La gloria d'arte per cui splendette Venezia lasciando un'orma luminosa
nei paesi del Friuli, dell'Istria e della Dalmazia a lei soggetti, si
arresta alle porte di Trieste, da una parte a Monfalcone, dall'altra a
Muggia. Zaule segnava il confine della repubblica: la nostra città ne
rimaneva esclusa. È vero che Trieste era allora un piccolo borgo e si
trovava sempre in antagonismo con Venezia; ma questa non sarebbe ancora
una buona ragione, perché i suoi negozianti arricchiti non sentissero lo
stesso bisogno dei loro concorrenti veneziani di fabbricarsi delle
dimore sontuose, arredandole con suppellettili d'arte che, naturalmente,
avrebbero dovuto risentire di quella scuola e di quell'esempio, mentre
la nostra città non poteva e non voleva subire l'influsso di una civiltà
di carattere etnico del tutto diverso dal suo, cioè del paese dal quale
politicamente dipendeva. E in ciò consiste il miracolo della sua
italianità: l'influenza tedesca, che per esempio lasciò tracce
notevolissime a Lubiana si da darle una spiccata impronta di città
alemanna, avrebbe potuto benissimo far quattro passi di più e arrivare
fino a noi. Tentò di farli, ma non trovò mai il terreno adatto al suo
sviluppo. Se togliamo dunque qualche singolo edificio che ha l'aria e il
tipo di molti consimili veneziani del tardo Seicento o Settecento, è
necessario arrivare fino all'Ottocento per riscontrare da noi il primo
soffio dell'arte. Giuseppe Caprin nei Nostri nonni » ne parla
esaurientemente. Ma non uno degli artisti che avevano lavorato in quel
periodo era triestino! Il Molari, che disegnò l'edificio della Borsa e
la facciata della Casa Chiozza, era di Macerata; il Selva, che edificò
l'interno del teatro Verdi, era veneto; di origine tedesca il Pertsch
che ne disegnò la facciata e poi il palazzo Carciotti e la casa Panzera.
Gli scultori che collaborarono a queste fabbriche sono il Bosa padre,
Bartolomeo Ferrari, il Banti e lo Zandomeneghi, tutti veneti.
La fabbrica che occupò poi maggior numero di artisti fu la Chiesa di S.
Antonio Nuovo, eretta su disegni di Pietro Nobile, un architetto di
origine svizzera. Le statue dell'attico e gli angeli della tribuna sono
del Bosa figlio. I pittori che ne decorarono l'interno sono anch'essi
forestieri : il Politi da Udine, il Grigoletti da Pordenone, il
Lipparini da Venezia.
Tedeschi sono il Tunner e lo Schönemann. Solo più tardi i quadri della
Via Crucis furono eseguiti da alcuni nostri artisti, come Augusto
Tominz, l'Acquarolli, il Polli, il Guerini, su disegni di Giuseppe
Lorenzo Gatteri.
Sebastiano Santi che dipinse la tribuna dei Gesuiti, la cappella
dell'Addolorata di S. Giusto e l'abside di S.Antonio Nuovo, era
veneziano. Anche la maggior parte degli scalpellini, fabbri e falegnami
che attese a tutte queste opere ci venne dal Friuli, dalla Svizzera,
dalla Lombardia. Forestieri sono i decoratori e gli scenografi dei
nostri teatri: Domenico Camisetta, Lorenzo Scarabellotto e il
valentissimo Sanquirico. Questo primo sviluppo edilizio fece si che
molti artisti, i quali avevano collaborato a queste fabbriche, si
accasassero da noi. Il Pertsch divenne triestino d'adozione e così i due
figli del Bosa, Eugenio e Francesco, e il Bianchi, autore di uno dei due
gruppi delle facciate del Tergesteo. Giovanni Bernardino Bison da
Palmanova viene quasi considerato triestino per i tanti anni che dimorò
a Trieste. E a Trieste nacque il pittore Felice Schiavoni, figlio di
Natale Schiavoni, il quale, vissuto a lungo fra noi, era riuscito a
farsi una fortuna con i suoi ritratti. Il risveglio economico
pronunciatosi allora aveva moltiplicato il benessere e l'agiatezza dei
cittadini. L' amore per le belle arti era cresciuto. Sorsero palazzi e
lussuose abitazioni. Il danaro passava dalle tasche dei negozianti in
quelle degli artisti. Gli artisti sono come i seminatori, dice Giuseppe
Caprin : dietro di loro avviene la germinazione.
Nel 1826 - 27 per la prima volta l'Accademia di Belle Arti di Venezia
premiò i giovani triestini Lorenzo Butti, Giuseppe Solferini e Gaetano
Merlato. La nostra « Società di Minerva » bandiva nel 1830 la sua prima
esposizione di Belle Arti. I partecipanti triestini furono il Poiret, il
miniaturista Luigi de Castro, lo Sforzi, il Goldmann, il Merlato, il
Butti e Anna de Frattnig Salvotti, nipote di Domenico Rossetti, il quale
in una lettera all'architetto Pietro Nobile aveva annunziato il sorgere
di questo nuovo astro con le seguenti parole: (Vedete, anchè dal sangue
dei Rossetti può nascere un'anima pittorica, e più mi consola, che se ne
fossero usciti sei presidenti e ventiquattro consiglieri aulici. « Se
costei in questa proporzione progredisce fino alla mia età, Trieste avrà
almeno da « gloriarsi di una pittrice che lascierà viva memoria di sè.
