Un mito di nome Cartier

 

Alessandra Doratti

 

 

 

Quattro generazioni si sono succedute alla guida dell'atelier di rue de la Paix: dietro le loro vicende, c'è la saga di una grande famiglia venuta su dal niente e che ha conquistato il mondo.
Parigi nel 1847 era percorsa da brividi rivoluzionari, e l'Europa era in subbuglio. A 28 anni, Louis-Francois Cartier, figlio di Pierre, un abile cesellatore di calci da fucile, rilevava da maitre Picard la bottega di Montorgueil, dove era entrato appena diciottenne per imparare i segreti della gioielleria. Munito di un buon bagaglio di conoscenze tecniche e di una gran voglia di farsi largo nella vita, Francois aveva un obbiettivo solo: uguagliare i vari Fossin e Bapst, i migliori della sua professione. La politica non lo interessava granché e il futuro non gli faceva paura. «Dopo le rivoluzioni - amava ripetere suo padre - la gente desidera ancora di più il lusso e le feste».
Di lì a qualche anno le barricate del '48 sarebbero state solo uno scomodo ricordo e il colpo di mano di Luigi Napoleone avrebbe inaugurato l'era dei banchetti e dei ricevimenti sontuosi consumati al ritmo dei valzer di Strauss. All'alba del 1853 gli affari andavano a gonfie vele e, saldati i debiti per l'acquisto del primo atelier, maitre Cartier poteva aprire un altro laboratorio in rue Neuve des Petit Champs.
Una moda conformista e servile dominava la gioielleria e l'intraprendente Francois si adeguava a malincuore al revival del Rinascimento, alle citazioni pompeiane e, a tutta quella profusione di oro e di smalto. L'occasione per dare libero sfogo alla sua creatività gliela fornì la marchesa di Mennelglaise, una gran dama bene introdotta alle Tuileries. Per lei il gioielliere realizzò una montatura insolita, agile e leggera, tutta giocata sul colore e sul sapiente accostamento delle pietre. Durante un ricevimento in casa della principessa di Metternich, il conte di Nieuwekerke, che i mormorii di corte dicevano essere l'amante della principessa Matilde, cugina dell'imperatore, notò il singolare gioiello e si informò sul nome dell'autore.
Per Francoise fu l'inizio del successo: pochi mesi e il titolo di fornitore di Sua Altezza Imperiale la principessa Matilde era suo. La protezione e l'ammirazione di un esponente della famiglia imperiale assicurarono alla Cartier una clientela di prestigio che esigeva di essere accolta in una sede più consona alle mutate fortune.
Col fiuto di un uomo d'affari meglio navigato, Francois acquistò allora il negozio del gioielliere Gillion al numero 9 del centralissimo boulevard des Italiens, proprio di fianco a quel tempio di perdizione che era il Café Anglais. L'intuizione si rivelò azzeccata. La vicinanza al luogo di piacere più famoso della capitale, dove stazionavano regolarmente i più facoltosi gaudenti del bel mondo a giocare a carte e a civettare con le amichette di turno, procurò molti buoni affari alla maison. Erano gli anni in cui il sogno di un ricco protettore spingeva frotte di giovani provinciali a tentare la fortuna nei famosi locali dei café-concerto e nelle case governate da squallide "orchesse". Le loro eroine si chiamavano Anna Deslions, gran consumatrice di perle e di sautoir firmati Cartier (ispirerà a Zola il personaggio di Nanà) e Thérèse Lachman, marchesa di Paiva, accorta tesoriera dei propri guadagni, a tal punto da farsi costruire un lussuoso palazzo sugli Champs Elysées.

 


L'Esposizione del 1867 celebrava i fasti del Secondo Impero

Nel 1867 l'Esposizione universale, inaugurata alla presenza delle migliori teste coronate di tutta Europa, celebrava i fasti del Secondo Impero, e Cartier, divenuto da poco fornitore di Eugenia, consorte di Napoleone III, nel padiglione della gioielleria esponeva accanto ai grandi Sauvenat, Massin, Vever, Bapst, Fossin e al giovane Boucheron. A 48 anni Francois aveva raggiunto il suo obbiettivo. Toccava ora al figlio Alfred cercare di salire più in alto.
Nonostante la guerra con la Prussia e la Comune, i primi anni '70 videro l'atelier Cartier et Fils meta di un numero sempre crescente di compratori, attratti da modelli originali che non avevano nulla a che spartire con le banali riproposizioni di fosse egizie, etrusche, medievali di molti gioiellieri contemporanei. Tutto ciò mentre giungevano dal Sud Africa gli echi della scoperta di diamanti di notevoli dimensioni nelle terre di proprietà dei fratelli De Peers e si aprivano per la gioielleria le frontiere alla sperimentazioni più ardite.
Alfred, che dal padre aveva ereditato il talento, non si fece cogliere impreparato, e alla grande Esposizione universale del 1889 stupì il mondo intero con un abito intarsiato di diamanti realizzato assieme all'amico Worth, l'autorità per eccellenza in fatto di moda. Si avvicinava la fine del secolo, Parigi dimenticava gli anni opachi della disfatta e ritornava ai suoi pettegolezzi, ai suoi appuntamenti mondani. Gli anni radiosi della Belle Epoque erano alle soglie.
In quel clima di febbrile attesa si celebravano i matrimoni del secolo, gli incroci dollari-nobiltà. I laboratori Cartier ebbero un gran da fare per consegnare in tempo i regali per gli sposi, gli ornamenti e i gioielli degli invitati a nozze fra il rampollo più desiderabile d'Europa, Boniface de Castellane, e la figlia del re dei miliardari americani, Anna Gould, e per quelle fra il duca di Marlborough e Consuelo Vanderbilt. Per l'occasione una mano la diede anche il figlio maggiore di Alfred.
A 18 anni Louis, affascinante, anticonformista, dotato di un magnetismo straordinario, rivelava già talenti e intuizioni eccezionali. Era un grande ammiratore del '700 che considerava un'epoca fra le più sontuose e raffinate, in cui i gioiellieri avevano intuito le enormi potenzialità del platino.
L'introduzione del platino nel 1898, che abolì l'antiestetico uso delle graffe a tutto vantaggio di montature agili e leggere, fu la prima di una lunga serie di brevetti e di innovazioni messe a punto da Louis. In quel medesimo anno l'azienda si trasferì al 13 dell'elegante rue de la Paix, a pochi passi dall'atelier di Jean-Philippe Worth, divenuto suocero di Louis dopo il matrimonio con la figlia André-Caroline.

