Storia del C

CARLO WOSTRY

 

STORIA DEL CIRCOLO ARTISTICO

DI TRIESTE

 

 

 

 

 

 

 

LE  " SABATINE  DEL  CIRCOLO  ARTISTICO "

 

 

 

 

Subito dopo le nostre prime riunioni, che ebbero lo scopo di festeggiare lo Scomparini e il Nordio, i nostri ritrovi ebdomandari (settimanali) si tennero al sabato: in quel giorno la Direzione aveva abitualmente seduta, dopo la quale la maggior parte dei componenti rimaneva a cena fatta in comune. Si può dire senza esitazione che una gran parte dell'attività del Circolo, manifestatasi nelle più varie forme, fu promossa o ebbe lo spunto dalle « sabatine » stesse. Un' idea lanciata, trovava pronta accoglienza presso gli artisti. Si facevano in quattro per elaborarla sul posto. In breve ora, tra discussioni e litigi, essa prendeva forma concreta. I partecipanti più o meno assidui a queste « sabatine » erano tutti quegli artisti e amici del Caffè Chiozza; altri si unirono di poi e per ben venti anni rimasero fedelissimi. Per i più vecchi la « sabatina » era diventata una necessità, della quale difficilmente avrebbero fatto a meno. Non si poteva nemmeno pensare che Riccardo Pitteri avesse potuto mancarvi una sola volta Non era ancora ammogliato. In compagnia era amenissimo: arguzie, aneddoti, epigrammi a non piú finire. Se si trovava con Attilio Hortis, diventava un fuoco d'artificio. L'Hortis era sempre pronto e poi andava a patti: « Una a me e una a te », e continuavano senza interruzione. Al Pitteri piaceva di essere ascoltato, e al Circolo aveva trovato una « galleria » che lo appagava. Udirlo era un vero piacere, perché condiva il suo parlare con una buona dose di spirito fine, se anche spesso pepato. Le sue improvvisazioni poetiche, per lo piú a rime obbligate, erano di grande prontezza. Durante una di quelle sere lo Zemba gli propose di dettare li, su due piedi, due sonetti con le stesse rime. Soggetti: il « Mosè » di Michelangelo e le rotondità del buon professore Erminio Urbach. Si mise a scrivere e in un batter d'occhio i due sonetti furono belli e pronti: l'uno maestoso e pomposo, l'altro, tutto l'opposto, pedestremente scollacciato.
Avveniva abbastanza spesso che il Circolo ricevesse persone distinte del Regno, da cui eravamo ancora separati; allora egli rivolgeva sempre i suoi discorsi agli ospiti in puro dialetto triestino. Così salutò Cesare Pascarella, Giulio Monteverde, Ettore Ferrari e tanti e tanti altri che presero parte alle nostre «sabatine ». Riccardo Pitteri era di statura piuttosto alta. Due folti baffi lo facevano rassomigliare un po' a un ufficiale in ritiro. Fronte alta e spaziosa e due occhi lucidi e traforanti. Attilio Hortis era sempre uno dei più festeggiati alle « sabatine ». In occasione della sua nomina a deputato al Parlamento di Vienna, Giovanni Moro era stato incaricato di riceverlo solennemente all'atto del suo ingresso al Circolo e di leggergli una poesia dettata dallo Zemba. Nell'attesa che giungesse l'onorevole, noi facevamo cerchio intorno al Moro, il quale si era truccato da Hortis stesso in maniera da parer proprio lui: zazzera, occhiali, palamidone. Faceva le prove camminando su e giù per l'anticamera, movendo dei passettini incerti con la testa un po' reclinata per aguzzare lo sguardo miope attraverso le lenti che aveva puntate sul naso, mentre teneva pronto in mano l'occhialino per vedere a distanza. In mezzo aveva posto una seggiola, alla quale faceva inchini e complimenti: Addio caro, addio caro !.. » Poi vi s'inciampava e si scusava, quindi: Riverisco ! Riverisco !.. Pareva proprio lui!  Intanto arrivò l' Hortis, accolto dai nostri schiamazzi, ai quali era abituato. Come stava per entrare, diede col naso in... sé medesimo! Al primo momento non capisce nulla; gli pare strana quella rassomiglianza! China la testa, con l' indice e il pollice spinge in su le palpebre e scruta il Moro oltre il cerchietto dei suoi occhiali. Lo osserva da vicino con gli occhi dubbiosi. Lo palpa... si palpa... e Sono io? Chi sei tu ? Cerca uno specchio, vi si guarda: è proprio lui o è quell'altro ? Ride. Poi : Riverisco ! Riverisco ! Uno gli piglia il pastrano, un altro il cappello. Lo si mette a sedere in una poltrona. Moro tira fuori il ditirambo e si mette a leggere; ma s' impapera e nessuno capisce una parola! Allora l' Hortis si alza, mette a sedere l'altro Hortis al suo posto e gli legge il ditirambo d'occasione: Di Roma antica i simulacri cari là, sull'amato colle, che recinge forte del guardo la natia Tergeste, parlan di gloria e fasti, e come amici eterni, nella lotta moderna, con l' insigni nomi e marmi, esultano dei figli alle Vittorie col latin nome vinte.
E oggi, nel gaudio ch'ogni cuore allarga, ancor piú belli nella lor fierezza, sembra che cantin col verso d' Orazio di Tergeste l'Attilio!