Ma il tutto sta nel progredire
« veramente. Le donne sono in tutto come le rose : fioriscono all'
improvviso per incantare, « poi restano li per appassire.» Intorno al
1840 convenivano nella casa del mio nonno materno Giovanni Battista
Artelli, giunto qui da Venezia con la famiglia intorno al 1800, tutti
gli artisti di quell'epoca. Egli era amantissimo d'arte e collezionista.
Conservo ancora un vago ricordo de' miei primi anni, il ricordo di
grandi teloni che pendevano alle pareti di casa e che per dissesti
familiari e molti altri, che poi questi ve ne sono riunioni, le quali
erano improntate a sano umorismo. Il primo rappresenta un'adunanza del
Consiglio direttivo della Società, l'altro un ricevimento in onore del
pittore Zoccos. Tre gallerie di quadri antichi, delle quali due aperte
al pubblico, contenevano gemme fulgenti furono dovuti vendere. Egli era
stato il fondatore di una piccola società o, meglio, di un cenacolo di
artisti che si radunava in casa sua e dal quale era stato nominato
Console delle Belle Arti, con patente scritta in latino maccheronico.
Vice Console era il pittore Dionisio Zoccos da Zante che viveva per lo
più a Venezia, ma veniva spessissimo a Trieste dove lasciò anche qualche
ritratto non disprezzabile. Conservo una distinta dei soci che
componevano quella società; erano in buon numero: Cesare Dell'Acqua e i
due Poiret da Trieste, Giulio Carlini da Venezia, Bartolomeo Gianelli da
Capodistria, l'architetto Giovanni Berlam, i due Gatteri, Giuseppe
Capolino, Edoardo Baldini, Raffaele Astolfi, Domenico Marconetti, tutti
da Trieste; Raphael Jacquemin da Parigi, Giovanni Simonetti da Fiume,
Annibale Stratta da Cagliari e molti altri che poi lasciarono traccia
del loro ingegno in un albo ricco di disegni. Fra due del triestino
Giovanni Polli, che danno testimonianza delle loro riunioni, le quali
erano improntate a sano umorismo. Il primo rappresenta
un'adunanza del Consiglio direttivo della Società, l'altro un
ricevimento in onore del pittore Zoccos.
Ricevimento in
onore di Dionisio Zoccos.
Tre gallerie di
quadri antichi, delle quali due aperte al pubblico, contenevano gemme
fulgenti dei secoli d'oro dell'arte.
Nicola Lazovich possedeva un Giambellino, un Tiziano, un Caravaggio, un
Guercino e un Claudio
Lorenese. Carlo Girardelli vantava altre preziosità del Moroni, di Guido
Reni, di Davide Tèniers, di Rosa da Tivoli, del Cignani, del Padovanino
e del Parmigianino. Alessandro Volpi contava fra le molte tele di grandi
maestri anche un Velasquez. Ma purtroppo tutti questi quadri esularono
dalla nostra città.
Molto importanti
erano le raccolte di quadri moderni, e numerosi i mecenati: Salomone
Parente, Leone Hierschel, Pietro Sartorio, G. G. Sartorio, M. Sartorio,
L. Gechter, la contessa Wimpffen, I. N. Craighero, Carlo Antonio
Fontana, G. Haynes, F. C. Carrey, il conte Waldstein, il barone
Lutteroth, Gracco Bazzoni, Carlo di Ottavio Fontana, Ferdinando De Coll,
Cristo Ranieri.
A loro volta altri artisti vennero a dimorare nella nostra città: Carlo
Gilio da Milano, il ferrarese Giovanni Pagliarini, i tedeschi Augusto
Tischbein, Augusto Seib e il bavarese Mayerhoffer.
