Umberto Veruda a Parigi

 

 

Walter Abrami

 

 

 

 

 

Nell’abitazione-studio di quel sensibilissimo, appassionato e intuitivo pittore autodidatta che fu Vittorio Cossutta (Trieste 1903 - 1992), tra tubetti di colori, pennelli consumati, vernici appiccicaticce, cartoni unti d’olio di lino, libri e cataloghi d’arte, egli conservava gelosamente una fedele copia di modeste dimensioni, ma di indiscutibile veridicità, del Nudo di schiena di Umberto Veruda (Trieste 1868 - 1904); opera tarda questa, databile 1901-1904, non firmata, entrata nella raccolta di Italo Svevo e donata nel 1932 da Livia Veneziani al Civico Museo Revoltella (inv. 2221).

Cossutta conosceva perfettamente il quadro, un olio su tela di 182x95 cm.; l’aveva dipinto ripetutamente e la sua copia era il risultato ultimo di tante precedenti visite, quasi ossessive, che lo avevano spinto a più riprese per lunghi mesi da via Donadoni al Revoltella.

Discutendo della pittura e dell’importanza di Veruda in ambito veneto, si rammaricava con me di non poter più accedere al Revoltella (negli anni Settanta esso era una sorta di Guangxi off limits!) e mi diceva: “Per capire la pittura dei grandi artisti, bisogna saper cogliere intimamente i colori delle loro tavolozze, stemperarli con paziente esercizio, studiare le pennellate e i grumi materici, perdere ore ed ore nella ricostruzione di un particolare (il formoso deretano della modella  nel caso specifico gli era gratificante!,) e insistere nell’osservazione per raggiungere attraverso un lavoro costante, buoni risultati.”

Altra splendida copia da Antonello da Messina, posta in un angolo tra altre tele ed eseguita agli esordi da Cossutta con lo scopo di carpire i segreti insiti nelle mani di una Madonna, avvalorava, semmai ce ne fosse bisogno, questa tesi...

Ciò mi convinse che l’esigenza critica di distinguere tra la copia e l’originale partecipa pienamente delle difficoltà, esperienza, intuizione, memoria visiva, stato d’animo, rispetto, cognizione tecnica del conoscitore.

Oggi, con assai meno competenza, gli esperti si moltiplicano...

Fu in quel decennio dunque, attraverso lunghe discussioni con artisti triestini che ammiravano il Veruda, nella continua speranza di poter scambiare qualche parola significativa ed illuminante con il professor Decio Gioseffi presso l’Istituto universitario di Storia dell’Arte, che mi avvicinai alla produzione pittorica dell’amico fraterno di Svevo e a quella di altri importanti artisti dell’area giuliana e veneta.

Non era facile nè per me nè per altri studiosi del resto, vedere i quadri di Veruda o più semplicemente trovare, senza suggerimenti bibliografici corretti, riferimenti precisi su L’Indipendente, Il Piccolo, L’Adria, Il Cittadino e leggere sia gli articoli che a lui dedicarono Benco, Apollonio, Marini sia l’Epistolario di Svevo presso la Biblioteca Civica di Trieste  dove le attese erano estenuanti.

Il Nudo di schiena al fine, costituiva (me ne resi conto in seguito!) uno degli indizi più confortanti per scoprire che Veruda desunse il colore dai francesi e dai veneti, trascurando di proposito e decisamente, negli ultimi anni della sua sfortunata vita, le esperienze accademiche monacensi.

Mai, tuttavia, raggiunse la piena maturità artistica come da qualche parte si vuol far credere: morì anzitempo e ciò non gli consentì di superare, in ambito locale s’intende, le qualità pittoriche ed espressive di Eugenio Scomparini.

Le sue opere più innovative lo avevano comunque lasciato supporre!

Nel 1907 Silvio Benco colse lo sperimentalismo tecnico del Nudo di schiena e i suoi apprezzamenti successivi riferiti all’ultima esaltante produzione, condizionarono non poco i contemporanei, molta critica, il pubblico di estimatori sinceri e quei collezionisti che invidiavano le numerose ‘proprietà’ sveviane.

La famiglia dello scrittore contribuì pure, anche in buona fede com’è ovvio, ad esaltare il mito di Veruda pittore inimitabile, stravagante e innovatore.

