Subito dopo le nostre
prime riunioni, che ebbero lo scopo di festeggiare lo Scomparini e il
Nordio, i nostri ritrovi ebdomandari (settimanali) si tennero al sabato:
in quel giorno la Direzione aveva abitualmente seduta, dopo la quale la
maggior parte dei componenti rimaneva a cena fatta in comune. Si può
dire senza esitazione che una gran parte dell'attività del Circolo,
manifestatasi nelle più varie forme, fu promossa o ebbe lo spunto dalle
« sabatine » stesse. Un' idea lanciata, trovava pronta accoglienza
presso gli artisti. Si facevano in quattro per elaborarla sul posto. In
breve ora, tra discussioni e litigi, essa prendeva forma concreta. I
partecipanti più o meno assidui a queste « sabatine » erano tutti quegli
artisti e amici del Caffè Chiozza; altri si unirono di poi e per ben
venti anni rimasero fedelissimi. Per i più vecchi la « sabatina » era
diventata una necessità, della quale difficilmente avrebbero fatto a
meno. Non si poteva nemmeno pensare che Riccardo Pitteri avesse potuto
mancarvi una sola volta Non era ancora ammogliato. In compagnia era
amenissimo: arguzie, aneddoti, epigrammi a non piú finire. Se si trovava
con Attilio Hortis, diventava un fuoco d'artificio. L'Hortis era sempre
pronto e poi andava a patti: « Una a me e una a te », e continuavano
senza interruzione. Al Pitteri piaceva di essere ascoltato, e al Circolo
aveva trovato una « galleria » che lo appagava. Udirlo era un vero
piacere, perché condiva il suo parlare con una buona dose di spirito
fine, se anche spesso pepato. Le sue improvvisazioni poetiche, per lo
piú a rime obbligate, erano di grande prontezza. Durante una di quelle
sere lo Zemba gli propose di dettare li, su due piedi, due sonetti con
le stesse rime. Soggetti: il « Mosè » di Michelangelo e le rotondità del
buon professore Erminio Urbach. Si mise a scrivere e in un batter
d'occhio i due sonetti furono belli e pronti: l'uno maestoso e pomposo,
l'altro, tutto l'opposto, pedestremente scollacciato.
Avveniva abbastanza spesso che il Circolo ricevesse persone distinte del
Regno, da cui eravamo ancora separati; allora egli rivolgeva sempre i
suoi discorsi agli ospiti in puro dialetto triestino. Così salutò Cesare
Pascarella, Giulio Monteverde, Ettore Ferrari e tanti e tanti altri che
presero parte alle nostre «sabatine ». Riccardo Pitteri era di statura
piuttosto alta. Due folti baffi lo facevano rassomigliare un po' a un
ufficiale in ritiro. Fronte alta e spaziosa e due occhi lucidi e
traforanti. Attilio Hortis era sempre uno dei più festeggiati alle «
sabatine ». In occasione della sua nomina a deputato al Parlamento di
Vienna, Giovanni Moro era stato incaricato di riceverlo solennemente
all'atto del suo ingresso al Circolo e di leggergli una poesia dettata
dallo Zemba. Nell'attesa che giungesse l'onorevole, noi facevamo cerchio
intorno al Moro, il quale si era truccato da Hortis stesso in maniera da
parer proprio lui: zazzera, occhiali, palamidone. Faceva le prove
camminando su e giù per l'anticamera, movendo dei passettini incerti con
la testa un po' reclinata per aguzzare lo sguardo miope attraverso le
lenti che aveva puntate sul naso, mentre teneva pronto in mano
l'occhialino per vedere a distanza. In mezzo aveva posto una seggiola,
alla quale faceva inchini e complimenti: Addio caro, addio caro !.. »
Poi vi s'inciampava e si scusava, quindi: Riverisco ! Riverisco !..