Francesco Dall'Ongaro fu nel campo artistico il continuatore dell'opera
della Minerva Fondata la Società Filotecnica in unione con Cristo
Ranieri, un greco che a suo tempo aveva frequentato la casa della regina
Murat, col capo della Comunità inglese Giorgio Haynes e con lo scozzese
O. Carrey, promosse esposizioni artistiche che si susseguirono per otto
anni. Ne era presidente il conte Waldstein. Alla prima Mostra del 1840
figurarono più di cinquecento opere con la partecipazione di Francesco
Hayez, di Massimo d'Azeglio e d' Orazio Vernet. Ma la germinazione
artistica era avvenuta e aveva portato i suoi frutti. A questa mostra si
erano presentati altri valenti triestini: oltre al miniaturista Luigi de
Castro e a Lorenzo Butti, Giovanni Madrian e il capostipite di una
dinastia di pittori, i Tominz, l'ultimo rampollo della quale, Alfredo,
della terza generazione, vive sano e vegeto tra noi, nonchè un fanciullo
di nove anni, Giuseppe Lorenzo Gatteri. L'Accademia di Venezia preparava
intanto un'altra covata: i pittori Augusto Tominz, Raffaele Astolfi,
Francesco Guerini, Cesare Dell'Acqua e Giovanni Polli; e ancora Giuseppe
Gallico, Domenico Marconetti, che divennero poi insegnanti, gli scultori
Edoardo Baldini e Giuseppe Capolino, un forte artista che aveva dato
sicura promessa di sè ma che fu colto dalla morte a trent'anni. E poi
l'architetto Giovanni Berlam, capostipite lui pure di una generazione di
egregi artisti : gli architetti Ruggero, suo figlio, e il nipote Arduino
; inoltre il goriziano Antonio Rotta, il pittore poi tanto in voga per i
suoi interni domestici, e il capodistriano Bortolo Gianelli, pittore di
marine. Con Giuseppe Lorenzo Gatteri, Cesare Dell' Acqua, Giuseppe
Capolino e Giovanni Berlam incomincia la nostra era artistica. La
famiglia dei Tominz apre la serie dei pittori triestini, per quanto il
più vecchio, Giuseppe, fosse nato a Gorizia nel 1790; ma stabilitosi nel
1820 a Trieste, considerò questa la sua città adottiva. Terminati gli
studi a Roma, si dedicò quasi esclusivamente al ritratto nel quale
diventò maestro insuperato. Fu straordinariamente fecondo. Si racconta
che durante la permanenza a Trieste della squadra inglese nel 1830,
dipingesse venticinque ritratti di quegli ufficiali eseguendone uno al
giorno. Fra i ritratti suoi più notevoli vanno annoverati quello del Re
di Napoli Gioacchino Murat e quello del Papa Pio VII, che dovrebbe
trovarsi in Vaticano. Alla Mostra del ritratto tenutasi a Firenze nel
1911 figurarono il suo tanto decantato ritratto del « Nano ostricaro » e
quello della signora Smart di Trieste. Egli fu anche ottimo
miniaturista. Suo figlio Augusto nacque a Roma nel 1818 e mori a Trieste
nel 1883. Studiò a
Venezia col Lipparini e col Politi. A loro volta furono suoi scolari i
triestini Giovanni Rota (appartenente a un' altra triade di artisti, il
musicista Giuseppe e il cantante Giacomo) che prese poi dimora a Parigi,
e Antonio Valdoni che esercitò a Milano. Il Museo Revoltella conserva
tre quadri di Augusto Tominz ed è pure dipinto da lui il soffitto della
sala da ballo nel palazzo dove ha sede il Museo, del quale il nostro
artista fu conservatore dal 1873 fino alla sua morte. Era pure
segretario della Società di Belle Arti che annualmente continuava ad
allestire le sue mostre e che ebbe vita fino al 1882. Opere sue di
genere sacro si trovano a S. Antonio Nuovo: una S. Lucia e tre
quadri della Via Crucis.
Era opera sua anche il Martirio di S. Lorenzo nella Chiesa di
Servola che bruciò nel 1880. Nella Chiesa dei Cappuccini si conserva una
Beata Vergine con varii Santi; a Villa Vicentina dipinse l'Assunta
per la cappella Baciocchi. Lasciò molte opere a Villaco e a Vienna.
Esegui un rilevantissimo numero di quadri di soggetto romantico, in gran
voga al suo tempo, che avevano lo scopo di tener desta la fiamma dell'
italianità. Di ritratti ne esegui un' infinità: si può dire che ogni
famiglia ne possieda qualcuno, oltre alle fotografie, in quel tempo
rinomate, che uscivano dallo studio fotografico che aveva aperto in
Piazza della Borsa.
Augusto Tominz era un mordace burlone. Una volta aveva eseguito un S.
Giuseppe per una chiesa dell'Istria. Pare che prima della consegna
del quadro vi sia stato fra lui e il parroco una divergenza che credo
concernesse una diminuzione del prezzo pattuito. Per vendicarsi il
Tominz pasticciò malamente la testa del Santo, poi inviò la tela a
destinazione. Il prete fece qualche protesta intorno a quel particolare,
al che il Tominz rispose che si provasse a ripulire la testa con un po'
di acquaragia. Il parroco esegui l'istruzione e, dopo una buona
pulitura, ne usci fuori un S. Giuseppe con la testa di Garibaldi.