Le «sabatine» offrivano ai partecipanti le piú svariate attrattive. La cucina stava sotto la diretta sorveglianza di Nico De Amicis, cordon bleu lui stesso dell'arte culinaria, per quanto appartenesse alla categoria degli amatori. Talvolta indiceva dei concorsi per la preparazione di piatti speciali. Batteva tutti. Non fu mai vinto, Nemmeno in quella sera che una trentina di commensali dovettero giudicare tra lui e altri concorrenti che avevano imprudentemente azzardato di mettersi in lizza a preparar l'orzo e fagioli. A queste cene era talvolta obbligatorio di presentarsi camuffati  in varie guise. Una sera tutti vestiti da donna; un'altra trasformati in personaggi storici, e si diede il caso che Napoleone Bonaparte si trovò gomito a gomito con Luigi... Ma era Luigi Nosela, una macchietta triestina poco prima scomparsa; una terza tutti vestiti da romani, e qualcuno esagerò la verità storica al punto di finire in qualche loco col dito in gola. Una serie di « sabatine » letterarie e drammatiche ebbe un corso di molti mesi: versi a soggetto obbligato, poi due tragedie; « Francesca da Rimini », cinque atti scritti ognuno da autori diversi. Successone. L'altra intitolata a Ravachol, quell'anarchico che pochi mesi prima aveva fatto saltare in aria il Café Riche a Parigi. I personaggi del suo contorno furono scelti con alquanto squilibrio e con criteri molto liberi, cosi che accanto a Ravachol figuravano Giovanna d'Arco, Luigi XI, Sadi Carnot e sior Girolamo Scantimburgo (negoziante in manufatti e assiduo partecipante alle « sabatine » del Circolo). Anche questa tragedia era in cinque atti, naturalmente in versi, e ne fu affidata la elaborazione a Riccardo Pitteri, Isidoro Grünhut, Giuseppe Janesich, Giov. B. Zemba e a me. Ognuno doveva scrivere il proprio atto senza conoscere ciò che facevano gli altri. Multa a chi non avesse ottemperato a questa imposizione. Ognuno può figurarsi che razza di roba saltò fuori! Alcuni personaggi morirono tre o quattro volte. Fu un pasticcio che divertì tutti. Fece sensazione lo scioglimento della tragedia trovato da Isidoro Grünhut. Ravachol moriva suicida in prigione per aver ingoiato la ruggine che aveva grattato dalle serrature e dalle inferriate della sua cella. È veramente deplorevole che questi manoscritti non siano stati conservati alla letteratura italiana. Molto spesso queste serate tentavano Piero Vendrame, che era un dicitore superbo, dalla voce calda e melodiosa. I versi detti da lui acquistavano chiarezza e precisione. La musa che egli sceglieva per queste occasioni era scapigliata per dir poco e per non dir peggio, ma essa trovava nondimeno in lui un vivace ed espressivo porgitore. Un'altra volta si prese gusto alle conferenze. Si sorteggiavano i conferenzieri e s'imponeva loro il soggetto da trattare. Non potevano parlare più di venti minuti. Poi l'areopago della « sabatina » conferiva loro, a seconda del successo, l'immortalità, la mezza o il quarto d'immortalità, nonché i loro ritratti che si conservano ancora al Circolo.
Una sera memorabile fu quella data in onore dei tre fratelli Rota che si ritrovavano dopo molti anni riuniti a Trieste: Giuseppe Rota, maestro della Civica Cappella di S. Giusto, Giacomo Rota, artista di canto, e Giovanni Rota, il pittore che dimorava a Parigi.