Pareva proprio lui! Intanto arrivò l' Hortis, accolto dai nostri
schiamazzi, ai quali era abituato. Come stava per entrare, diede col
naso in... sé medesimo! Al primo momento non capisce nulla; gli pare
strana quella rassomiglianza! China la testa, con l' indice e il pollice
spinge in su le palpebre e scruta il Moro oltre il cerchietto dei suoi
occhiali. Lo osserva da vicino con gli occhi dubbiosi. Lo palpa... si
palpa... e Sono io? Chi sei tu ? Cerca uno specchio, vi si guarda: è
proprio lui o è quell'altro ? Ride. Poi : Riverisco ! Riverisco ! Uno
gli piglia il pastrano, un altro il cappello. Lo si mette a sedere in
una poltrona. Moro tira fuori il ditirambo e si mette a leggere; ma s'
impapera e nessuno capisce una parola! Allora l' Hortis si alza, mette a
sedere l'altro Hortis al suo posto e gli legge il ditirambo d'occasione:
Di Roma antica i simulacri cari là, sull'amato colle, che recinge forte
del guardo la natia Tergeste, parlan di gloria e fasti, e come amici
eterni, nella lotta moderna, con l' insigni nomi e marmi, esultano dei
figli alle Vittorie col latin nome vinte.
E oggi, nel gaudio ch'ogni cuore allarga, ancor piú belli nella lor
fierezza, sembra che cantin col verso d' Orazio di Tergeste l'Attilio!
Le «sabatine» offrivano
ai partecipanti le piú svariate attrattive. La cucina stava sotto la
diretta sorveglianza di Nico De Amicis, cordon bleu lui stesso dell'arte
culinaria, per quanto appartenesse alla categoria degli amatori.
Talvolta indiceva dei concorsi per la preparazione di piatti speciali.
Batteva tutti. Non fu mai vinto, Nemmeno in quella sera che una trentina
di commensali dovettero giudicare tra lui e altri concorrenti che
avevano imprudentemente azzardato di mettersi in lizza a preparar l'orzo
e fagioli. A queste cene era talvolta obbligatorio di presentarsi
camuffati in varie guise. Una sera tutti vestiti da donna;
un'altra trasformati in personaggi storici, e si diede il caso che
Napoleone Bonaparte si trovò gomito a gomito con Luigi... Ma era Luigi
Nosela, una macchietta triestina poco prima scomparsa; una terza tutti
vestiti da romani, e qualcuno esagerò la verità storica al punto di
finire in qualche loco col dito in gola. Una serie di « sabatine »
letterarie e drammatiche ebbe un corso di molti mesi: versi a soggetto
obbligato, poi due tragedie; « Francesca da Rimini », cinque atti
scritti ognuno da autori diversi. Successone. L'altra intitolata a
Ravachol, quell'anarchico che pochi mesi prima aveva fatto saltare in
aria il Café Riche a Parigi. I personaggi del suo contorno furono scelti
con alquanto squilibrio e con criteri molto liberi, cosi che accanto a
Ravachol figuravano Giovanna d'Arco, Luigi XI, Sadi Carnot e sior
Girolamo Scantimburgo (negoziante in manufatti e assiduo partecipante
alle « sabatine » del Circolo). Anche questa tragedia era in cinque
atti, naturalmente in versi, e ne fu affidata la elaborazione a Riccardo
Pitteri, Isidoro Grünhut, Giuseppe Janesich, Giov. B. Zemba e a me.
Ognuno doveva scrivere il proprio atto senza conoscere ciò che facevano
gli altri. Multa a chi non avesse ottemperato a questa imposizione.
Ognuno può figurarsi che razza di roba saltò fuori! Alcuni personaggi
morirono tre o quattro volte. Fu un pasticcio che divertì tutti. Fece
sensazione lo scioglimento della tragedia trovato da Isidoro Grünhut.