Un'altra volta fu un negoziante montenegrino, l'Opuich , che protestò
per un suo ritratto ordinatogli e che poi non volle accettare. Il Tominz
se ne stizzì. Sul ritratto dipinse delle sbarre di ferro che si
incrociavano a quadrati. L'Opuich figurava in prigione: e cosi fu
esposto sotto il pronao della Borsa, dove allora il Rose, il Rieger, il
Grubas, il Malacrea e altri mettevano in mostra i loro quadri. L'Opuich
ne fu avvertito e non frappose indugi nel mandare a comperare il
ritratto. Una bella gli toccò nel 1848, mentre usciva dal Teatro Corti
insieme con suo fratello Raimondo, ch'era stato in origine maestro di
musica, ma poi, divenuto troppo pericoloso per le sue allieve, aveva
dovuto cambiar mestiere e diventare ispettore delle pubbliche
piantagioni. Molti devono ancora ricordarlo. A ottant'anni ne mostrava
trenta di meno.
Pareva uno zerbinotto. Era di una vitalità
sorprendente, di un umore indiavolato. Marciava d'inverno in giacca con
un bastoncino in mano: pareva che andasse sempre alla conquista di
allori femminili. Mori a ottantasei anni cantando un'aria della
Traviata. Costoro dunque uscivano dal Teatro Corti dopo una riunione
patriottica che pare avesse dato ai nervi del presidente della Camera di
Commercio, Vicco. Questo diede incarico a certo Accerboni di aspettare i
due Tominz all'uscita col mandato speciale di bastonarli. I due,
sopraffatti, si buscarono qualche cazzotto. Intervennero i bochter
(specialissimo vocabolo triestino di quei tempi, storpiatura del tedesco
Wächter, cioè poliziotti).
Bastonati e bastonatori furono scortati al Direttore di Polizia. Gli
assalitori furono condannati a qualche giorno di oscurità, ma dopo
qualche ora liberati. I due Tominz furono consigliati di esulare per
qualche tempo. Partirono per Udine. A Prosecco si incontrarono con lo
stesso Vicco e con l'Accerboni. Scesero dalla carretta, si precipitarono
sui due malcapitati e si presero una rivincita ad usura. Arrivati poi a
Udine, il Gazzoletti li accolse e furono festeggiati. A un banchetto
egli lesse una sua poesia che ricordava l'episodio irredentista del
Teatro Corti, i cazzotti e la rivincita. Intanto il gusto e l'interesse
per le arti si accentuavano maggiormente, e aumentavano gli amatori e i
mecenati. Dal 1840 al 1880, oltre a Pasquale Revoltella, del quale
parlerò poi diffusamente, i mecenati furono molti.
Il palazzo Brambilla in Via SS. Martiri era divenuto proprietà dei
baroni Elio e Giuseppe de Morpurgo che vantavano nella loro raccolta
opere insigni, fra cui tre quadri di Palma il Giovine.
Raccolte d'arte tenevano pure i baroni Rittmeyer e il barone Lutteroth,
l'Oblasser, il barone Zanchi, il De Coll, il Bontempelli, Giuseppe
Sartorio, Giorgio Galatti, il Kalister, il barone Parisi e Marco Amodeo.
La Società di Belle Arti continuava ad allestire le sue mostre annuali
che si tenevano nella sala della Borsa e poi nel palazzo Revoltella.
Ma un'altra istituzione sorse con intendimenti affini : la Società per
l'Arte e l' Industria. Ne era presidente il barone Reinelt e segretario
l'architetto Giovanni Berlam. Essa promosse l'esposizione che si tenne
nel 1871 su quell'area denominata « Campagneta che dal giardino pubblico
andava fino alle alture di Via Chiozza dove oggi sorge il Politeama
Rossetti. In questa esposizione vi era un po' di tutto e non vi mancava
un padiglione per le Belle Arti. Giuseppe Caprin nel suo periodico
intitolato « Libertà e Lavoro » aveva segnalato tra i quadri dei nostri
triestini l'opera di un giovane al quale auspicava un brillante
avvenire.
Il quadro, intitolato Amleto era di Eugenio Scomparini. Il Makart vi
aveva mandato un enorme telone di soggetto fantastico e Antonio Rotta il
suo « Ciabattino , che furoreggiò.
La mostra sotto il
pronao della Borsa. Giuseppe Rota.
Gli amatori trovarono poi nei due tedeschi Vendelino e Giuseppe
Schollian i fornitori di quadri per i loro appartamenti. Ambidue
tenevano dei locali di esposizione, l'uno al Corso e l'altro in via del
Ponte Rosso, ora Via Roma, e vi accoglievano le opere dei nostri
artisti. Tuttavia la mostra caratteristica rimaneva ancor sempre sotto
il pronao della Borsa. Quel posto era il preferito dagli artisti e anche
non dai più modesti, perché a tutte le ore vi passavano gli uomini
d'affari e... il resto si capisce.
Oltre al Malacrea, vestito alla fiamminga, che esponeva le sue frutta e
i suoi fiori, v'era il Grubas che dipingeva vedute di Venezia, il Rose
autore di quadretti satireggianti i nostri contadini e certo Tumme che
faceva il paio col Malacrea descritto dal Caprin.