La strenna del Circolo che si pubblicò in quegli anni raccolse in un volumetto gli scritti di tutti i nostri letterati e le illustrazioni di tutti gli artisti. Uno dei fedelissimi era il dott. Vittorio Serravallo, l'inventore del « Ferro-china ». Egli aveva lanciato questo eccellente prodotto proprio in quel tempo. Il favore che incontrò fu, si può dire, istantaneo, tanto che, dopo pochi mesi, si pensò di festeggiare l'inventore con una di quelle « sabatine » che lasciavano sovente ricordi e rimpianti, specialmente quando uno faceva le spese per tutti. Non ricordo in che forma si pensò di estrinsicare la nostra ammirazione per il compagno fedele. Ma molto probabilmente i versi, la prosa, la pittura e la scultura (la musica no, perché chi la suonava pretendeva che gli altri stessero zitti e ciò non conveniva a nessuno), dovevano prestarsi generosamente e senza alcuna taccagneria. Fatto il programma, si doveva risolvere la questione più interessante: la cena! Su ciò si andò subito d'accordo. Bastava ci fosse da mangiare! Si accese una viva discussione riguardo a un altro argomento non trascurabile: chi pagava? E come la relativa tassazione diventava alquanto imbrogliata, Oscar Menzel tagliò corto. Dichiarò, per evirare malintesi, disgusti e sopraffazioni : « Meglio che paghi lui »! Questa genialissima trovata non ebbe un solo oppositore! Si mandò copia del verbale della riunione al dott. Serravallo, il quale di buon grado si assoggettò a essere festeggiato. Tutte le forme di réclame costano care! Egli ci trattò molto bene, e, da uomo modesto, pregò che non uscissero di tasca i manoscritti che aspettavano lo spumante per dare la stura anche ad essi. Ci fu anche lo spumante, ma ciò che mandò a picco molte gambe già prima del pasto e che sfinì piú d'uno, anche dopo, fu il suo « Ferro-china », che per solito si prende in dose limitata prima di mangiare. Qualcuno lo trovò il giorno dopo molto traditore!
Il dott. Serravallo era appassionato cacciatore e aveva la sua tenuta a Ospo. C' invitò tutti a una battuta per il sabato prossimo e la domenica. Noi più giovani ci recammo a piedi e si dovette calcolare su tre ore almeno di cammino, a cagione delle armi che portavamo con noi. Pepi Pogna ci aveva procurato tutto un arsenale: schioppi, balestre, tromboni e una piccola spingarda, tutta roba del Teatro Comunale, fatta di cartapesta. Fu la spingarda che ci fece perdere tempo a tirarla su quei ripidi sentieri. Aveva le ruote solide e pesava abbastanza. Benché fosse di carnevale, le contadine che si recavano in città ci scansavano. Prima di arrivare sul posto, ci travestimmo alla meglio da lanzichenecchi e sbucammo presso il punto dove la battuta aveva luogo. Vedemmo proprio in quel momento il dott. Serravallo che faceva fare colla sua doppietta un vero salto mortale a una lepre. Vicino a lui stava il guardacaccia con lo schioppo in alto di attesa. Uno di noi piantò per ischerzo il suo trombone su di lui, che vistosi preso di mira gridò: « Giú, o tiro! » ma il dott. Serravallo, avendoci riconosciuti, fece deviare quel fucile, il cui colpo finì nel vuoto. Quel nostro scherzo avrebbe potuto avere delle serie conseguenze. Si entrò all'osteria colle nostre batterie e ciò mise tutti di buon umore.
