Nonostante la fotografia, dal greco photos (photos
- luce) e dal suffisso graphos (graphos
- scrivere), abbia fatto la sua comparsa solo a partire dal 1839, le
origini del “procedimento di riproduzione delle immagini” sono più
lontane e si basano oltre che sulla sensibilità che alcune sostanze
sviluppano alla luce, sugli studi dei fenomeni ottici (camera
oscura) già noti in modo teorico ad Aristotele, all’astronomo arabo
Alhazen, a Ruggero Bacone e a Leonardo da Vinci che in uno scritto
del 1490 riporta: “quando le immagini di oggetti illuminati entrano
attraverso un forellino circolare in una camera oscura molto buia,
se la ricevi su un foglio di carta bianca posto verticalmente nella
camera ad una certa distanza dall’apertura, vedrai sulla carta
stessa tutti quegli oggetti nelle loro forme e colori originali ma
ridotti di dimensione e capovolti. E questo a causa
dell’intersezione dei raggi a livello del forellino […]”1.
Ormai da tempo la fotografia è così intimamente connessa alla nostra
identità culturale che lo scrittore e pittore Alberto Savinio2
nel definire questo mezzo e strumento di comunicazione, ancora
sconosciuto o ritenuto un tabù per molte popolazioni primitive ma
“fatale” per la civiltà occidentalizzata, è giunto a ritenere che:
“L’invenzione della fotografia, segna un punto di trasformazione
nella storia dell’umanità, supera per certi riguardi la conquista di
Costantinopoli, la scoperta dell’America, altre chiavi di volta
della storia”3.
A sua volta D. Mormorio nel suo libro Un’altra lontananza-
L’Occidente e il rifugio della fotografia, riprendendo questo
concetto spiega come “l’invenzione dell’immagine fotografica
sintetizzi meglio di ogni altra cosa il senso e il cammino della
cultura occidentale… in quanto noi fondiamo una parte fondamentale
della nostra cultura e del nostro sapere sulle fotografie… E’
qualcosa da cui non possiamo separarci, tanto che, se
improvvisamente dovessimo fare a meno del mezzo fotografico e delle
fotografie che abbiamo accumulato, vivremmo una sorta di naufragio:
di perdita della memoria”
4.
Nel corso degli anni il concetto di “fotografia” ha creato nella
critica, due opposti schieramenti tra coloro i quali la ritenevano
solamente il risultato di un procedimento ottico, meccanico e
chimico e quindi la relegavano ad un semplice oggetto decorativo, un
mezzo con il quale la natura provvedeva con i suoi stessi mezzi
(luce del sole) a riprodurre se stessa, e coloro i quali la
ritenevano uno strumento in grado di documentare non solo in modo
obiettivo, oggettivo avvenimenti e beni, ma anche il mezzo per
riuscire a preservare dal degrado del tempo o dalla mano
distruttrice dell’uomo, almeno l’immagine di monumenti, edifici,
stampe, manoscritti e ogni opera d’arte. A questo proposito, C.
Baudelaire affermava nella sua invettiva pronunciata al Salon
parigino del 1859: “Bisogna che (la fotografia) salvi dall’oblio le
rovine pericolanti, i libri, le stampe e i manoscritti che il tempo
divora, le cose preziose la cui forma va scomparendo e che esigono
un posto negli archivi della memoria”5.
Accanto al riconoscimento della sua funzione documentaria il
dibattito interno alla fotografia toccava, sin dall’inizio, anche le
diverse questioni connesse ai suoi rapporti con le arti del disegno,
non solo dal punto di vista produttivo, ma anche e specialmente per
quanto riguardava il valore estetico e artistico che era possibile
assegnare alle nuove immagini
6.
In un articolo7
apparso il 6 gennaio 1839 sul quotidiano “Gazette de France” si
leggeva infatti “Annunciamo un’importante scoperta del nostro famoso
pittore del Diorama, M. Daguerre. La scoperta ha del prodigioso:
sconvolge tutte le teorie scientifiche della luce e dell’ottica, e
rivoluzionerà l’arte del disegno […] il disegnatore e il pittore non
disperino, i risultati di Daguerre sono qualcosa di diverso dalla
loro opera e in molti casi non possono sostituirla. Se dovessi
pensare a qualcosa che somigli agli effetti prodotti dal nuovo
procedimento, direi che assomigliano alle incisioni su rame o alle
acquatinte […]”8.
Dietro alla distinzione tra fotografia intesa quale “verità poetica,
non dissimile dalla verità soggettiva degli autori di tutte le arti”
e fotografia quale “specchio fedele delle cose”9
si celava, già a partire dalle origini quella, per noi qui più
interessante, tra “fotografia artistica” e “fotografia d’arte”, ciò
intesa quale mezzo di riproduzione tendenzialmente oggettivo e
imparziale adoperabile nella ripresa di monumenti e di opere d’arte
in genere, ruolo sottolineato anche nel 1859 da Pietro Selvatico
Estense10
che nei suoi Scritti d’arte aveva annotato: “il beneficio maggiore
che la fotografia porterà all’arte, quello sarà (e già comincia) di
rendere inutili i tanti riproduttori materiali della natura, vale a
dire i fabbricatori di vedutine e di ritrattini. Così essa verrà
risparmiando alla società una miriade di mediocri che l’assediavano;
e rialzerà nel concetto di questa, l’arte propriamente tale, l’arte
cioè che si giova della verità per manifestare un’idea grande, e
s’innalza a quella poesia di concetti ch’è seggio del vero artista,
non del servile imitatore della natura […] La fotografia potrà
fornire le esatte apparenze della forma, ma non sprigionare
dall’intelletto l’idea; deve ogni paura esser quieta, che non verrà
danno nessuno all’arte vera e grande per tale mirabile invenzione,
anzi invece soccorso grandissimo”11.