Questo Tumme era un tedesco e parlava un triestino sassone composto di
voci peregrine di un'armoniosità poco comune. Il nostro dialetto che più
di una volta aveva dovuto subire le carezze linguistiche dei nostri
padroni d' un tempo e dei nostri vicini, dovette certo meravigliarsi
delle proprie elastiche qualità di adattamento nel servir da incrocio a
un gergo che rassomigliava molto all'abbaiar dei cani e a certi suoni
che parevano uscir dalla bocca del Tumme come da una catapulta. Egli
abitava una soffitta rischiarata da un grande abbaino. Di mobili non
vantava un gran lusso: un canterano, nei cui cassetti erano riposti alla
rinfusa sacchetti di colori, fiaschette d'olio, un macinino, dei
frammenti di budella per insaccare i colori preparati, dei pennelli
induriti; un tavolo aveva chiesto l'equilibrio a una parete alla quale
era addossato; alcune scranne capaci di tradimento verso chi si fidasse
troppo delle loro staticità. Un'abbondante nevicata di polvere dava
un' intonazione grigia a tutti gli oggetti, perfino a un vecchio cane
che sonnecchiava in un canto; un panchetto faceva argine a un mucchio di
rifiuti. Sulla parete triangolare del fondo stava inchiodata una lunga
fascia di tela, divisa in tanti rettangoli. In ognuno di questi egli
dipingeva un quadretto. Non era specialista in un genere solo ma, da
eclettico, eseguiva paesaggi e marine, nature morte, fiori, scene
campestri, allegorie. Procedeva cosi : preparava diversi pentolini di
colori che servivano per l'acqua, per l'aria o per il color locale e li
distendeva simultaneamente su tutte le parti che quei dieci soggetti
richiedevano. Poi finiva ciascuno a sè con un' abilità e rapidità
straordinarie, curiose a constatarsi ancora oggi. Terminato il
quodlibet lo portava tutto d'un pezzo al posto dell'esposizione e vi
si metteva di fianco rimanendo in attesa come fa l'uccellatore. Il
cliente, prima o dopo, ne era adescato ed egli con le forbici tagliava
fuori a richiesta sia la natura morta, che il paesaggio o l'allegoria.
Francesco Beda conobbe da ragazzo questo bel tipo, che andava a trovare
di quando in quando. Era un pezzo d'uomo alto e forte e già oltre la
settantina. Da buon tedesco era entusiasta della musica e quando
l'ascoltava, per godersela meglio, si ficcava il dito pollice della mano
destra in bocca e lo succhiava e, come correva sempre in cerca di
delizie musicali, il suo dito portava visibili tracce di corrosione.
Viveva solo, ma oltre al vecchio cane che gli faceva compagnia dormendo,
teneva un merlo che saltellava per lo studio e aveva una spiccata
predilezione per quel mucchio di scopature che talvolta diventava
montagna. Era là che l'uccello si spassava e un po' col becco, un po'
con le zampe si ingegnava di far ritornare al posto di origine ciò che
la scopa aveva avuto cura di ammucchiare. I veri padroni di casa erano
però i topi che vi regnavano dispoticamente. Per rabbonirseli e perché
non gli rosicchiassero le tele, aveva gran cura di far trovar loro ogni
terzo giorno dei saltimpanza (panini dolci) freschi. In cambio le
bestiole non trovavano altra maniera di dimostrare il loro gradimento
che saltando insolentemente sulle ginocchia di quei visitatori che si
soffermavano più di un quarto d'ora nello studio. Il suo orologio a
pendolo era un capolavoro d'ingegnosità. I cilindri metallici che lo
facevano camminare, col tempo, chi sa come, erano spariti. Il Tumme, da
uomo di metodo, insofferente di inesattezze, alle quali la mancanza di
un orologio avrebbe potuto farlo incorrere, li aveva sostituiti con due
bottiglie di forma differente che già avevano contenuto del vino Terrano
» per il quäle aveva una spiccata predilezione, e l'orologio non si era
punto accorto di essere messo in moto dai due fiaschetti d'acqua, ai
quali il Tumme dava la piena quando necessitava. Aveva poi una
fisionomia caratteristica: le labbra incorniciate da due grossi
mustacchi bianchi, che portavano costantemente tracce di umidore anche
nei giorni di gran bora. Per un difetto delle glandole, aveva una
salivazione abbondante, e distribuiva a destra e a sinistra
costantemente delle spruzzatine, senza far caso se a riceverle fosse la
sua grande tela o il canterano o il malcapitato visitatore che si
trovava a portata. Tanto è vero - raccontava il Beda - che più di una
volta rincasando dopo una visita fattagli, portavo le tracce di quel
secondo battesimo ed era mia madre ad accorgersene, perché mi redarguiva
: «Ti xe sta ancora da quel vecio pitor tedesco, xe vero ? ., e prendeva
una pezzuola e mi asciugava.. Non aveva delle abitudini speciali nel
vestire, portava la giacca del taglio di quel tempo abbottonata fino al
mento. Appariva decente. Solo forse i suoi indumenti intimi accusavano
qualche leggero inconveniente. Mutava di camicia solo quando aveva
bisogno di uno straccio per pulire i pennelli. Vendeva abbastanza bene i
suoi quadretti. Da ultimo trovò uno che ne fece incetta insieme con
quelli del Malacrea, cioè quel libraio Czerwinsky, al quale successe poi
lo Schimpff in Piazza della Borsa.