A notte inoltrata si fece ritorno in città, e poiché nessuno voleva portarsi a casa quegli ordigni da teatro, si fece una sosta al Caffè Chiozza pensando di lasciarli nel retrobottega.
«No voio s'ciopi, no voio s'ciopi», disse sior Ferrari, facendoci occhi da basilisco, «andè con Dio..» Il beniamino delle « sabatine » del Circolo fu per un breve periodo un lupicino, che durante un viaggio intrapreso da Giuseppe Janesich e da me alle Porte di Ferro nel basso Danubio avevamo acquistato da un contadino che l'aveva appena tolto dalla madre. Poteva avere un mese o poco più e rassomigliava a un grazioso cagnolino. Durante il viaggio ci diede molto da fare a tirarlo su col latte, ma arrivò sano e salvo con noi a Trieste. L'amico lo alloggiò a casa sua, nel pollaio. Il lupetto si comportava bene e aveva ancora un temperamento da cane: immagine questa o inversione che in altri casi avrebbe significato il contrario. Ogni sabato lo portava al Circolo ed era diventato il giocattolo di tutti. Gli avevano dato il nome di Attila in omaggio a quel bonario civilizzatore, e per vederlo diventare più presto lupo, ognuno gli dava tanto da mangiare che al lunedì aveva ancora l'indigestione. Non andò guarì che, divenuto più grande, il lupetto non poté più essere condotto alle « sabatine » senza esser sorvegliato. Un giorno l'amico fu attratto al pollaio da un forte schiamazzo, ma vi giunse al momento che la battaglia era finita. Il lupo stava divorandosi una gallinetta di sua simpatia, mentre altre due giacevano esamini in fondo al pollaio. Non potendolo più tenere, lo diede a un Hagenbek della città e il lupetto fini in un giardino zoologico. Nel 1 891 il Circolo aveva ancora una volta cambiato di sede e s'era trasferito nell'edificio del Teatro Fenice, dove poteva disporre di una sala più grande. All'inaugurazione pensarono largamente, e senza lesinare, i maestri di musica con a capo il maestro Giuseppe Sinico. Misero al fuoco un gran pentolone e con saporito condimento prepararono un minestrone gustosissimo, con tutte le canzonette premiate fino allora ai concorsi del Circolo, che riuscì festevolissimo. Orchestra, cori e assoli con cantanti da gran teatri. Dopo il 1900 altri elementi pensarono a rallegrare quelle «sabatine». Antonio Cereser era inarrivabile. Avrebbe potuto benissimo calcare le scene dei teatri di varietà. Era comicissimo, cantava da tenore, da soprano, da basso, in tutte le lingue, in tutti i dialetti, in tutte le musiche, da uomo e da donna. Giuseppe Levi tenne una sera un concerto di violino con un giocattolo da bambini. Umberto Saba lesse i suoi versi. Antonio Ciclitira che aveva già civettato col palcoscenico di qualche grande teatro, cantava da baritono. Alberto Catalan col suo buon umore divertiva tutti. Un altro faceva da prestigiatore, da fachiro. Spessissimo Giovanni Marin che era buon pianista si metteva a improvvisare, e i suoi pasticci musicali riuscivano piacevolissimi. Ma anche la musica seria venne infine onorata: suonarono Cesare Barison ed Emilio Russi, né mancò di prodursi il nostro Quartetto d'archi; ma una sera gli strumenti furono invertiti: Jancovich suonò il violoncello e Baraldi il violino. E potrei ancora continuare, perché ognuno giungeva al sabato con qualche nuova