Da questa cultura, dalla originaria fiducia incondizionata sulle
possibilità descrittive e analitiche dell’immagine fotografica,
nacque l’idea degli “archivi fotografici documentari” oggetto della
prima parte di questo studio.
La presa di coscienza sull’ineluttabilità circa la costituzione
degli “archivi fotografici”, si avverte ancor di più nei primi
decenni del Novecento quando si percepisce la “ necessità di
conservare in qualche modo una memoria sicura dei tesori che una
sventura improvvisa ci può per sempre rapire”12.
Il timore avvertito dallo storico dell’arte Pietro Toesca13
nel 1904, quasi come se fosse un “pensiero profetico”, si
concretizzerà con il tragico incendio14
che colpì la Biblioteca nazionale di Torino la notte del 25 e 26
gennaio del 1904, e il terremoto che colpirà Messina e Reggio
Calabria15
il 28 dicembre del 1908.
Lo stesso Toesca, a proposito dell’incendio alla biblioteca
torinese, si interrogherà: “ma come e perché nelle Biblioteche non
si fa largo uso della fotografia per riprodurre quanto vi è di più
prezioso? Per quale ragione i tesori librari di una biblioteca non
possono essere riprodotti per mezzo dei processi fotografici in modo
da rendere possibile a tutte le altre biblioteche del Regno di avere
una fedele riproduzione di essi?”16.
È evidente quindi che in questo periodo la documentazione
fotografica, oltre ad affermarsi come mezzo indispensabile per la
salvaguardia documentaria del patrimonio artistico italiano, si
riallaccia a quelle proposte avviate già a partire dalla fine
dell’Ottocento e che ora risentono di un’ulteriore esigenza circa il
metodo classificatorio e inventariale, questione che si protrarrà
nel tempo prima di giungere alla formulazione di una normativa
nazionale uniforme, ma che aveva trovato applicazione in ambienti
anche lontani da quello della tutela del patrimonio artistico e
architettonico; si pensi alla scelta metodologica comprovata dalle
tavole de L’uomo delinquente realizzato nel 1876 dallo psichiatra
Cesare Lombroso17,
dove si riconoscevano i criminali ripartiti in categorie a seconda
del reato commesso e ordinati in un elenco alfabetico con acclusa
biografia.
Ripercorrendo gli avvicendamenti che hanno portato alla costituzione
delle moderne raccolte fotografiche, è doveroso partire dal fatidico
1839 e cioè dallo stesso anno in cui veniva pubblicato l’articolo
sul quotidiano “Gazette de France”, quando Jean Vatout, presidente
della commissione francese dei “Monuments Historiques”, si affidava
alla fotografia per creare la collezione “des plans et des dessins”
dei monumenti francesi, conferendo a questo strumento “un ruolo di
documentazione indiretta ma già precisamente orientato in senso
archivistico” 18.
Successivamente, nel 1893 Léon Vidal e Fleury-Hermagis danno vita al
“Musée des Photographies Documentaires” e nel 1894 Jerome Harrison
propone la realizzazione di musei fotografici da costituirsi in
tutto il mondo.
Il suggerimento è accolto in Svizzera da E. Demole, che a Ginevra
nel 1900 darà origine al “Museo Svizzero di Fotografie Documentarie”
e in Inghilterra dove Benjamin Stone, nello stesso anno, formerà nel
British Museum una collezione di stampe fotografiche aventi come
soggetto quegli edifici e luoghi altrimenti destinati a scomparire.
In Italia nel 1892 all’interno del Ministero della pubblica
istruzione, venne fondato un “Ufficio fotografico” con annesso
archivio pubblico e centro di attività produttiva dei materiali
fotografici.
Questo “Ufficio” in seguito divenuto Gabinetto Nazionale
Fotografico, fu fondato dall’ing. Giovanni Gargiolli che fino a quel
momento aveva diretto il laboratorio di fotoincisione presso la
Regia Calcografia.
L’intento di tale istituzione era riprodurre e documentare quei beni
dell’arte italiana ritenuti degni di nota per poter avviare quel
processo di conoscenza, divulgazione e fruizione del patrimonio
storico artistico in una veste del tutto nuova: corredato di
immagini a stampa.
In realtà prima dell’avvento della fotografia, più rapida,
economica, soprattutto più oggettiva, l’incisione aveva ricoperto un
ruolo fondamentale in quel processo di diffusione della cognizione
del patrimonio artistico.
L’ufficio calcografico, voluto da Clemente XII Corsini già nel 1738
aveva, infatti, come compito principale quello di “conservare le
opere più segnalate degli antichi artefici, incise specialmente in
rami, quali tanto conferiscono a promuovere la magnificenza e lo
splendore di Roma appresso le nazioni straniere”19.
Inevitabilmente l’affermazione della fotografia determinò una crisi
all’interno di questo settore che dovette aggiornarsi e sperimentare
la tecnica della fotoincisione, già nota in Europa e in particolare
in Germania a partire dalla metà dell’Ottocento. Nel 1880 il
colonnello Botto dell’Istituto Geografico Militare di Firenze,
rendendo noti i risultati ottenuti nella pubblicazione della Grande
Carta d’Italia, grazie all’ausilio della fotoincisione aggiungeva:
“medesimo (procedimento) si potrebbe con grande vantaggio utilizzare
per riprodurre e stampare economicamente i disegni artistici di
qualunque genere, cominciando dalle antiche incisioni, dalle quali
non si hanno più i rami, e dai disegni dei grandi, di cui si hanno
ricche ed interessanti raccolte presso le Accademie e le biblioteche
d’Italia”20.
