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Gisèle Freund
(Berlino, 1908 – Parigi, 2000)
Forse la figura più
eminente nel campo della fotografia al femminile in Europa nel XX
secolo, Gisèle Freund, divenuta francese grazie al matrimonio contratto
nel 1936, deve all’utilizzo pionieristico dell’Agfacolor una grande e
meritata notorietà.
Grazie ai suoi scatti, a partire dal 1938, vengono immortalati per la
prima volta a colori artisti e scrittori di fama mondiale: Jean Cocteau,
André Gide, James Joyce, Walter Benjamin, Henri Matisse, Virginia Woolf
solo per citarne alcuni e con i quali la Freund si intrattiene cercando
di carpire il loro mondo, non solo esteriore, attraverso anche i ‘tic’
che questi hanno con gli oggetti che li attornia, la lente di Joyce, le
mani di Cocteau, la sigaretta della Woolf, ma attraverso lunghe
conversazioni che questi ben volentieri dedicano alla fotografa.
È un lavoro non dissimile da un ritrattista in pittura che non si limita
a sedute fugaci ma cerca di ‘entrare’ nel mondo del ritrattato; in
questo senso, rimane forse insuperato il rapporto che la Freund riesce
ad instaurare con due figure tutt’altro che semplici e accostanti come
Benjamin e Malraux.
Durante la Seconda Guerra Mondiale si rifugia in Argentina facendo la
conoscenza di Borges, Bioy Casares, Victoria Ocampo e altri. Nel 1946
rientra in Francia e nel 1948 firma per la Magnum. Nel 1950 è in Uruguay
costretta a fuggire di nuovo dall’Argentina a causa di un reportage
tutt’altro che tenero nei confronti della vita dissennata di Evita Peron.
Sospettata di comunismo, è costretta a uscire dalla Magnum nel 1954.
Dopo un lungo periodo di sottovalutazione, nel 1981 il presidente
francese François Mitterand la sceglie per il suo ritratto ufficiale. Da
li si susseguono importanti riconoscimenti, soprattutto nel 1991 quando
al Centre Georges Pompidou gli viene dedicata una memorabile
retrospettiva.
Si spegne il 31 marzo 2000 e viene sepolta poco lontano dalla sua
casa-atelier, presso il cimitero di Montparnasse.
Colette
Paris, 1939
Stampa cromogenica su carta Kodak
Venezia, Ikona Archive Collection
Colette, al secolo
Sidonie-Gabrielle Colette (1878-1954), considerata un mito vivente nella
Francia tra Otto e Novecento, venne ritratta da Gisèle Freund in diverse
occasioni, anche nel proprio letto intenta a lavorare.
Quando la Freund incontrò Colette, questa era già passata attraverso i
numerosi scandali, il successo di scrittrice e quello da attrice di
music-hall, raffigurata sia in pittura sia in fotografia sempre
bellissima.
Il 1939 è l’anno in cui le viene diagnosticata l’artrosi e dunque non è
più la femme fatale dell’immaginario collettivo ma una donna ormai
ritirata nella sua tana, come i suoi adorati gatti.
Colette viene fotografata da Gisèle con una sciarpa rossa e il pugno
chiuso portato quasi sotto il mento dove, impietosamente, si vedono le
incontrovertibili macchie di pelle dovute all’invecchiamento; eppure
emerge ancora quello sguardo felino, quello di una tahitiana “amorale
più che immorale” come l’aveva definita il marito Willy attraverso il
personaggio letterario di Claudine.
Una donna che otterrà comunque il massimo grado della Legion D’Onore e
che viveva, all’epoca, al primo piano del Palais Royal oltre a
ritrovarsi protagonista postuma anche con le esequie di Stato nonostante
il netto rifiuto della chiesa.
Il ritratto diviene allora un’icona totale. Freund conosceva il suo
ritratto giovanile, di Colette seminuda con la mano portata sotto al
mento, e utilizza pressoché lo stesso schema ma, come il tempo è
inesorabile anche il suo scatto fotografico lo è, sottraendosi
paradossalmente al tempo stesso, al pari del Ritratto di Vecchia di
Giorgione. Quella sciarpa funziona esattamente come il cartellino che la
vegliarda donna giorgionesca tiene a se mostrandosi senza pudore
all’osservatore, sdentata: “Col tempo…”.
Nonostante una decadenza del modello, Freund riesce a cogliere anche il
fuoco di quello sguardo, tra il consumato e il pronto a nuove sfide;
anche in questo senso il ritratto ci sollecita a farci fare un balzo
temporale, in questo caso in avanti. Spetterà, infatti, a Tonino Delli
Colli immortalare gli ultimi bagliori degli occhi di Romy Schneider, uno
sguardo felino identico a Colette, in drammatico disfacimento.
Matteo Gardonio
Ducrocq