Ravachol moriva suicida in prigione per aver ingoiato la ruggine che
aveva grattato dalle serrature e dalle inferriate della sua cella. È
veramente deplorevole che questi manoscritti non siano stati conservati
alla letteratura italiana. Molto spesso queste serate tentavano Piero
Vendrame, che era un dicitore superbo, dalla voce calda e melodiosa. I
versi detti da lui acquistavano chiarezza e precisione. La musa che egli
sceglieva per queste occasioni era scapigliata per dir poco e per non
dir peggio, ma essa trovava nondimeno in lui un vivace ed espressivo
porgitore. Un'altra volta si prese gusto alle conferenze. Si
sorteggiavano i conferenzieri e s'imponeva loro il soggetto da trattare.
Non potevano parlare più di venti minuti. Poi l'areopago della «
sabatina » conferiva loro, a seconda del successo, l'immortalità, la
mezza o il quarto d'immortalità, nonché i loro ritratti che si
conservano ancora al Circolo.
Una sera memorabile fu quella data in onore dei tre fratelli Rota che si
ritrovavano dopo molti anni riuniti a Trieste: Giuseppe Rota, maestro
della Civica Cappella di S. Giusto, Giacomo Rota, artista di canto, e
Giovanni Rota, il pittore che dimorava a Parigi.
La strenna del Circolo che si pubblicò in quegli anni raccolse in un
volumetto gli scritti di tutti i nostri letterati e le illustrazioni di
tutti gli artisti. Uno dei fedelissimi era il dott. Vittorio Serravallo,
l'inventore del « Ferro-china ». Egli aveva lanciato questo eccellente
prodotto proprio in quel tempo. Il favore che incontrò fu, si può dire,
istantaneo, tanto che, dopo pochi mesi, si pensò di festeggiare
l'inventore con una di quelle « sabatine » che lasciavano sovente
ricordi e rimpianti, specialmente quando uno faceva le spese per tutti.
Non ricordo in che forma si pensò di estrinsicare la nostra ammirazione
per il compagno fedele. Ma molto probabilmente i versi, la prosa, la
pittura e la scultura (la musica no, perché chi la suonava pretendeva
che gli altri stessero zitti e ciò non conveniva a nessuno), dovevano
prestarsi generosamente e senza alcuna taccagneria. Fatto il programma,
si doveva risolvere la questione più interessante: la cena! Su ciò si
andò subito d'accordo. Bastava ci fosse da mangiare! Si accese una viva
discussione riguardo a un altro argomento non trascurabile: chi pagava?
E come la relativa tassazione diventava alquanto imbrogliata, Oscar
Menzel tagliò corto. Dichiarò, per evirare malintesi, disgusti e
sopraffazioni : « Meglio che paghi lui »! Questa genialissima trovata
non ebbe un solo oppositore! Si mandò copia del verbale della riunione
al dott. Serravallo, il quale di buon grado si assoggettò a essere
festeggiato. Tutte le forme di réclame costano care! Egli ci trattò
molto bene, e, da uomo modesto, pregò che non uscissero di tasca i
manoscritti che aspettavano lo spumante per dare la stura anche ad essi.
Ci fu anche lo spumante, ma ciò che mandò a picco molte gambe già prima
del pasto e che sfinì piú d'uno, anche dopo, fu il suo « Ferro-china »,
che per solito si prende in dose limitata prima di mangiare. Qualcuno lo
trovò il giorno dopo molto traditore!
Il dott. Serravallo era appassionato cacciatore e aveva la sua tenuta a
Ospo. C' invitò tutti a una battuta per il sabato prossimo e la
domenica. Noi più giovani ci recammo a piedi e si dovette calcolare su
tre ore almeno di cammino, a cagione delle armi che portavamo con noi.
Pepi Pogna ci aveva procurato tutto un arsenale: schioppi, balestre,
tromboni e una piccola spingarda, tutta roba del Teatro Comunale, fatta
di cartapesta. Fu la spingarda che ci fece perdere tempo a tirarla su
quei ripidi sentieri. Aveva le ruote solide e pesava abbastanza. Benché
fosse di carnevale, le contadine che si recavano in città ci scansavano.
Prima di arrivare sul posto, ci travestimmo alla meglio da
lanzichenecchi e sbucammo presso il punto dove la battuta aveva luogo.