L’incarico per intraprendere l’ammodernamento dell’Istituto fu
assegnato a Giovanni Gargiolli che realizzò presso la Regia
Calcografia il primo laboratorio di fotoincisione, scontrandosi
inizialmente con l’ambiente degli incisori che, legati ai
procedimenti tradizionali non era pronto ad accogliere il nuovo
procedimento “meccanico” introdotto dalla fotografia.
Abbandonato l’Ufficio Calcografico, Gargiolli si occupo'
dell’istituzione dell’Ufficio Fotografico del Ministero della
Pubblica Istituzione che incorporò tra i suoi compiti “la
riproduzione delle opere d’arte del passato per fini di
documentazione e di studio”21,
divenendo agli inizi del Novecento Gabinetto Fotografico Nazionale.
Lo scopo del nuovo istituto era quello di riprodurre “il materiale
artistico immobile e mobile esistente nel Regno d’Italia e nelle
colonie, e di prendere in consegna il materiale fotografico
necessario per la catalogazione”22
e per raggiungere tale scopo, nel 1893 con un Regio Decreto molto
criticato, si impose ai fotografi di consegnare al Ministero della
pubblica istruzione copie positive e negative delle stampe
fotografiche che ritraevano opere d’arte, al fine di collaborare
nella costituzione del “catalogo generale dei monumenti e degli
oggetti d’arte del Regno”23,
catalogo che non fu mai realizzato in questa forma per la forte
opposizione degli stessi fotografi e dei loro rappresentanti
politici.
Pietro Toesca commentando la nascita dell’Ufficio fotografico in un
articolo pubblicato nel 1904 sulla rivista “Arte”, elogiava i
vantaggi che avrebbe indotto questa pubblica istituzione rispetto
alle contemporanee raccolte private degli Alinari, Brogi, Anderson,
Lombardi, Danesi, che si preoccupavano principalmente del risvolto
commerciale della documentazione fotografica.
A Firenze nel 1852, alla soglia dell’età del collodio Leopoldo,
Giuseppe e Romualdo Alinari24,
fondarono quello che oggi è ritenuto il più antico archivio
fotografico del mondo la: “Fratelli Alinari”.
A 150 anni dalla fondazione, all’interno del suddetto archivio si
conservano circa 780 mila “vintage print” cioè stampe originali, due
milioni di negativi su lastra e pellicola e 720 mila stampe
fotografiche di varie epoche dedicate all’arte, al paesaggio, al
costume e alla storia d’Italia e d’Europa dall’Ottocento ad oggi.
Fondatore di questa ditta fu Leopoldo che affascinato dai primi
dagherrotipi dopo una breve esperienza presso il calcografo Luigi
Bardi, si era dedicato alla nuova arte coinvolgendo i fratelli
Romualdo e Giuseppe. La maestria dei fratelli Alinari fu subito
apprezzata in ambito parigino tanto da meritare la segnalazione
critica del foglio «La Lumière», e la pubblicazione di alcune foto
nel volume francese Italie Monumentale25
di Eugène Piot.
Nel 1899 Camillo Boito, Giuseppe Fumagalli, Gaetano Moretti e
Corrado Ricci, prendendo spunto dall’istituzione dell’Ufficio
Fotografico del Ministero della Pubblica Istruzione, annunciano il
loro proposito di costituire una raccolta di fotografie presso la
Pinacoteca di Brera, iniziativa che incontrò il rifiuto di Fiorilli
allora direttore generale per le Antichità e Belle Arti di Roma.
Data l’importanza di questa iniziativa è opportuno riportarne per
intero il testo che da solo basta a chiarire l’intento dei quattro
promotori:
“L’invenzione della fotografia e dei mezzi affini di riproduzione
chimica ha giovato fortemente agli studiosi ed ai critici d’arte, ed
ha procurato il maggior sviluppo alla tipografia fornendo i mezzi di
facilmente e splendidamente illustrare opere e riviste artistiche,
storiche e scientifiche.
Ma se quella grande invenzione è stata ed è in mille guise dai
singoli istituti o dai privati utilizzata ed applicata, non vediamo
però che nessuno abbia ancora pensato a una raccolta pubblica, dove
i prodotti d’essa si trovino in numero cospicuo e con ordine
disposti.
I vantaggi che s’avrebbero da questa specie d’archivio fotografico
sono evidenti. Ognuno potrebbe ricercarvi molti dei documenti
grafici che gli abbisognano pei suoi studi; non solo gli sprovvisti
dei mezzi vi troverebbero un giusto aiuto; ma tutti indistintamente,
ricchi e poveri, dalla quantità del materiale raccolto e dalla
regolare disposizione d’esso, sarebbero grandemente facilitati nel
loro lavoro.
In tale deposito si raccoglierebbero, nel maggior numero possibile,
fotografie di opere d’arte, di luoghi, d’avvenimenti, di persone
ragguardevoli in ogni campo dello scibile; perché l’archeologo, il
critico e l’artista, che compiono uno studio o una ricerca sopra una
qualche opera o sopra un pittore, uno scultore, ecc. vi trovassero
in gran parte riunito ciò che amano di conoscere; perché gli
architetti, vi avessero esempi di costruzione; i geografi, vedute di
paesi; gli storici, una larga provvisione iconografica; gli
artigiani, in genere, i saggi migliori di quanto è stato fatto o si
fa nel loro mestiere; gli editori, infine, vi trovassero grandemente
agevolato il loro compito per opere e rassegne illustrate.