Dopo il 1860 il numero dei nostri artisti si era accresciuto di molto.
Oltre al Gatteri, al Berlam, al Capolino e a Cesare Dell'Acqua, che
lasciò Trieste in quel torno di tempo per stabilirsi nel Belgio, si
notavano il Collamarini, il Moretti, il Fabretto, lo Hönigmann, lo
scultore Cameroni, l'Acquarolli, lo Zuccaro, il Marconetti, il Cortivo e
gli scultori Spaventa e Depaul: tenevano convegno al Caffè Chiozza.
Altri vivevano separati, come l'Astolfi, il Mayerhofer, il Baykoff, l'
Haase, il Fiedler, l' Höning, questi ultimi tutti stranieri.
Giulio Carlini da Venezia vi faceva annualmente delle soste abbastanza
prolungate ed eseguiva ritratti. Cosi fu poi di altri due ritrattisti:
il Sorio, veronese, e il pastellista Della Valentina.
Pasquale
Revoltella. (Da una litografia di Kriehuber - Vienna 1855).
Pasquale Revoltella, mecenate e filantropo per eccellenza, fu il più
gran signore che abbia avuto Trieste. Nato a Venezia nel 1795,
apparteneva a una famiglia umile e poverissima di macellai, nella
parrocchia di S. Geremia. Rimasto orfano di padre fin da bambino, fu la
madre Domenica che con stenti lo allevò, supplendo come potè alla sua
istruzione che allora era troppo difettosa nelle scuole. La sua infanzia
fu rallegrata da questo affetto materno, che gli lasciò memoria di
gratitudine e di venerazione e impresse un tratto caratteristico alla
sua vita.
Venne qui nei primi anni del 1800. Dopo dure prove, seppe farsi strada
da sè, fondò una casa di commercio che importava legnami e granaglie e
col tempo si arricchì a dismisura.
Vado debitore di gran parte di queste notizie all'amico Alfredo Tominz,
che le seppe per bocca di suo padre il quale visse molto vicino al
Revoltella, come pure da suo zio Carlo Marussig, che fu uno dei
procuratori della ditta. Abitò la casa Fontana in Piazza del Sale fino a
che non fu compiuto il palazzo che stava costruendogli l'architetto
Hitzig di Berlino, autore del teatro reale di Dresda Il palazzo fu
inaugurato nel 1858 con un gran ballo al quale intervenne anche
l'arciduca Massimiliano, allora governatore della Lombardia. Fu un
animatore di tutte le arti; letterati, artisti e scienziati furono da
lui splendidamente onorati. Fu un impareggiabile suscitatore di energie.
Fondò con Francesco Gossleth la Scuola Triestina di disegno che prese
poi il nome di Banco Modello. Francesco Gossleth era falegname edile.
Gran parte del mobilio del palazzo Revoltella e del castello di Miramare
è opera sua. Abitava nel suo palazzo di via Bellosguardo, oggi proprietà
del barone Leo Economo nel Viale della III Armata. Armonia, ribattezzato
poi Teatro Goldoni e malauguratamente demolito ai nostri giorni. Creò e
finanziò la Compagnia Drammatica Bellotti-Bon e si era quasi accordato
con Gustavo Modena per istituire a Trieste un teatro stabile di prosa,
progetto questo che poi, non so per quale ragione, non potè essere
effettuato. Nel suo palazzo si succedevano feste, balli, grandi
ricevimenti ai quali partecipavano le famiglie più cospicue della città.
Balli, feste e fiere di beneficenza a pagamento si alternavano con
grande larghezza ed il ricavato andava per lo più devoluto all' Istituto
di Beneficenza del quale fu uno dei fondatori e per il cui incremento
nessuno contribuì quanto lui.
Ebbe sempre parte
attivissima come presidente nelle esposizioni annuali della Società di
Belle Arti. Erano di casa sua i pittori Butti, Haase, Augusto Tominz, lo
scultore Bottinelli, Pizzolato, Gioacchino Hierschel (in arte Van Hier),
ottimo pittore di marine, e lo scultore Depaul.
D'estate partiva per le spiagge nordiche di Ostenda, del Belgio, della
Francia e terminava solitamente a Parigi, viaggiando sempre nella sua
berlina, fornita persino della cucina e di ogni sorta di comodità.
Talvolta villeggiava al "Cacciatore", nel suo casinetto rustico, in
mezzo al magnifico parco, affidato alle cure di un sapiente e rinomato
giardiniere, Severino Milanese, che fra le piantagioni più rare
coltivava nelle serre quei famosi ananas che comparivano ai grandi
pranzi del signore. In questo parco fu terminata di costruire nel 1867
la cappella dove dovevano riposare i suoi resti mortali accanto a quelli
della madre, provvisoriamente collocati sotto l'altare della Beata
Vergine delle Grazie da lui fatto erigere nella Chiesa dei Gesuiti (S.