 


Con il nuovo secolo l'elenco dei clienti si allungherà di molto


L'inizio del nuovo secolo aggiunse nuovi nomi al registro dei clienti: Edoardo VII (per la sua incoronazione ordinò ai gioiellieri 27 diademi) e la regina Alessandra, l'Aga Khan, Maria Bonaparte, i granduchi Paolo di Russia, Alexis e Wladimiro, la regina di Spagna. L'attività della casa era in piena espansione, dopo il varo del reparto orologeria, un progetto che stava particolarmente a cuore a Louis e per il quale erano stati reclutati i maggiori maestri e artigiani del settore. Nel 1902 fu affidata al giovane Jacques la conduzione della filiale londinese aperta in Burlington Street, e quattro anni dopo toccò al secondogenito Pierre impiantare la sede di New York: la dinastia Cartier era ora presente nelle tre città più importanti del mondo. A Parigi, intanto, Louis continuava a dare libero sfogo alla sua inesauribile vena creativa. Realizzò i gioielli trasformabili: diademi che diventavano spille e collane, fermagli mobili che prendevano forma di orecchini. Nel 1907 regalò all'eroe dell'aviazione, Santos Dumont, il famoso orologio da polso passato alla storia con il nome del giovane brasiliano. La febbre della creazione lo coglieva dovunque e nei momenti più impensati. I più originali modelli del periodo déco li schizzò nel 1910 sul taccuino che portava sempre con sé alle rappresentazioni dei balletti russi di Diaghilev. Anche la guerra a suo modo fu una fonte di ispirazione. Nel 1916 Louis creò l'orologio da polso "Tank L. C." dal disegno "essenziale come un carro armato". Alla fine del conflitto, il Ritz, i té danzanti, i locali notturni, il trionfo del jazz e del tango, le provocazioni dada, la scoperta del cubismo, le ragazze col taglio alla "garconne" lanciate da Coco Chanel: tutto questo era materia di studio per Luois.
All'Esposizione delle arti decorative del 1925 presentò i gioielli dalle scarne geometrie déco, ma ravvivati da colori e accostamenti insoliti di onice, diamanti, giade verdi e coralli rosa. L'incontro con Jeanne Toussaint in quel periodo segnò uno dei momenti più felici e la loro collaborazione si rivelerà molto preziosa per il futuro della maison.


Nel 1935 una donna diviene responsabile dell'alta gioielleria

Nel 1929 la giovane donna fu nominata responsabile del dipartimento "S" (sera) e incaricata di seguire la nuova collezione di carte da lettera, accessori, nécessaire da viaggio. Le indiscusse qualità imprenditoriali e creative le fruttarono poi nel 1935 anche la nomina di responsabile dell'alta gioielleria.
Allo scoppio della seconda Guerra Mondiale, Louis lasciò la Francia e raggiunse il fratello Pierre a New York, mentre Jacques si era ormai stabilito da molto tempo a Sait-Moritz.
Per tutto il periodo dell'occupazione nazista Jeanne Toussaint lasciò esposto in vetrina un gioiello ideato e realizzato da lei, l'"Uccello in gabbia". La cosa non piacque molto ai tedeschi. Come scrive Gilbert Gautier nel suo libro La saga dei Cartier: «Il controspionaggio tedesco, avvertito dell'aiuto che Cartier-Londra aveva dato a De Gaulle (i locali della gioielleria erano il suo quartier generale) convocò la Toussaint per comunicarle che gli uccelli in gabbia erano un'intollerabile provocazione». Poi, per fortuna la faccenda non ebbe un seguito e Jeanne non fu più importunata. Ma né Louis né Jacques fecero in tempo a vedere la Francia libera: morirono entrambi a distanza di sei mesi l'uno dall'altro, nel 1942.
Gli eredi avrebbero retto l'impero dei Cartier ancora per 20 anni, fino al 1962, anno in cui la Cartier-New York fu ceduta a Edward Goldstein, presidente del gruppo di gioiellerie "Black Star Frost". Nel 1972 toccò a Robert Hocq, re degli accendini a gas, rilevare la quota di maggioranza. Un giorno Louis aveva detto ai fratelli: «Spariti tu e Pierre, tu Jacques e io stesso, tutto prosegua e Cartier sopravviva: siamo noi a dover passare la mano».

 

 

 

Alessandra Doratti