Chi oggi conosce la fatica dei molti dilettanti che si sono spinti a
riprodurre cose interessanti, in luoghi difficili e con viaggi
costosi? A chi servono le fotografie, che uno scrittore con grandi
spese ha raccolto per qualche sua opera, poiché egli se n’è giovato?
Chi trova le riproduzioni di molte opere private? Dove va il grande
materiale fotografico che serve ai giornali illustrati? Chi vede le
fotografie depositate per legge ne’ musei, nelle pinacoteche, negli
uffici regionali dei monumenti?
Ora noi ci chiediamo: perché non istruire un grande "ricetto
fotografico", dove un materiale vantaggioso tanto agli artisti
quanto ai dotti, trovi una sede pubblica e un ordinamento pratico,
co’ suoi cataloghi per autori e materie?
Né si creda che l’istituzione presenti grandi difficoltà. Essa
intanto può trovar sede nel Palazzo di Brera, presso alla
Pinacoteca, alla Biblioteca, all’Accademia di Belle Arti e
all’Ufficio Regionale per la Conservazione dei Monumenti della
Lombardia: ed avere il suo custode e il suo orario.
Contiamo anche negli Istituti che i sottoscritti dirigono possano
con l’approvazione del Ministero della Istruzione provvedere alle
spese necessarie degli scaffali, delle buste, degli oggetti di
cancelleria e di riscaldamento.
Ma per formare una prima raccolta di fotografie con le principali
collezioni e perché questa possa ampliarsi ricorriamo all’aiuto
della S. V. Ill.ma, aiuto di consiglio, d’oblazioni, di doni di
fotografie.
Chi ama gli studi e l’arte, chi ritiene equo favorire lo sviluppo
degli uni e dell’altra, crediamo che non possa disconoscere
l’importanza della cosa che proponiamo e perciò siamo pieni di
fiducia nel risultato d’essa ”26.
Ovviamente questa “fiducia” fu soltanto illusoria, ma il diniego di
Fiorilli, può essere ben compreso e giustificato, se lo si considera
nell’ambito di una politica nazionale che privilegiava una gestione
amministrativa centralizzata a scapito di ogni iniziativa avente
autonomia regionale27.
Tale scelta era dettata dalla fase di assestamento politico e
istituzionale che lo Stato unitario nel 1899, a soli trent’otto anni
dalla sua costituzione attraversava.
Il dibattito sull’organizzazione degli archivi fotografici, continua
nel 1900 in Francia con Alfred Liègard, segretario della Società
fotografica di Caen e sostenitore convinto della necessità
impellente di costituire archivi regionali al fine di preservare
quella memoria locale individuabile nelle fotografie detenute dalla
crescente massa di fotografi dilettanti. Al Congresso Fotografico
Internazionale di Parigi, egli propone la realizzazione di archivi
aventi delle norme uniformi di raccolta e conservazione, su “tutto
ciò che può interessare la storia di una regione”28.
Tale proposta accoglie in Italia l’entusiasmo di chi come lo
studioso francese, aveva intrapreso quella strada verso il
decentramento regionale, primo fra tutti lo studioso romano Giovanni
Santoponte, che nel 1905 riallacciandosi alla proposta del 1901 che
vedeva la realizzazione di un «Museo italiano di fotografie
documentarie» da istituirsi a Roma, dalle pagine del «Bullettino
della Società fotografica italiana» si soffermerà a chiarire la
differenza metodologica tra Museo fotografico, nel quale i
contemporanei dovevano trovare “materiali atti a confrontare una
ipotesi; a comprovare una teoria, un saggio; a corroborare una
descrizione”, e Archivio fotografico “che ha per oggetto di dare un
quadro fedele ed esatto dello stato presente di un popolo e
dell’ambiente in cui esso vive”29.
Santoponte riprenderà in merito al concetto di archivio, quanto
detto da Corrado Ricci nella circolare con la quale aveva presentato
nel 1904 la proposta per l’attuazione presso le Gallerie degli
Uffizi di un “Archivio Fotografico Italiano”.
Quest’ultimo, secondo i propositi di Ricci, doveva dare origine ad
una raccolta pubblica di fotografie disposte secondo dei criteri che
avrebbero agevolato la ricerca di ogni potenziale fruitore, concetto
già ribadito nel pubblico annuncio redatto in occasione della citata
proposta di una raccolta braidense.
Un grande apporto alla diffusione ideologica della raccolta
fotografica documentaria viene conferito dalla rivista “La
Fotografia Artistica”, pubblicata a Torino dal 1904 al 1917 e
diretta da Annibale Cominetti, che in quegli anni riservò ampio
spazio al dibattito metodologico, riguardante l’istituzione di
archivi, proposto Liegard ritenendolo come “più avanzato rispetto a
una più generale arretratezza italiana”30;
non è un caso se la pubblicazione di questa rivista avvenisse in
Piemonte, dove già come Stato preunitario e grazie anche all’operato
di Cavour, allora operante al Ministero delle finanze e alla
Presidenza del Consiglio, l’economia ebbe un forte impulso. In
questo periodo, infatti, si assistette allo sviluppo sociale
dell’alta borghesia, all’iniziativa privata in senso capitalistico e
in generale a quel progresso economico che si riverbererà nel mezzo
fotografico assunto come strumento di espressione e comunicazione da
parte della nuova classe dominante31.