Maria Maggiore).
Tutto ciò che questo magnifico e munifico Signore operò - scrive l'abate
Luigi de Pavisich - fu a incremento e decoro della sua città di
adozione. Fu per sua iniziativa che sorse il grande albergo Hôtel de la
Ville, dapprima nominato Metternich. Fu uno dei promotori e il più forte
azionista nella costruzione del Tergesteo, della Villa Ferdinandea, del
Bersaglio, del Teatro Armonia, dello Stabilimento Tecnico Triestino e
della fabbrica di birra Dreher.
Alle chiese non diede soltanto il suo obolo, ma molte devono a lui gran
parte delle ricchezze in esse custodite. Contribuì con ingenti somme
all'erezione della Chiesa dei Cappuccini. Donò un ostensorio e molti
arredi sacri, che erano stati rubati poco prima, alla Chiesa di S. Maria
del Soccorso, facendovi pure il pavimento di marmo. Fu munifico verso i
Conventi delle Monache Benedettine di Trieste e dei Francescani di
Capodistria, nonchè verso altri dell'Istria, della Dalmazia e della
Bosnia e verso quelli delle Servite Eremitane Scalze di Venezia e di
Chioggia. Si deve pure alla sua generosità se la Chiesa di S. Geremia a
Venezia, dove il Revoltella fu battezzato, può vantare quella magnifica
facciata ed il sontuoso pavimento. Volle che la Chiesa dei Mechitaristi
di Trieste avesse il suo organo. Donò lampade d'argento e un baldacchino
alla Chiesa di S. Giacomo Una lampada ricchissima donò pure al convento
di Ramie in Terra Santa. Altre chiese del Friuli, del Goriziano, del
Trevigiano, di Spalato, di Prevesa, di Antivari, della Turchia, della
Svizzera, quella votiva di Vienna, ebbero da lui doni e contributi.
Ma sopra tutto gli istituti di beneficenza furono sempre da lui
prediletti. Contribuì largamente all'erezione del nostro Civico
Ospedale. A lui devono riconoscenza 1'Ospedale Infantile, la Società di
Mutuo Soccorso per Infermi, l'Istituto dei Sordomuti di Gorizia, quello
delle Pericolanti di Venezia, degli Orfani dei Pescatori di Chioggia e
delle Convertite e Scarcerate. Fece generose elargizioni per il riscatto
dei fanciulli cristiani in Turchia e per i neofiti maomettani ed
israeliti.
Molte cose utili alla cultura morale e intellettuale della sua cara
Trieste ideò e compi, e fra le altre menzionate è, si può ben dire,
opera sua la Scuola Superiore di Commercio oggi Regia Università di
Scienze Commerciali, che, secondo il suo testamento, doveva intitolarsi
« Fondazione Pasquale Revoltella ». Da lui venne edita in 10.000
esemplari l'elegante Guida in lingua italiana, tedesca e inglese Tre
giorni a Trieste, scritta dal Formiggini, dal Kandier, dallo Scrinzi e
da lui stesso e pubblicata in onore dei delegati della Società delle
Ferrovie che nel settembre 1858 si riunirono a Trieste. Apprezzando i
sommi vantaggi che alla nostra città apportava il Taglio dell' Istmo di
Suez, ne fu a Trieste il primo e caldissimo propugnatore : perciò la
Società lo acclamò riconoscente suo Vice Presidente, e quindi, quale
Presidente della Camera di Commercio, fece parte della Commissione che
doveva riunirsi in Egitto col Lesseps per trattare di quella grande
impresa.
Pasquale Revoltella era celibe: un bellissimo uomo, alto e imponente di
persona e vivacissimo di modi. Pareva una figura napoleonica, elegante e
irreprensibile nella sua redingote color noce, i calzoni attillati, il
panciotto a fiorami e la tuba di castoro. Suoi amici inseparabili erano
il barone Hierschel, Pietro Kandier, i Sartorio e de Minerbi. In sul
mezzogiorno arrivava al suo posto di osservazione dinanzi al negozio
Tropeani, in Piazza della Borsa. Non conosceva il francese, ma al
passaggio di qualche bell'esemplare femminile faceva scappar di bocca
due o tre paroline in quella lingua. Fu un grande conquistatore di cuori
femminili e vuolsi che di molti abbia avuta assoluta padronanza. Ai suoi
pranzi ristretti conveniva anche quell'ineffabile e dotto medico che
portava il nome di dottor Alessandro de Goracuchi e che quarant'anni or
sono camminava ancora per le vie di Trieste a tutte l'ore in marsina,
con largo sparato della camicia e i polsini a bracchette.