Vedemmo proprio in quel momento il dott. Serravallo che faceva fare
colla sua doppietta un vero salto mortale a una lepre. Vicino a lui
stava il guardacaccia con lo schioppo in alto di attesa. Uno di noi
piantò per ischerzo il suo trombone su di lui, che vistosi preso di mira
gridò: « Giú, o tiro! » ma il dott. Serravallo, avendoci riconosciuti,
fece deviare quel fucile, il cui colpo finì nel vuoto. Quel nostro
scherzo avrebbe potuto avere delle serie conseguenze. Si entrò
all'osteria colle nostre batterie e ciò mise tutti di buon umore.
A notte inoltrata si fece ritorno in città, e poiché nessuno voleva
portarsi a casa quegli ordigni da teatro, si fece una sosta al Caffè
Chiozza pensando di lasciarli nel retrobottega.
«No voio s'ciopi, no voio s'ciopi», disse sior Ferrari, facendoci occhi
da basilisco, «andè con Dio..» Il beniamino delle « sabatine » del
Circolo fu per un breve periodo un lupicino, che durante un viaggio
intrapreso da Giuseppe Janesich e da me alle Porte di Ferro nel basso
Danubio avevamo acquistato da un contadino che l'aveva appena tolto
dalla madre. Poteva avere un mese o poco più e rassomigliava a un
grazioso cagnolino. Durante il viaggio ci diede molto da fare a tirarlo
su col latte, ma arrivò sano e salvo con noi a Trieste. L'amico lo
alloggiò a casa sua, nel pollaio. Il lupetto si comportava bene e aveva
ancora un temperamento da cane: immagine questa o inversione che in
altri casi avrebbe significato il contrario. Ogni sabato lo portava al
Circolo ed era diventato il giocattolo di tutti. Gli avevano dato il
nome di Attila in omaggio a quel bonario civilizzatore, e per vederlo
diventare più presto lupo, ognuno gli dava tanto da mangiare che al
lunedì aveva ancora l'indigestione. Non andò guarì che, divenuto più
grande, il lupetto non poté più essere condotto alle « sabatine » senza
esser sorvegliato. Un giorno l'amico fu attratto al pollaio da un forte
schiamazzo, ma vi giunse al momento che la battaglia era finita. Il lupo
stava divorandosi una gallinetta di sua simpatia, mentre altre due
giacevano esamini in fondo al pollaio. Non potendolo più tenere, lo
diede a un Hagenbek della città e il lupetto fini in un giardino
zoologico. Nel 1 891 il Circolo aveva ancora una volta cambiato di sede
e s'era trasferito nell'edificio del Teatro Fenice, dove poteva disporre
di una sala più grande. All'inaugurazione pensarono largamente, e senza
lesinare, i maestri di musica con a capo il maestro Giuseppe Sinico.
Misero al fuoco un gran pentolone e con saporito condimento prepararono
un minestrone gustosissimo, con tutte le canzonette premiate fino allora
ai concorsi del Circolo, che riuscì festevolissimo. Orchestra, cori e
assoli con cantanti da gran teatri. Dopo il 1900 altri elementi
pensarono a rallegrare quelle «sabatine». Antonio Cereser era
inarrivabile. Avrebbe potuto benissimo calcare le scene dei teatri di
varietà. Era comicissimo, cantava da tenore, da soprano, da basso, in
tutte le lingue, in tutti i dialetti, in tutte le musiche, da uomo e da
donna. Giuseppe Levi tenne una sera un concerto di violino con un
giocattolo da bambini. Umberto Saba lesse i suoi versi. Antonio
Ciclitira che aveva già civettato col palcoscenico di qualche grande
teatro, cantava da baritono. Alberto Catalan col suo buon umore
divertiva tutti. Un altro faceva da prestigiatore, da fachiro.