Alla redazione della suddetta rivista torinese, partecipa anche lo
stesso Liegard che stilerà più di un articolo con l’intento di
palesare l’inestricabile connessione venutasi a creare in campo
fotografico tra arte e documento. Nei suoi scritti, oltre ad
analizzare l’opinione di quanti “negano alla fotografia ogni
possibilità di pretendere a una dimensione artistica” e quella di
chi sostiene che “il documento è la negazione dell’arte”32,
consacra il documento fotografico come mezzo indispensabile per
salvaguardare almeno con l’immagine la “memoria” storica di ogni
paese, al pari delle autentiche opere d’arte, e da qui definisce
l’urgenza di stabilire delle norme che disciplinino e uniformino la
riproduzione fotografica.
Contemporaneamente, all’interno di questo vivacissimo dibattito si
colloca l’esperienza di Brera che vede finalmente la sua formale
istituzione nel maggio del 1901, dopo aver ottenuto l’autorizzazione
ministeriale e lo stanziamento di un finanziamento.
Malgrado nel 1889 i direttori delle maggiori istituzioni culturali
di Milano e cioè Boito33,
Fumagalli34,
Ricci e Moretti
[35],
avessero incontrato – come si è detto - l’opposizione ministeriale
per la realizzazione del loro progetto, essi avevano caparbiamente
cominciato a raccogliere le fotografie donate dai sostenitori di
tale iniziativa, rappresentanti di una borghesia colta, amante dei
viaggi e della cultura artistica, capace di cogliere e “fissare”
mondi inesplorati, culture e architetture; nel 1901 queste già
formavano “una raccolta bene ordinata di circa quindicimila
fotografie d’oggetti d’arte e di monumenti d’Italia e dell’estero”[36]
Tra i sostenitori entusiasti di tale proposta vi fu l’architetto
Luca Beltrami
[37]
che il 16 novembre 1899 aveva commentato l’iniziativa con un
articolo sulla prima pagina del “Corriere della Sera”[38]
intitolato Per il maggiore incremento degli studi (a proposito
dell’archivio fotografico), seguito da un ulteriore commento in un
articolo successivo, in cui oltre a riportare il testo della
circolare firmata dai promotori della “Pubblica Raccolta
Fotografica” comparso nel novembre dello stesso anno sul “Corriere
Milanese”, si poteva leggere: “L’idea è veramente splendida, tempo
addietro qualcosa di simile fu ideato dal dottor Favari e il Touring
Club Italiano fece propria l’idea, bandendo un concorso
d’illustrazione fotografica dell’Italia nei suoi monumenti e nei
suoi costumi. Ora, coll’iniziativa del Boito, del Fumagalli, del
Moretti e del Ricci si viene a dare quasi un carattere ufficiale
alla raccolta fotografica: la fotografia viene cioè a ordinarsi fra
la biblioteca e la pinacoteca come documento di riproduzione storica
e pittorica, utile per i contemporanei, interessante per i posteri.
Noi plaudiamo all’utile iniziativa e aggiungeremo solo che le
lettere per schiarimenti e le fotografie dei volenterosi che
vogliono incoraggiare l’iniziativa, devono essere indirizzate alla
Pinacoteca di Brera a Milano”[39].
Principale artefice della pubblica raccolta fotografica della
Pinacoteca di Brera, da lui diretta sin dal 1898, fu Corrado Ricci
che iniziato fin da giovane dal padre Luigi Ricci alla tecnica
fotografica, maturerà nel tempo quell’idea di fotografia “come
strumento di riproduzione immediata e rigorosa del vero”, ma anche
come “necessario strumento iconografico di documentazione e
illustrazione”[40].
Nel saggio La fotografia e l’arte nella rappresentazione del vero,
pubblicato nel 1905 nel “Il Secolo XX” e che raccoglie la maggior
parte delle sue riflessioni, Ricci avvia un dibattito che partendo
dalla descrizione dei processi mentali e manuali che permettono ad
un artista di realizzare un’opera d’arte, giunge a riconoscere
grazie all’ausilio dell’asserzione di Seneca: “veritas in omnem sui
partem sempre eadem est”, l’intimo rapporto tra arte e “verità” indi
tra arte e fotografia.
E ancora nel 1906 sulle pagine dello stesso giornale ritornava a
riflettere sull’argomento: “la fotografia è di grande ausilio alla
storia e alla scienza; ma è anche di grande diletto per le bellezze
lontane che ci fa conoscere e perché ci mantien vivo e presente il
ricordo di ciò che una volta abbiamo ammirato nella realtà. […] la
scienza ha riconosciuto nella fotografia una delle maggiori qualità:
il rigore. Non forme alterate dal sentimento o dalla inesperienza
d’un disegnatore, ma la verità fredda e sicura…Deve quindi nascere
ora …il primo Archivio fotografico pubblico.”[41]
Nel 1904 aveva istituito il citato “Archivio Fotografico Italiano”
della Galleria degli Uffizi
[42]
che aveva visto la
collaborazione dei migliori fotografi soci della locale "Società
italiana di fotografia" come attesta una lettera di Carlo Brogi
[43]
inviata a Ricci il cinque novembre 1903:
“Non ho dimenticato l’appello che mi fece: pure l’Archivio
Fotografico deve formarsi qui, per la di Lei lodevole iniziativa. Ed
intanto rovistando nei fondi dello stabilimento, ho raccolto una
discreta messe che mando tutta, la quale salvo a Lei di scartare
tutto quanto non può interessare. Non mancherò di mandare un’altra
contribuzione appena mi sarà dato metterla insieme”[44].