Costui faceva sempre molto onore alla tavola del Revoltella, che
quand'era di buon umore si spassava delle sue trovate più o meno
scientifiche. Il dottor de Goracuchi, quando s'assideva a tavola poneva
il suo gibus a terra, fra i piedi. Ciò che non arrivava ad ingoiare, lo
faceva pian pianino scivolare dal piatto nel suo cappello. Il Revoltella
mandò a studiare all' Accademia di Venezia i pittori Francesco Beda e
Alberto Rieger e fu il protettore di Cesare Dell'Acqua e di Giuseppe
Lorenzo Gatteri.
Mandò la figlia del suo maggiordomo, Rosina Voena, cremonese, a studiare
il canto al morte di lui, vennero a mancare alla protetta i mezzi
necessari per la continuazione degli studi, fu il barone Giuseppe de
Morpurgo che continuò a sussidiarla. Essa divenne una cantante celebre e
con la famosa Kupfer esordi all'Apollo di Roma.
Durante la catastrofe del 1860 e lo scandalo delle forniture nella
guerra d'Italia del 1859 sorse un sospetto di correità anche su Pasquale
Revoltella che fu deferito al Tribunale di Vienna; egli però fu assolto
da ogni imputazione per mancanza di prove, e un anno dopo nominato
barone.
Pasquale Revoltella mori nella sua villa «al Cacciatore » nel settembre
del 1869 a 74 anni. La salma venne trasportata in città ed esposta nella
grande sala del secondo piano del suo palazzo, convertita in cappella
ardente. Tutta Trieste prese parte ai suoi funerali.
In lui la città nostra perdette un distinto e benemerito cittadino, -
scrive un giornale del tempo - che anche dalla tomba con la generosa
eloquenza delle sue beneficenze e dei suoi provvedimenti pare che
imponga silenzio a ingiusti avversari, ed ecciti i migliori a seguire il
suo esempio. Ultimo monumento che egli pose a se stesso è il suo
testamento. Da esso vedesi come egli amava la nostra città, come ne
desiderava il progresso, la prosperità, il decoro. Quanti seppero,
quanti sanno fare altrettanto? La pratica delle mercature fu il campo
dove egli colse tesori. Con la moderazione e con la rettitudine arricchì
per arricchire gli altri, per largheggiare coi poveri, per promuovere
utili e pratiche istituzioni, e da vero mecenate, allogando lavori
d'arti belle, incoraggiando chi per l'arte sentiva in sè ardere la
scintilla dell' ingegno. Ebbe per la madre un potente affetto e fu la
sola donna che egli amò davvero. Al posto della casa meschina ove egli
passò con essa i primi anni di vita nella più pura armonia di affetti,
elevò più tardi all'Armonia: un elegantissimo teatro, e la casetta
prossima ai suoi magazzini fu poscia da lui convertita in un palazzo che
per magnificenza, splendore e sontuosità è il gioiello della nostra
città. La solennità alla quale andiamo incontro, quale è appunto
l'inaugurazione del canale di Suez, ricorderà a onore e speranza di
Trieste la parte vivissima che egli prese in quest' opera di
civiltà. Fu sua madre che sempre lo incitò e incoraggiò a non disperare
di se stesso, a ripromettersi tutto dalle proprie risoluzioni ed a
formarsi quella temprata energia dell' indole che lo distinse poi in
tutto il corso della sua vita. Fu acclamato padre dei poveri e con
gentile pensiero li volle sempre partecipi nelle feste della carità. Fu
religioso ma senza ostentazione ed egli si era preparato già da lunga
pezza con filosofica e cristiana rassegnazione a rinunciare alla vita
presente.
Egli lasciò erede il Comune del suo palazzo con tutte le collezioni
d'arte, numismatiche, libri, mobili, a condizione che questo venisse
convertito in un Museo di Belle Arti, e vi aggiunse una generosa
dotazione. Mercé la generosità di questo suo figlio adottivo oggi
Trieste può vantare una istituzione che è di gran lustro e decoro del
paese : il Civico Museo Revoltella. Per la saggia amministrazione del
capitale fondazione, dovuta ai suoi Curatori, esso potè arricchirsi in
seguito di opere egregie.
Spero che questo Museo, - egli scrive nel suo testamento - prenderà
gradatamente quello sviluppo, che è nelle mie migliori intenzioni, e che
il Municipio non gravato da altre spese, tranne quelle d'imposta, di
custodia, della conservazione dello stabile e degli oggetti, vorrà
secondare le mie speciali raccomandazioni, dedicando la sua premurosa
sollecitudine ad un istituto che tornerà ad ornamento e decoro di questa
città tanto da me affezionata. Lasciò inoltre un capitale di tre milioni
di fiorini in legati e opere di beneficenza a Trieste e a Venezia.
Non dimenticò la Chiesa di S. Geremia in quest'ultima città, lasciando
un rilevante importo destinato all'ultimazione della medesima. Il
podestà dott. Massimiliano d'Angeli, commemorando il trapassato in una
seduta del Consiglio Comunale, deplorò la perdita di un uomo sotto ogni
titolo meritevole della riconoscenza della città, il quale, sebbene non
nato a Trieste, diede le più ampie prove di affezione e di simpatia a
questa città, ed anche morendo volle darle testimonianza del suo
affetto.