Vito Timmel
(Vienna 1886 - Trieste 1958)
arte a metà fra
Vienna e Trieste
Alessandra Doratti
Vito Timmel fu uno dei più originali rappresentanti della cultura
mitteleuropea tra i pittori della regione Friuli Venezia Giulia. Egli
nasce a Vienna il 19 luglio 1886, da un nobile tedesco e da una contessa
friulana; si trasferisce a Trieste con i genitori circa nel 1890. Dal
1901 al 1905 è allievo della scuola per capi d'Arte, sezione pittori e
decoratori, di Trieste sotto la guida di Eugenio Scomparini. Si iscrive
poi alla Kunstgewerbeschule di Vienna, nella speranza poi delusa di
avere come maestro Gustav Klimt.
Nel 1906 passa all'Accademia di belle arti, sempre a Vienna, sotto la
guida di pittori tradizionalisti; nel 1909 ritorna a Trieste. Dal 1913
(anno della sua opera più importante: la decorazione del cinema Italia)
svolge a Trieste e nelle vicinanze un'intensa attività artistica, che si
va tuttavia rarefacendo, almeno per quanto riguarda la sua presenza alle
mostre cittadine, dopo il 1930. Nel frattempo si sposa due volte, ha un
figlio dalla prima moglie, e separato dalla seconda, si riduce a vivere
nella città vecchia come in un "inferno" (così lo definisce lui stesso
nel suo diario: il magico taccuino).
Nel 1946 viene ricoverato all'ospedale di Trieste e muore nel 1949.
Naturalmente non si può comprendere a pieno l'artista se non si indaga
sul retroterra culturale che questi si trova alle spalle. Quali dunque
sono gli antefatti dai quali si forma il linguaggio pittorico del Timmel'
Primi passi verso l'Austria
Trieste, e questo lo si può notare in maniera macroscopica in
architettura, dalla seconda metà del Settecento si trovava a
sperimentare contemporaneamente due tradizioni artistiche ben
differenziate: quella italiana e quella asburgica, la cui conoscenza era
favorita dalla situazione politica e dalla posizione geografica della
città.
In questo clima particolarissimo di incroci culturali mosse i primi
passi Vito Timmel, avendo come guida iniziale il pittore Eugenio
Scomparini. Questi a sua volta aveva frequentato l'Accademia di Venezia,
e dunque la sua pittura era volta a rappresentare principalmente
l'aspetto esteriore delle cose attraverso pennellate frequenti e ariose
e impasti densi. Ciò non dovette apparire come l'ideale per il giovane e
ribelle Timmel, che prese la strada per Vienna quanto prima.
Le ragioni che mossero l'artista a indirizzarsi verso Vienna, mentre la
maggior parte dei pittori concittadini aveva studiato a Monaco, sono da
ricercarsi nella sua aspirazione di porsi sotto la guida del grande
maestro secessionista Gustav Klimt: si andava infatti diffondendo anche
a Trieste, in quell'inizio di secolo, il nuovo gusto liberty, che si
presentava come l'arte d'avanguardia sul quale ogni artista doveva
aggiornarsi.
Klimt, anche se non fu direttamente il maestro di Timmel, agì come
"catalizzatore" sulla sua arte, infondendo a essa un significato
preciso.
All'inizio della sua carriera il Timmel denota un grande interesse per
il verismo e il colorismo della tradizione paesaggistica italiana, poi
si fa vivo in lui il gusto per il post-impressionismo francese e
soprattutto per Cézanne, non senza qualche attacco all'impressionismo
tedesco del Liebermann.
Posteriormente alla grande mostra di Klimt alla Biennale di Venezia del
1910, inizia il periodo klimtiano vero e proprio, il più significativo
di tutta la sua produzione e il naturale coronamento delle sue
aspirazioni. Si rivelano strette connessioni tra le opere dei due
artisti Klimt e Timmel nell'insistivo e prezioso decorativismo dello
sfondo, nello sviluppo planimetrico della composizione, nell'andamento
della linea. Ma Klimt fu presto, non solo per Timmel, il grande maestro
da imitare, bensì anche colui che gli schiuse la strada verso la
conoscenza di una più vasta cultura europea.
Intorno al 1920 il linguaggio formale del Timmel si evolve in chiave
simbolista e fino agli anni '40 la sua produzione vede coesistere motivi
del tutto nuovi accanto a dei ritorni klimtiani e derivati dalle stampe
giapponesi. L'artista si avvicina alla pittura metafisica del primo
Novecento, come comprovano le sue famose "Maschere" del '31 e il
ritratto della signora Rostirolla del '40. Appare così evidente che
mentre si allentano in lui i ricordi della secessione viennese, si
ravvivano invece i contatti con la tradizione pittorica italiana dal
simbolismo di Segantini alle esperienze metafisiche e novecentiste di
cui sono portavoci a Trieste dal '25 al '40 Arturo Nathan e Carlo Sbisà.