Solo oggi, a trentasei anni di distanza, il Museo Revoltella ha riproposto con convinzione ed impegno una tanto attesa mostra postuma di Veruda intitolata Nella Trieste di Svevo. L’opera grafica e pittorica di Umberto Veruda, conclusasi di recente e da più parti, come ho letto e sentito, molto discussa

Ma come poteva essere diversamente? Chi lavora si espone sempre.e il pittore è nel cuore di molti...

Il bellissimo catalogo per le Edizioni della Laguna, ha riscattato anche se in ritardo, ampiamente, la pessima esposizione dei dipinti in sede museale, determinata sia dagli spazi scelti, inadeguati al formato dei quadri spesso di grandi dimensioni, sia per la vicinanza di troppi ritratti che andavano ‘letti’ da lontano, sia infine per la scarsa e debole illuminazione che non favoriva il pubblico meno giovane: un allestimento approssimativo (dispiace!), assai meno scientifico, puntuale e visivamente esplicativo del volume, ricco di straordinarie illustrazioni, di notizie confortanti, di impegno collettivo.

I peccati veniali, tuttavia, vengono presto dimenticati (anche le didascalie errate?) e ciò che rimane è la storicità davvero soddisfacente della ricerca che ha coinvolto in severi e indubbiamente non sempre facili studi, Arich de Finetti (che ha curato il catalogo con la Masau Dan), Tiddia, Geroni, Vasselli, Gregorat, Sgubin, Cora Mosca Riatel e Fisicaro che ringrazio per le preziose informazioni riguardanti i soggiorni parigini di Veruda e la collaborazione nella stesura di questo articolo.

Nella capitale francese, infatti, Veruda non fu spensierato turista e c’è ancora qualcosa da aggiungere a completamento di quanto finora scritto dagli  storici e pubblicato su di lui.

 

 

Artisti locali a Parigi     (1887-1920)

 

Nella seducente Parigi di fine Ottocento dove ci si poteva abbandonare a divertimenti sfrenati o farsi “catturare” indistintamente dallo spirito bohemien dei cafè o dalle piccole e intriganti gallerie dei mercanti di Montmartre, si recarono anche alcuni giovani pittori triestini, goriziani, veneti.

In realtà la meta più frequente dai giuliani fu Monaco e l’ Accademia  bavarese sostituì progressivamente, nelle scelte individuali di molti di essi, quella di Venezia.

I più intraprendenti artisti locali si volsero anche alla ricerca di nuove scuole private e accademie delle quali si sentiva parlare entusiasticamente... Il  primo fra tutti ad andare all’estero fu Isidoro Grunhut (1862–1896).

Anche Parigi divenne meta prediletta; andarci significava infatti  sia nella scelta definitiva che in un  soggiorno breve, confrontarsi e cimentarsi con le innumerevoli tendenze che lì nascevano e si sviluppavano in modo frenetico.

E’ possibile che alcuni pittori siano stati invogliati soprattutto a questa esperienza, dagli articoli che spesso comparivano sull’Illustrazione Italiana, rivista assai nota e letta.

Peraltro anche i giornali locali come Il Cittadino, riportavano spesso notizie riguardanti novità parigine: sul numero del 13 ottobre 1887 due intere colonne furono dedicate alla futura Esposizione del 1889 ed in particolare alla Tour Eiffel che era ancora in fase di costruzione!

Diversi dei nostri artisti intrapresero il viaggio verso la Francia attratti anche dalla presenza di colleghi più o meno affermati e conosciuti quali Rosso, Boldini, Zandomeneghi e De Nittis: per la maggior parte di essi  si trattò di un viaggio iniziatico utile a sprovincializzarsi definitivamente e “respirare” pittura nell’ambiente artistico più vivo e pulsante d’Europa.

All'epoca il Curatorio del Museo Revoltella aveva un costante rapporto con la capitale francese tramite il pittore Giovanni Rota (1832-1900) che risiedeva nella metropoli e relazionava sul Salon e sulle Esposizioni Universali ad  Alfredo Tominz (1854-1936) membro dello stesso.

