi di quella epoca del Logos, un’epoca che (si legge nelle lettere a Meneghelli) poteva considerarsi conclusa, avviata al tramonto. Ma, discutendone con Bettini, come faceva spesso, Viani, uomo del dubbio e della riflessione, si sarà chiesto per primo: si può fotografare una «metafora»?
Le foto che si pubblicano qui, appartengono alla prima, alla terza e alla quarta categoria. A parte il Torso (Fig. 1) di cui si è detto, i due gessi intitolati Nudo (Fig. 2, 3) sono stati fotografati, molto probabilmente da Claudio Gallo (per conto di Interfoto di Venezia), in occasione della mostra personale di Viani presso la «Piccola Galleria» di Venezia, gestita da Roberto Nonveiller e dalla moglie Vittorina Vianello. Rispetto ad altri scatti già noti, questi presentano un’immagine con ripresa ravvicinata, tale da mandare in secondo piano il contesto allestitivo e invece tale da invitare a una lettura attenta e personalizzata dell’opera. Siamo nell’agosto del 1944 quando Viani si decide a rendere note le sue ricerche sul «torso», un ciclo di sculture nuove per l’ambiente artistico veneziano e non solo veneziano; il modellato leggermente increspato della superficie, che in seguito verrà del tutto superato a favore di una canoviana ricerca di assoluto, risalta sulla forma volutamente «impoverita», depotenziata dei caratteri espressivi che ancora erano presenti nel Torso di lottatore che Martini aveva esposto alla Biennale di Venezia del 19426 La foto del Nudo (Fig. 4) riveste un interesse particolare trattandosi del gesso esposto alla mostra dell’Arco a Venezia nel 1946, distrutto in seguito dall’artista. Anche in questo, come in altri casi, il bianco del gesso risalta in quanto potenziale di luce propria, che la fotografia dovrebbe essere in grado di valorizzare. La foto n. 5 risale invece al 1947-48 ed è stata realizzata nello studio che l’artista aveva allora, dopo l’allontanamento dall’Accademia, presso l’Istituto d’Arte ai Carmini dove il direttore, l’architetto e pittore Giorgio Wenter Marini, gli aveva messo a disposizione uno spazio che Viani utilizzò per molti anni. In questo caso possiamo prendere conoscenza di tre elementi fondamentali: lo studio dell’artista, le opere ultimate e raggruppate in modo da essere viste nel loro insieme, lo scultore in un momento di riposo, seduto nel mezzo della «scena» mentre si accende una sigaretta. Viani aveva ultimato alcune sculture che avrebbe esposto alla XXIV Biennale nella sala del Fronte Nuovo delle Arti, a cura di Giuseppe Marchiori. Si tratta, da sinistra a destra, di Nudo idolo, Torso e Nudo idolo, opere nuove, rispetto alle sculture presentate tre anni prima alla «Piccola Galleria» e in parte anche rispetto a quelle esposte in occasioni più recenti. Se nella foto precedente non era facile arguire le dimensioni della scultura, ora invece la presenza dell’artista e di altri particolari della stanza consente di captare con cognizione adeguata la grandezza, la massa, la corposità e la stessa coerenza delle opere. Non solo, ma le sculture, ora surreali, di Viani acquistano un senso tutto particolare proprio in rapporto alla presenza umana, e in modo speciale se ad essere presente è l’artista stesso che viene colto nel momento di pausa e di riflessione.
Alberto Viani, Lettere da lontano. Vita, progetti, pensieri nell’amicizia tra uno scultore famoso e un suo collezionista, a cura di Eva Viani, Venezia 1996, p. 146: «alla ‘Collezione Meneghelli’ manca l’interpretazione fotografica, cioè l’atto critico più importante» (lettera a Vittorino Meneghelli del 4 ottobre 1972).