sorpresa, e qualunque pretesto era buono per improvvisare li per li qualche cosa fuori programma. Vi fu qualcuno che una sera propose di festeggiare la nomina del presidente del Guatemala e di mandargli un telegramma di felicitazioni. Poi niente telegramma e niente felicitazioni: con quei soldi si fece portar in tavola qualche buona bottiglia e cosi quel presidente rimase senza il nostro incoraggiamento. Ma di tutte queste « sabatine » la più memorabile fu quella in cui si rappresentò l' « Otello » di Verdi. Dopo il mostruoso successo del « Trovatore », il pubblico viziato della « sabatina » volle l' «Otello», che s'era dato poco prima, e per la prima volta, al nostro Comunale. Io fui incaricato di metterlo in scena. Era il 1893. Questa volta l'impegno non era indifferente. Volevano un « Otello » col suo bravo balletto come non l'aveva ancora avuto l'Opéra di Parigi. Mi fu di aiuto nella bisogna Ciro Cavalieri, un maestro concertatore triestino ritornato allora da una stagione d'opera a Manilla. Egli era più vecchio di noi tutti. Tipo curioso sotto ogni riguardo. Fisicamente era alto, magro, con un nasone che gli pioveva in bocca. Per il resto non so se qualcuno l'abbia mai capito. Un giorno lo incontrai per istrada: «Dove vai?» (Credevo andasse al Caffè degli Specchi) «Vado a Nicaragua» rispose «Buon viaggio e ciao».
Rimase assente otto anni, poi altra comparsa a Trieste. « Ti fermi molto ? » domandai. « Parto stasera per le Mollucche ». Rimase assente altri ventiquattro anni. Tre anni fa un mio amico lo incontrò, non so dove in città. Vi si trovava da poche ore e ripartiva la sera stessa per non so dove. Io, dal tempo di cui parlo ora, non l'ho più riveduto. Prima di fare il commesso viaggiatore in opere teatrali, nell' America centrale e nelle Indie occidentali, cioè appena ebbe assolto il Conservatorio di Vienna, egli aveva fatto rappresentare, nella sala del Ridotto del Politeama Rossetti, una sua opera Occhi azzurri, tratto il soggetto dalle Macchiette campagnuole del Garzolini - è lo stesso Garzolini che racconta - e adattato alla scena dalla Bazzocchi, poetessa e distinta insegnante del nostro Liceo femminile, la quale poi insegnò a Milano, dove mori. Gli intenditori ravvisarono in quel lavoro limpida vena sorretta da robusta istrumentazione. Essa trovò favore in parecchi teatri del Regno e fuori, dove il Cavalieri la portò come maestro concertatore. Indole zingaresca, maestro dotato di soda cultura musicale, s'affidò alla ruota incostante della fortuna, ora godendone le grazie ora sopportandone i rabbuffi, mentre le qualità del suo ingegno gli avrebbero potuto procacciare meno agitata e certo più gloriosa esistenza.. All'epoca nel nostro Otello, egli era realmente ritornato da Manilla. L'idea dell'opera gli piacque. Scrisse la partitura per il balletto e istruì l'orchestra e i cori. Sissignori Un'orchestra di una trentina d' istrumenti. Concertò l'opera con ingegno e passione. Le parti principali erano distribuite così: Otello: Enea Ballerini; Desdemona: Nico De Amicis; Lago: Giovanni Zangrando; Cassio: Luigi Bonetti; Emilia: Giuseppe Marass. Il programma portava ancora: Attrezzista: Giuseppe Pogna.

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Edizioni Italo Svevo. Trieste, ottobre 1991