Tutto ciò ci porta a riflettere sulla ricercatezza e sullo studio
che precedettero la costituzione dell’archivio fiorentino voluto
dallo stesso Ricci, ma anche sull’ “ampliamento” della pubblica
biblioteca che avrebbe dovuto inglobare accanto ai prodotti della
grafica anche quelli fotografici. Per Ricci come per Boito, tra
incisione e fotografia, non esiste discontinuità.
Boito aveva ricordato come la tutela delle opere d’arte potesse
concretizzarsi solo attraverso la conoscenza “visiva” delle stesse,
e qui il nuovo ausilio fornito dalla fotografia in quanto strumento
in grado di documentarle fedelmente e oggettivamente.
Nonostante la fotografia in questi anni si confermi come mezzo
oggettivo a cui viene assegnato il compito di “documentare”, in
ambito italiano non si segnalano realizzazioni concrete e tangibili
concernenti raccolte fotografiche documentarie, poiché ancora nel
1929, si riproponeva la costituzione di raccolte fotografiche
annesse alla biblioteche.
A tal proposito, quando nel 1924 venne creato l’Istituto Luce
(L’Unione Cinematografica Educativa) che acquisì archivi di cronaca,
fondi fotografici e assunse il controllo del Gabinetto Fotografico
del Ministero della Pubblica Istruzione, Carlo Bertelli disse: “Era
la grande occasione per costituire sia un inventario storico che un
inventario attuale dell’Italia. Quell’occasione andò completamente
perduta, come se il fascismo avesse timore di ciò che la fotografia
potesse rivelare”[45].
Bisognerà aspettare il secondo dopoguerra per scorgere un nuovo
interessamento e quindi la riorganizzazione degli archivi o la
realizzazione di altri, questa volta con una nuova consapevolezza,
salvaguardare l’oggetto fotografico non solo più come fonte
documentaria, ma come documento esso stesso.
[2]
Alberto Savinio (Atene 1891- Roma 1952), pseudonimo di Andrea de
Chirico, fratello di Giorgio de Chirico.
[3]
Citato in D. Mormorio, Storia della fotografia, Roma,
TEN, 1996.
[4]
Cfr. D. Mormorio, Un’altra lontananza- L’Occidente e il
rifugio della fotografia, Palermo, Sellerio, 1996.
[5]
C. Baudelaire, citato in P. Cavanna, La fotografia come fonte
documentaria, in “L’impegno”, anno XI n.3, Borgosesia,
Istituto per la storia della Resistenza in provincia di
Vercelli, 1991, p. 25
[6]
Cfr. A. Scharf, Arte e fotografia, Torino, Einaudi, 1979;
M. Miraglia, Gli impressionisti e la fotografia, in M. T.
Benedetti (a cura di), Catalogo della mostra: “Ritratti e
figure. Capolavori impressionisti”, (Roma, Complesso del
Vittoriano 7 marzo – 6 luglio 2003) Milano, Skira, 2003, pp.
63-71.
[7]
Si suppone che alla stesura di questo articolo abbia preso parte
anche il famoso fisico e astronomo, nonché deputato dei Pirenei
orientali, François Arago al quale si era rivolto alla fine del
1838 Daguerre per promuovere la sua invenzione e per farne
acquistare al governo francese i diritti. Questo articolo
compariva sul “Gazette de France” il 6 gennaio 1839, vale a dire
un giorno prima che Arago presentasse l’invenzione di Daguerre
all’Accadémie des Sciences di Parigi.
[8]
Citato in B. Newhall, Storia della fotografia, Torino,
Einaudi, 1984.
[9]
D. Mormorio, Storia della fotografia, cit. p. 27.
[10]
Pietro Selvatico Estense (Padova 1803-1880) architetto e critico
d’arte fu il primo teorico dell’eclettismo e della critica
architettonica romantica in Italia.
[11]
P. Selvatico Estense, Sui vantaggi che la fotografia può
portare all’arte, Firenze, 1859, citato in F. Canali,
Fotografia d’arte e fotografia artistica nei giudizi di Corrado
Ricci e dei contemporanei, in “Corrado Ricci. Nuovi studi e
documenti”, (a cura di) N. Bombardini, P. Novara, S. Tramonti,
Ravenna, Società di Studi Ravennati, 1999, pp. 267-268.
[12]
P. Toesca, L’Ufficio fotografico del Ministero della pubblica
istruzione, in “L’Arte”, VII 1904, citato inP. Costantini, «La
Fotografia Artistica», cit. p. 59.
[13]
Pietro Toesca, (Pietra Ligure 1877 - Roma 1962), laureatosi a
Torino si specializzò a Roma con Adolfo Venturi in arte
medievale. Collaboratore della rivista venturiana "L'Arte", di
cui divenne redattore capo, insegnò alle università di Torino
(1907), Firenze (1915) e Roma (1926).
[14]
Sull’incendio cfr. G. Gorrini, L’incendio della Biblioteca
Nazionale di Torino, Torino, Streglio, 1905.
[15]
Per tale occasione, la rivista
«La Fotografia Artistica»
pubblicò nel febbraio 1909 un fascicolo con il patrocinio della
Società fotografica subalpina. Questo numero, segna l’avvio per
questo periodico dell’utilizzo della fotografia anche come mezzo
di informazione.