Conclude l'attività del Timmel una serie di paesaggi dove, nella
rappresentazione degli oggetti, di una lucidità onirica e nella
prospettiva dilatata oltre ogni limite della credibilità, è evidente una
connessione al surrealismo.
Vi è in lui un'evoluzione stilistica anche se nei dipinti collega i vari
simboli visivi (linea, chiaroscuro, colore) secondo regole grammaticali
e sintattiche ben precise; cioè secondo un linguaggio o codice
chiaramente istituzionalizzato: sia esso il postimpressionismo, il
liberty o il simbolismo, il Novecento italiano e il surrealismo.
La domanda che automaticamente ci si pone ormai è se il Timmel sia stato
un pittore originale o se piuttosto non si sia limitato ad accogliere
passivamente le più disparate esperienze artistiche con le quali era
venuto in contatto. La diretta lettura delle sue opere è sufficiente a
confermarci che ci troviamo di fronte a una fortissima personalità che,
se pure accolse a piene mani i suggerimenti propostigli da altri pittori
o da diverse correnti artistiche, non fu mai schiavo di alcuno ma seppe
esprimersi in persona propria.
Si può dire che c'è in lui una forza, nell'intensità del colore
nell'impeto del segno, nell'irruenza della composizione, nella sensuale
adesione a una tematica spesso freudiana, che lo porta
all'interpretazione personale degli stili correnti. E appunto questa sua
forza costituisce il pregio e il limite della sua arte: perché seppe
imprimere il suggello dell'originalità alle opere migliori, ma fu anche
causa di cedimenti, per l'enfasi eccessiva e l'insito simbolismo delle
opere della maturità e la forte ripetizione di identici motivi nella
rarefatta atmosfera degli ultimi quadri.
Una celletta seminascosta
Tra quelle dei grandi internati dell'arte come il Tasso o l'Hölderlin
c'è una celletta laterale e seminascosta anche per il pittore triestino
Vito Timmel, morto nell'ospedale psichiatrico della sua città, dopo tre
anni di ricovero, nel gennaio del 1949.
Era un uomo alle soglie dell'anzianità: doveva compiere il suo
sessantesimo anno di vita. Dei circa mille giorni passati in manicomio
ha lasciato una sorta di diario visivo, raccolto con cura fraterna
dall'amico e collega Cesare Sofianopulo. Sono piccoli disegni a matita e
a penna eseguiti su minuscoli fogli, sul retro di scartafacci
pubblicitari e su pezzi di cartone.
Ogni disegno reca una data, un titolo e un breve commento da parte
dell'autore, oltre al saluto cortese rivolto all'amico. Che cosa è
rimasto in quei disegni, della pittura tracotante e a volte
angosciosamente magniloquente praticata nei decenni precedenti dal
Timmel' Quasi nulla. I grandi corpi, raffigurati in posa o in movimenti
complicati hanno ceduto il posto a pupazzetti microscopici, le
sofisticate vedute paesaggistiche a schemi continuamente iterati di
alberi e di onde marine, i cieli tumultuosi, al bianco, ora ingiallito
della carta. La natura è quasi completamente scomparsa: è stata
soppiantata da un intrigo minuzioso di architetture, dove esterno e
interno si confondono in un pullulare di mattoni. "Sogni", li chiama
l'autore. E invece sono la registrazione caparbia di piccoli eventi
quotidiani: la passeggiata con un amico, l'incontro con una persona, con
un animale, una partita a carte.
Tutto è visto dall'alto e da lontano, eventi consecutivi vivono tra loro
in uno spazio che li unisce naturalmente e la cui connotazione più
immediata è quella del labirinto.
Il linguaggio pittorico di Timmel non si è destrutturato; si è
semplicemente spogliato di tutto. Ciò che non ha saputo esprimere la
complicata simbologia della sua pittura, tanto celebrata, lo ha espresso
compiutamente la sua volontaria o coatta rinuncia all'espressione.
È comunque molto difficile dire quanta intenzionalità ci fosse in
quest'opera di riduzione: l'astuzia latente e l'ironia nascosta di quei
disegni testimoniano di una coscienza non completamente distrutta, nella
quale si sovrappone la memoria di eventi luttuosi al ricordo di allegre
bevute con gli amici. Qui il tempo ha perso la sua direzione e va avanti
e indietro senza una meta.
Alessandra Doratti