Spessissimo Giovanni Marin che era buon pianista si metteva a
improvvisare, e i suoi pasticci musicali riuscivano piacevolissimi. Ma
anche la musica seria venne infine onorata: suonarono Cesare Barison ed
Emilio Russi, né mancò di prodursi il nostro Quartetto d'archi; ma una
sera gli strumenti furono invertiti: Jancovich suonò il violoncello e
Baraldi il violino. E potrei ancora continuare, perché ognuno giungeva
al sabato con qualche nuova sorpresa, e qualunque pretesto era buono per
improvvisare li per li qualche cosa fuori programma. Vi fu qualcuno che
una sera propose di festeggiare la nomina del presidente del Guatemala e
di mandargli un telegramma di felicitazioni. Poi niente telegramma e
niente felicitazioni: con quei soldi si fece portar in tavola qualche
buona bottiglia e cosi quel presidente rimase senza il nostro
incoraggiamento. Ma di tutte queste « sabatine » la più memorabile fu
quella in cui si rappresentò l' « Otello » di Verdi. Dopo il mostruoso
successo del « Trovatore », il pubblico viziato della « sabatina » volle
l' «Otello», che s'era dato poco prima, e per la prima volta, al nostro
Comunale. Io fui incaricato di metterlo in scena. Era il 1893. Questa
volta l'impegno non era indifferente. Volevano un « Otello » col suo
bravo balletto come non l'aveva ancora avuto l'Opéra di Parigi. Mi fu di
aiuto nella bisogna Ciro Cavalieri, un maestro concertatore triestino
ritornato allora da una stagione d'opera a Manilla. Egli era più vecchio
di noi tutti. Tipo curioso sotto ogni riguardo. Fisicamente era alto,
magro, con un nasone che gli pioveva in bocca. Per il resto non so se
qualcuno l'abbia mai capito. Un giorno lo incontrai per istrada: «Dove
vai?» (Credevo andasse al Caffè degli Specchi) «Vado a Nicaragua»
rispose «Buon viaggio e ciao».
Rimase assente otto anni, poi altra comparsa a Trieste. « Ti fermi molto
? » domandai. « Parto stasera per le Mollucche ». Rimase assente altri
ventiquattro anni. Tre anni fa un mio amico lo incontrò, non so dove in
città. Vi si trovava da poche ore e ripartiva la sera stessa per non so
dove. Io, dal tempo di cui parlo ora, non l'ho più riveduto. Prima di
fare il commesso viaggiatore in opere teatrali, nell' America centrale e
nelle Indie occidentali, cioè appena ebbe assolto il Conservatorio di
Vienna, egli aveva fatto rappresentare, nella sala del Ridotto del
Politeama Rossetti, una sua opera Occhi azzurri, tratto il soggetto
dalle Macchiette campagnuole del Garzolini - è lo stesso Garzolini che
racconta - e adattato alla scena dalla Bazzocchi, poetessa e distinta
insegnante del nostro Liceo femminile, la quale poi insegnò a Milano,
dove mori. Gli intenditori ravvisarono in quel lavoro limpida vena
sorretta da robusta istrumentazione. Essa trovò favore in parecchi
teatri del Regno e fuori, dove il Cavalieri la portò come maestro
concertatore. Indole zingaresca, maestro dotato di soda cultura
musicale, s'affidò alla ruota incostante della fortuna, ora godendone le
grazie ora sopportandone i rabbuffi, mentre le qualità del suo ingegno
gli avrebbero potuto procacciare meno agitata e certo più gloriosa
esistenza.. All'epoca nel nostro Otello, egli era realmente ritornato da
Manilla. L'idea dell'opera gli piacque. Scrisse la partitura per il
balletto e istruì l'orchestra e i cori. Sissignori Un'orchestra di una
trentina d' istrumenti. Concertò l'opera con ingegno e passione. Le
parti principali erano distribuite così: Otello: Enea Ballerini;
Desdemona: Nico De Amicis; Lago: Giovanni Zangrando; Cassio: Luigi
Bonetti; Emilia: Giuseppe Marass. Il programma portava ancora:
Attrezzista: Giuseppe Pogna.