[16]
R. Namias, La fotografia nelle biblioteche, in “Il
Progresso Fotografico”, Milano, 1904
citato in
P. Costantini, «La Fotografia Artistica», cit. p. 59.
[17]
Cesare Lombroso, (Verona 1835 - Torino 1909), professore di
medicina legale e di psichiatria all'Università di Torino e
fondatore dell'antropologia criminale. Nella sua opera
principale, L'uomo delinquente, diede un'identificazione
clinica ai diversi tipi di criminale, caratterizzati, a suo
vedere, da stimmate anatomiche, fisiologiche e psicologiche.
[19]
Citato in
M. Cordaro, Patrimonio culturale e fotografia: qualche
problema di definizione e competenza, in S. Lusini (a cura
di), “Fototeche e archivi fotografici. Prospettive di sviluppo e
indagine delle raccolte”, Prato, Archivio fotografico Toscano,
1996, p. 12.
[20]
Registro dei verbali della Giunta di Archeologia e Belle Arti,
annate dal 1875 al 1881, verbale del 29 giugno 1880, citato in
M. Miraglia, Note per una storia della fotografia italiana
(1839-1911), in AA.VV.
“Storia dell’Arte Italiana - Grafica e immagine II.
Illustrazione fotografica”, Torino, Einaudi, 1986, vol. 9, p.
470.
[21]
Citato in
M. Cordaro, Patrimonio culturale e fotografia, cit.,
p.13.
[23]
Regio decreto e Regolamento per le riproduzioni fotografiche, in
“Bullettino della Società Fotografica italiana”, Firenze, anno
V, disp. 9, settembre 1893, citato in
P. Cavanna, La fotografia, cit., p. 26.
[24]
Per questioni specifiche cfr. A. C. Quintavalle, M. Maffioli (a
cura di), catalogo della mostra: Fratelli Alinari – Fotografi
in Firenze. 150 anni che illustrano il mondo 1852-2002,
(Firenze, Palazzo Strozzi 2 febbraio – 2 giugno 2003), Firenze,
Alinari, 2003.
La ditta Alinari condotta fino al 1920 da Vittorio Alinari
l’ultimo erede della famiglia, è diventata una società per
azioni mutando il nome in «Fratelli Alinari – Istituto di
edizioni artistiche». Attualmenteè
diretta da Claudio de Polo e gestisce importanti archivi
fotografici quali l’Istituto Luce, il Touring Club Italiano,
l’Ansaldo di Genova, il Courtauld Institute e il Bridgeman di
Londra, l’archivio tedesco Marbung e il Giraudon di Parigi.
[25]
Questo volume costituisce uno dei primi esempi di illustrazione
editoriale realizzata con stampe fotografiche.
[26]
Pinacoteca di Brera, Archivio Antico, parte II, cassetta VII,
fascicolo “Riproduzioni fotografiche” riportato in A. Strambio,
Profilo documentario della Fototeca di Brera, in M.
Miraglia e M. Ceriana (a cura di), “Brera. 1899, un progetto di
fototeca pubblica per Milano: il “ricetto fotografico” di
Brera”, Milano, Electa, 2000. p 32.
[27]
M. Miraglia, La fortuna istituzionale della fotografia dalle
origini agli inizi del Novecento, in M. Miraglia e M.
Ceriana (a cura di), “Brera. 1899, un progetto di fototeca
pubblica per Milano, cit. p. 11.
[28]
P. Costantini, «La Fotografia Artistica», Torino, Bollati
Boringhieri, 1990, pp. 62-63.
[29]
G. Santoponte, Per un museo italiano di fotografie
documentarie, in “Bullettino della Società Fotografica
italiana”, Firenze, 1905, citato in P. Costantini, «La
Fotografia Artistica», cit. p. 64.
[30]
P. Costantini, «La Fotografia Artistica», cit. p. 62.
[31]
M. Miraglia, Note per una storia della fotografia italiana…,
cit. pp. 428-429.
[32]
P. Costantini, «La Fotografia Artistica», cit. p. 62-63.
[33]
Camillo Boito, architetto e critico d’arte, compiuti i suoi
studi all’Accademia di Venezia, si ispirò alle caratteristiche
di questa città che lo portarono a maturare la sua concezione di
“città come insieme storico continuo e relato nelle sue parti”
(
M. Ceriana, Un ritratto di gruppo: i fondatori del “ricetto
fotografico”, in M. Miraglia e M. Ceriana (a cura di),
“Brera. 1899, un progetto di fototeca pubblica per Milano, cit.
pp. 22-23).
Dal 1860 insegnò architettura nell'Accademia di belle arti di
Brera, divenendone in seguito presidente. Patrocinò un
rinnovamento delle forme architettoniche da perseguire
attraverso lo studio del modello offerto delle esperienze
medievali. Nell’ ambito del restauro riuscì ad imporre le sue
dottrine di “rispetto della storia”, cioè delle successive
stratificazioni portate dai vari momenti storici sullo stesso
edificio, ottenendo da Camillo Sitte l’appellativo di
“salvatore” di Venezia che in quegli anni era oggetto di
inopportune demolizioni e risanamenti(Cfr. C. Sitte, in G.
Zucconi, L’invenzione del passato. Camillo Boito e
l’architettura neomedievale, 1855-1890, Venezia, Marsilio,
1997).