Fu così che le collezioni del nostro museo si arricchirono di opere straniere: nel 1886 furono acquistate due grandi tele: Gli affamati di Henry Jules Jean Geoffroy, dipinto che introdusse al Revoltella la pittura di carattere sociale, e un'opera storica, Madame Roland, di Evariste Carpentier.

Uno dei primi pittori triestini che ebbe successo a Parigi fu  Antonio Lonza (1846-1918); egli vinse la medaglia d'oro al Salon del 1882 e le sue scene di genere ottennero riconoscimenti  internazionali.

Arturo Rietti (1863-1943), probabilmente suggestionato da Boldini, si recò a Parigi nel 1889, e qui in un primo momento, venne attratto dalle atmosfere evanescenti di Eugene Carriére (1849-1906). Rietti partecipò all'Esposizione Universale del 1889 e gli fu conferita la medaglia d'argento per il suo Ritratto di vecchia signora, oggi purtroppo non reperibile. Egli si recò nuovamente nella capitale francese nel 1908 e nel 1912. Tramite la sua produzione la città giuliana intuì i veri significati del movimento impressionista poiché Rietti fu il più vicino ai maestri francesi: predilesse la tecnica del pastello ed essa lo portò a creare immagini delicate e ad abolire il chiaroscuro. Il suo tocco leggero ed etereo ricorda infatti Manet, Dégas, Renoir.

Anche Carlo Wostry (1865-1943) soggiornò a Parigi dal 1895 e vi rimase ben sette anni: una decisione ben ponderata la sua! La rivista Le Figaro Illustré, che pubblicò spesso le sue opere, gli riconobbe buone qualità.

L'Indipendente del 7 giugno 1898 diede risalto a una sua mostra nell'articolo "Il successo di Carlo Wostry a Parigi” poiché nel 1899 egli vinse la medaglia d'oro al Salon e collaborò con i più diffusi giornali illustrati; a Parigi eseguì addirittura il Martirio di San Giusto per la Cattedrale di Trieste e la Scena boschereccia nella quale si notano modi del Settecento francese.

Ma all' Esposizione Universale del 1900 figuravano anche molti altri italiani: Ciardi, Boldini, Balestrieri, Fattori, Laurenti, Mancini, Michetti, Morelli, Segantini, il triestino Pietro Fragiacomo (1856-1922) e il goriziano Italico Brass (1870-1943).

Fragiacomo si recò a Parigi fra il 1889 e il 1892. Italico Brass studiò per quattro anni alla scuola di A.W. Bouguereau e J.P. Laurens. Gli insegnamenti francesi e l’influenza di pittori quali Boldini e De Nittis determinarono i tratti caratteristici dello stile maturo del goriziano. Brass espose a Parigi fin dal Salon del 1893, dove presentò Chioggiotti alla briscola esposto anche alla prima Biennale veneziana (1895) e si fece notare alle esposizioni della Societé des Artistes Français nel 1894, 1895, 1896.

Guido Grimani (1871-1933), amico di Fragiacomo e come lui marinista di valore, venne scelto dal nostro Municipio e mandato a scopo di studio all'Esposizione Universale del 1900; tre anni dopo un altro concittadino, Pieretto Bianco (1875-1937), passeggiava per i boulevards con Umberto Veruda, com'è riportato nelle cronache del tempo.

Sarà però la generazione seguente di artisti regionali a sentirsi ancora più “calamitata” dalla pittura francese: si pensi infatti a Marussig (1879-1937), a Bolaffio (1883-1931), a Zangrando (1867–1941), a Levier (1873-1953), a Fonda (1892-1929). Marussig rimase a Parigi per un anno e mezzo; strinse amicizia con Modigliani che aveva già conosciuto in Toscana e nientemeno con Matisse. Levier lavorò con successo dal 1909 al 1915 ed espose a tutti i Salons d'Automne e il Fonda, uno dei più promettenti della nostra terra, alla fine degli anni '20 trovò la morte proprio nella capitale.

 

 

I soggiorni parigini di Veruda

 

Veruda fu artista "moderno": viaggiò e si spostò nonostante le intuibili difficoltà tra le grandi capitali europee alla fine del XIX secolo. Allora il treno da Trieste a Parigi impiegava 32 ore circa; non c’era una linea diretta: si percorreva la Trieste-Lubiana, da qui si arrivava a Linz con la ‘Rudolfiana’ e da Linz si proseguiva fino alla metropoli.