NOTE
1 Sulla questione in generale si rinvia a: Scultura e fotografia, questioni di luce, a cura di Maria Grazia Messina, Firenze 2001; Medardo Rosso, catalogo della mostra a cura di Luciano Caramel, MART, Rovereto, 2004; Paola Mola, Rosso. Trasferimenti, Milano 2007. Per Viani si veda di Michela Agazzi, 1946, Alberto Viani e Sergio Bettini. Scultura e fotografia, in Fotologie. Scritti in onore di Italo Zannier, a cura di Nico Stringa, Padova 2006 pp. 31-34 e tavv. p. 374 e p. 375. 2 Martini non ha avuto modo di vedere pubblicate a colori le sue grandi terrecotte; rigorosamente in bianco e nero le monografie dedicate al suo lavoro negli anni ’30 e ’40, così come gli apparati illustrativi dei cataloghi di Biennale e Quadriennale; ancora nel 1967, il catalogo della grande mostra di Treviso curata da Bepi Mazzotti, era corredato esclusivamente di illustrazioni in bianco e nero. La prima monografia fornita di efficaci illustrazioni a colori, anche di grande formato (vere e proprie «tavole») è quella di Fortunato Bellonzi, Arturo Martini, Roma, che risale al 1974. Alcune considerazione sull’apporto che la fotografia può fornire alla questione della lettura dell’opera, Martini le ha espresse in collegamento con la questione della luce e dell’ombra, e della inevitabile, seppur temporanea «deformazione» che le ombre portate causano alla struttura e alla lettura della scultura stessa. Siamo nel momento in cui (1943-46) Martini sottopone la scultura alle scepsi più radicale, con la conseguenza che la questione della fotografia diventa uno dei tanti supporti al pensiero della crisi. Il passaggio più rilevante è stato chiamato in causa da Italo Zannier (presentazione a: Un obiettivo sulle Biennali internazionali di scultura. Città di Carrara 1957-1973. Immagini e documenti. Omaggio a Ilario Bessi, Carrara 1998 p. 11) e appartiene alla rielaborazione di temi già inclusi in La scultura lingua morta, Venezia 1945 e trattati anche nel corso dei Colloqui sulla scultura (1944-1945) raccolti da Gino Scarpa, a cura di Nico Stringa, Treviso 1997 (rist. 2006). Si tratta di affermazioni raccolte da Antonio Pinghelli nel 1946, da lui pubblicate postume sotto il titolo Il trucco di Michelangelo (1948) e raccolte in: Arturo Martini, La scultura lingua morta e altri scritti, a cura di Mario De Micheli, Milano 1983 p. 133-143. Dal momento che «l’inferiorità della scultura è data dalla impossibilità di fermare le luci e le ombre» Martini ne deduce una sostanziale «precarietà» dell’immagine. «Per ridurre al minimo questa precarietà, gli antichi scolpivano le opere sul posto. Oggi, siccome questa possibilità non esiste, lo scultore si illude di fermare l’espressione ricorrendo alla fotografia. Quindi chiunque avrà una macchina fotografica si sentirà autorizzato a nuove, casuali, offensive interpretazioni. La scultura, creduta fino ad oggi eterna, non è dunque che un personaggio effimero, della stessa importanza e mutevolezza d’un personaggio cinematografico. […] Tornando alla fotografia, essa può anche servire quale riprova che la statua di tutto tondo non esiste come verità. Poiché se ne fotografa quasi sempre la parte meglio riuscita, tale fatto può ricordarci la verità di certe statue egizie che non erano di tutto tondo, ma appiattite… Se per un aspetto la fotografia è un fatto spregiativo della statuaria, ciò non esclude che possa aiutarci ad uscire da questo mobile labirinto» (pp. 140-141). 3 Alberto Viani, Lettere da lontano. Vita, progetti, pensieri nell’amicizia tra uno scultore famoso e un suo collezionista, a cura di Eva Viani, Venezia 1996, p. 73; altre dichiarazioni analoghe a p. 80, 88 e passim. 4 Sergio Bettini, L’ultima metafora di Alberto Viani, Vicenza 1966, fotografie di Paolo Guolo, p. 9 e p. 10; anche Massimo Cacciari ha scritto, pensando ai gessi dell’artista che le opere di Viani «non sono che epifanie della luce, simboli luminosi. E valgono e stanno in quanto segno dell’apeiron della luce, del suo in-finito» in Alberto Viani, catalogo della mostra a cura di Riccardo Caldura, Mestre 1998 p. 5. 5 A proposito di questa prima fase dell’attività di Viani, si legga quanto scriveva Umbro Apollonio nel saggio pubblicato in «Magazine of Art» (New-York) del maggio 1952: «forme chiuse, appena svasate, con qualche incisione calligrafica, ancora prive di un fremito autentico» (cito dal dattiloscritto originale, Lo scultore Alberto Viani, alla prima pagina, che la traduzione in americano ha in parte modificato, come si può verificare dalla ristampa in Pier Carlo Santini, Alberto Viani, Milano 1990 p. 239).
P.S.: Nel testo corrente sono state omesse, per questioni tecniche, le immagini.
Alberto Viani e il suo tempo © Edizioni della Laguna
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