Sarà questa sua visione di rispetto e “studio libero del
passato”, che troverà una risposta esaustiva nel mezzo
fotografico giovevole nello studio di quei monumenti degni di
nota, immortalati dallo stesso Boito nei suoi numerosi viaggi
europei, a spingerlo a partecipare all’appello per la
costituzione del “ricetto fotografico” di Brera. (C.
Boito, L’architettura odierna e l’insegnamento di essa,
1860, citato in M. Miraglia e M. Ceriana (a cura di), “Brera.
1899, un progetto di fototeca pubblica per Milano, cit. p. 23)
[34]
Giuseppe Fumagalli, da studente nella Biblioteca nazionale
centrale di Firenze nel 1880, dopo aver svolto il ruolo di
assistente alla Biblioteca governativa di Lucca e nella
Biblioteca Riccardiana di Firenze, fu dal 1896 al 1910 alla
direzione della Biblioteca nazionale Braidense di Milano. (Su
Giuseppe Fumagalli cfr. Giuseppe Fumagalli, Note biografiche
di G. Fumagalli, Archivio storico AIB, A. II. 4, e A.
Lancellotti, Umanità d’un grande bibliografo: Giuseppe
Fumagalli, in “Accademie e biblioteche d’Italia”, a. XIII,
1939-1940, n. 3).
La sua attività, che
si rivelerà fondamentale per il rinnovo del sistema
bibliotecario nazionale ancora legato ai vecchi canoni di
catalogazione, è testimoniata dalla fitta corrispondenza con
l’artefice maggiore di questa iniziativa milanese, Corrado
Ricci, creando le basi per quella amicizia e stima reciproca che
persisté anche quando il bibliografo fu trasferito nel 1910 alla
direzione della Biblioteca Estense di Modena. Dei quattro
promotori dell’iniziativa braidense, Fumagalli potrebbe apparire
quello meno coinvolto nel settore, in quanto studioso di
tecniche di catalogazione oltre che bibliotecario, ma
analizzando la sua smisurata bibliografia, si rintraccia tra le
sue pubblicazioni, anche delle raccolte iconografiche che
testimoniano l’interesse dell’erudito verso questo genere.
(Cfr. G. Fumagalli, Saggio di una iconografia leopardiana,
in “Emporium”, a. VII, 1898; G. Fumagalli, Albo pariniano,
ossia iconografia di Giuseppe Parini, Bergamo, 1899; G.
Fumagalli e F. Salveraglio, Albo carducciano, iconografia
della vita e delle opere di Giosuè Carducci, Bologna, 1909).
[35]
Gaetano Moretti, si era formato all’Accademia di Brera e dal
1895 era diventato direttore dell’Ufficio Regionale dei
Monumenti. Figlio di un ebanista, memore dell’esperienza su
campo fatta nella bottega paterna, aveva voluto acconsentire
l’accesso nella futura raccolta fotografica braidense, agli
artigiani e agli allievi della Scuola degli Artefici di Brera.
Nel 1891 chiamato da Beltrami a lavorare nell’Ufficio Regionale
per la Conservazione dei Monumenti, darà vita a quella campagna
fotografica che tutt’oggi testimonia quelle trasformazioni di
conservazione e ristrutturazione del tessuto urbano che
interessarono in quel periodo la città di Milano. (Su Gaetano
Moretti cfr. L. Rinaldi, Gaetano Moretti, Milano, Electa,
1993)
[36]
Citato in A. Strambio, Profilo documentario della Fototeca di
Brera, in M. Miraglia e M. Ceriana (a cura di), “Brera.
1899, un progetto di fototeca pubblica per Milano, cit. p. 34.
[37]
Su L. Beltrami cfr. L. Baldrighi, Luca Beltrami architetto.
Milano tra Ottocento e Novecento, Milano, Electa, 1997.
[38]
Beltrami firma l’articolo con lo pseudonimo di “Polifilo”.
[39]
L. Beltrami, Una pubblica raccolta fotografica, in
“Corriere Milanese”, a. XXIV, 1899, n. 300, 1-2 novembre, citato
in M. Miraglia e M. Ceriana (a cura di), “Brera. 1899, un
progetto di fototeca pubblica per Milano, cit. p. 65.
[40]
D. Domini, Appunti sul rapporto tra arte e fotografia in
Corrado Ricci, in “Corrado Ricci. Nuovi studi e documenti…”,
cit. pp.336-337.
[41]
Citato in I. Zannier e P. Costantini, Cultura fotografica in
Italia. Antologia di testi sulla fotografia (1839-1949),
Milano, F. Angeli, 1985, pp. 21-36.
[42]
Santoponte affermerà: “pare che quest’archivio fondato da
Ricci abbia avuto breve vita, se attualmente la sua esistenza è
quasi ignota” citato in I. Zannier e P. Costantini,
Cultura fotografica in Italia, cit. p. 227.
[43]I
fiorentini “F.lli Brogi” come gli Alinari, si dedicarono oltre
ai ritratti alla documentazione delle opere d’arte.
A
Giacomo Brogi (1822-1881) capostipite e fondatore della casa,
succedette nel 1895 il figlio Carlo, fotografo apprezzato in
ambito europeo e ricordato soprattutto per la battaglia che
combatté a nome di tutti i fotografi per la difesa dei diritti
d’autore.
[44]
Fondo Ricci, Carteggio Corrispondenti, Biblioteca Classense di
Ravenna, vol. 22, n. 4844 (da Carlo Brogi a Ricci), citato in F.
Canali, Fotografia d’arte e fotografia artistica, cit.
pp. 280-281.
[45]
Citato in P. Cavanna, La fotografia, cit. p. 27.