Uomo inquieto e ribelle, Veruda non ebbe paura di confrontarsi con realtà a lui poco note e nonostante la sua scarsa disponibilità finanziaria, si trasferì in diversi periodi di tempo, anche a Monaco, a Vienna, a Roma e a Venezia mai spensierato vacanziere.

Nel 1887 si recò in Francia come indica la lettera indirizzata al Curatorio del Civico Museo Revoltella datata Roma 20 /3 /’88, in cui scrisse di essere stato a Parigi per sei mesi sotto la direzione dei professori Bouguereau e Fleury.

Andò alla ricerca di quella "difficile verità trionfante nei maestri dell'impressionismo, ma ancora inafferrabile agli stessi tedeschi in cui egli aveva riposto ogni speranza d'innovazione" (Firmiani).

Come riferì il Benco, Veruda risiedette nel Quartiere Latino dove alloggiavano quasi tutti gli studenti e frequentò i ritrovi di Montparnasse.

Qui conobbe letterati poi divenuti celebri come Verlaine e Vielé-Griffin con cui si intrattenne a discutere di arte nei ritrovi serali del quartiere. In alcune donne ritratte come la modella di alcuni suoi nudi (Mezza figura del Civico Museo Revoltella), si può cogliere infatti una certa atmosfera che rimanda al mondo poetico di Verlaine.

Sotto la guida degli insegnanti M. Bouguerau e R. Fleury frequentò l'Accademia privata Julian.Essa

non lo soddisfece e non lo attrasse: fu piuttosto affascinato dalle novità pittoriche che facevano capo all'impressionismo, movimento che si era ormai andato diffondendo e consolidando.

Ma in realtà a quell'epoca l'Impressionismo, come pittura d'avanguardia, era già al tramonto; la rivoluzione della luce e del colore si era già compiuta e si erano determinati dei cambiamenti irreversibili che influenzarono tutta l'arte futura.

Fra i moderni Veruda amava sopra tutti il Rodin e il Besnard .Egli, che in questo soggiorno trovò nel colore il significato assoluto del suo messaggio pittorico, venne in seguito ‘rimproverato’ in città di non conoscere le tecniche base del disegno e di aver realizzato opere che sembravano abbozzi. Almeno in questo primo momento, ci sono degli accorgimenti tecnici che media dai francesi, come ad esempio i brevi e rapidi struscii di pennello e lo schiarimento della tavolozza caratterizzata dai toni puri.

È verosimile che Veruda si recasse in un secondo momento a Parigi anche nel 1892, ma non ci sono riscontri documentati.

Nacquero dunque le immagini fresche e vivaci del periodo 1892-1894, che rappresentò l'esplosione e lo splendore massimo della  sua pittura come ne Il terzetto (1892) e nel famoso Svevo con la sorella Ortensia (1893):certa somiglianza tra Ortensia e la giovane di profilo del Terzetto, fa supporre si tratti della stessa donna.

La forza del Veruda ‘francese’ sta dunque tutta nel luminismo cromatico dei suoi dipinti, caratteristica che gli venne in seguito finalmente  riconosciuta anche sulla stampa locale.

I soggetti femminili sono sempre tra i più suggestivi della sua pittura: le donne sono colte  nella loro intimità ed è interessante notare proprio il già citato Nudo di schiena raffigurante la prosperosa donna allo specchio perché la posa della modella rimanda immediatamente a Dègas e Toulouse-Lautrec.

Veruda pensava seriamente che "la migliore scuola sta nel lavorare senza posa e nello studiar se stessi".    Nell'analisi delle opere parigine c’è da prendere in considerazione anche il Ritratto maschile, datato 1894, sia per la tipologia del personaggio che per le tonalità usate; esso rimanda a certi personaggi maschili di Manet che certamente gli erano noti!

Nel 1897, all'età di 29 anni, l’estroso pittore si recò a Parigi per la seconda volta: il fascino della città era lo stesso, ma diverso fu il suo interesse artistico. Rivide i luoghi già visitati, incontrò amici, riassaporò il gusto di  vivere atmosfere straordinarie (lui che non era un paesaggista!).

Studiò con rinnovato accanimento all'Accademia Iulian dedicandosi esclusivamente al disegno, si esercitò nel nudo; eseguì molti lavori a carboncino e a matita utilizzando carte di spessore e colore diversi: la sua linea risulta  ferma e decisa, i tratti delle sue modelle sono spesso ricercati e originali, ma fu ancora scolastico e dovette migliorare gli studi anatomici.

Il suo desiderio fu quello di pagare una modella, di averne una solo per sé, ma si dovette accontentare. Vagò alla ricerca di nuovi stimoli, si disperò, trascorse lunghi momenti meditativi, frequentò i ritrovi di Montparnasse, i locali alla moda, rivisitò i Musei, le numerose Gallerie, che costituirono il suo itinerario giornaliero preferito.

Di proposito, quasi una prova con se stesso, non toccò i pennelli pur essendo ‘naturalmente’ un colorista.

Scrisse a Italo Svevo: "volli fingere di non aver imparato nulla, fino allora; mettermi all' apprendisaggio elementare: la matita, non più il pennello; per tutto il tempo del mio soggiorno parigino le mie mani non conobbero nè tavolozza né pennello".

Questo secondo soggiorno fu determinante perché gli permise di conoscere la nuova pittura francese; essa pure lasciò dei segni profondi che caratterizzarono gli ultimi sette anni della sua vita.

Schiarì ulteriormente la tavolozza, scelse colori brillanti, stese con sempre maggior decisione pennellate sobriamente diluite.

E’ il caso della Donna in rosso (1897) e del Ritratto femminile, che si può ritenere coevo: in questi lavori i magici tocchi sono fluidi e fanno pensare all'evanescenza di Renoir.

Di questo secondo soggiorno parigino abbiamo anche una fortunata testimonianza in un ritratto fatto da Veruda a Favard, pittore francese operante alla fine dell' 800, con il quale Veruda strinse amicizia.

Osservando il dipinto che ben si accosta al Ritratto di Flumiani conservato al CMR, si nota come negli ultimi anni dell’ Ottocento l'influenza impressionista sia marcatamente presente nei suoi lavori; in entrambi i dipinti i passaggi da un pennello ad un altro e l'uso delle ombre "velate" rendono bene l'introspezione psicologica dei personaggi.

Ma a questo punto Veruda si orientò artisticamente verso uno studio moderno delle forme, studio nel quale i presupposti dell'Impressionismo, proprio come allora avveniva a Parigi, erano in fase di superamento. L'Impressionismo infatti aveva trascurato il problema della forma, preoccupandosi eminentemente degli effetti luministici e atmosferici più immediati e facilmente percepibili.

Il colore si solidificò e Veruda costruì dei volumi monumentali che rimandano a Velazquez anche nel Ritratto di uno scultore di Cà Pesaro, dove la figura di Mayer ben s'impone in tutta la sua luminosità.

Il bianco madreperlato è anche solenne protagonista di un altro lavoro dal forte impatto visivo, Il ritratto di Nina Janesich Rusconi collocabile, per la tavolozza chiara e la speditezza di mano, nell'ultimo periodo artistico di Veruda. Il dipinto in questione ha verve e freschezza desunte dai soggiorni parigini.

Ancora nel 1903 il pittore viaggiò tantissimo e tra le altre città europee (Londra, Vienna, Berlino) si recò per la terza ed ultima volta a Parigi. Incontrò Pieretto Bianco, ma la salute era già cagionevole: soffrì d'ipocondria, temette la morte improvvisa. La metropoli lo angosciò e fu insofferente degli spazi smisurati, visse in un'agitazione continua e in un altrettanto preoccupante disordine mentale; percorse vicoli dimenticati e famosi boulevards di Montmatre con biglietti in tasca scritti di suo pugno per farsi identificare facilmente in caso di scomparsa. Temette di essere portato alla Morgue l’edificio sulla Senna, dove in una fila di sarcofagi di marmo venivano esposti i cadaveri che il fiume rigettava sulle rive, i morti assassinati e i suicidi sconosciuti.

L'amico Bianco lo confortò e lo invitò a ritornare in patria.

La sua fine è nota...

 

 

 

Walter Abrami