Musica di venti e ore d’oro nei dipinti di Ugo Flumiani
Walter Abrami
Il fatto che diverse opere di Ugo Flumiani suscitino forti e vive emozioni, siano ammirate e talora esaltate da numerosi estimatori, facciano tendenza tra i collezionisti e piacciano ai neofiti, esercitino il fascino del facile guadagno a suon di banconote con effigi ‘caravaggesche’ o ‘raffaellesche’ tra gli antiquari, galleristi (anche quelli apparentemente più distaccati e orientati al contemporaneo!) e mercanti d’arte (le frequenti e imprevedibili quotazioni d’asta raggiunte da qualche sua marina lo rivelano inequivocabilmente!), inducono a fare delle riflessioni sulla pittura di questo artista giuliano spesso ‘snobbato’ in vita dalla critica e ancora trascurato, certamente poco conosciuto altrove, ma da sempre beniamino del pubblico triestino. Ci si chiede: 1) Com’è possibile che alle soglie del Duemila possano ancora ‘sedurre’ e interessare potenziali acquirenti dipinti di un artista ‘spiazzato’ di fronte i fantastici percorsi dell’Arte del primo Novecento ed egli sia messo comunque da parte - nella migliore delle ipotesi - in occasione di importanti mostre regionali se non dimenticato del tutto? (si pensi, clamoroso esempio, ad Arte in Friuli Venezia Giulia 1900 - 1950 del 1982). 2) Ammesso per certo che Flumiani è il ‘prototipo’ per eccellenza del pittore provinciale (egli non di raro è indicato come esempio negativo da quei detrattori che sminuiscono il valore dei pittori locali sul piano nazionale) qual è la prerogativa e lo spessore estetico dei suoi dipinti? 3) Perché a uno degli artisti cittadini più amati (una via di Trieste giustamente lo ricorda) e più operosi (come vedremo) nessuno, tranne l’astuto Umberto Michelazzi ha ritenuto doveroso (o meglio: opportuno) dedicare una retrospettiva? 4) Il gusto del collezionista che preferisce possedere un quadro di Flumiani anziché quello di un pittore di fama nazionale di pari prezzo vacilla, oppure il pubblico compie i movimenti dei gamberi, cerca nei soggetti la radice in un passato interiorizzato ed esplicito ed è meno disposto a farsi infinocchiare da roboanti nomi ben supportati le cui opere, infine, lasciano esterrefatti per non dire sgomenti? La prima risposta mi è suggerita da Vittorio Sgarbi: ‘vediamo ciò che sappiamo’. Abbiamo predisposizione a segnali e suggestioni che sono già dentro di noi (il mare dipinto dal triestino nel caso specifico) e che riconosciamo osservando improvvisamente un’opera; Ugo Flumiani, mestierante di prim’ordine, ‘vedeva preferibilmente quel che vendeva’, ma ciò nonostante, dipingeva come se fosse sempre pervaso di sentimento (questo si deve convenire!) perché amava i luoghi della propria vita e quelli della memoria: aveva una sensibilità romantica e un profondo amore dell’osservazione diretta che lo portava a cogliere soprattutto la vita dei pescatori nei rientri festosi, raramente pericolosi o drammatici. Fu indubbiamente ottuso e sorprendentemente imperturbabile verso i nuovi movimenti artistici (si direbbe che non subì conflittualità esistenziali dal momento che la nascita dell’Espressionismo, le prime manifestazioni di arte astratta ecc. lo lasciarono se non indifferente del tutto, polemico con esse) ma concreto, testardo, e niente affatto ingenuo. Fu sempre convinto che un artista riesce a fare bene ciò che gli è congeniale e anche per questa ragione evitò di dipingere figure maschili e femminili, note deboli del suo fare impressionista. I suoi quadri affrontano temi felicemente ‘collaudati’ dai marinisti (non copiati da altri noti colleghi!) che la critica riteneva superati, passatisti e fuori moda già nei primi due decenni del secolo: Flumiani se ne infischiò e pagò le conseguenze critiche delle sue scelte; i pregiudizi che ancora si captano discorrendo della sua pittura sono conseguenza sia della superficialità critica di chi ci ha lasciato qualche debole, insignificante contributo scritto sulle pagine dei giornali locali (anche quello di Benco che nel suo volume su ‘Trieste’ lo etichettò troppo frettolosamente ‘vulcanico chiazzatore di luminosità’), sia delle malelingue insidiose di coloro che inviadiavano le sue capacità. La seconda risposta ha due aspetti distinti: 1) Se talora la provincia segna limiti precisi nella vita di un artista, altre volte può sublimare il suo mondo interiore (si rifletta per esempio sul percorso artistico d’indiscusso valore di Marussig, Nathan, Parin e su quello dei contemporanei Spacal e Rosignano). 2) La qualità paga il tributo alla quantità di opere realizzati (il pittore deve avere il coraggio di eliminare i quadri meno riusciti, per non dire brutti, e sono pochi in verità gli artefici che hanno la forza di farlo: Flumiani non fu tra costoro e come altri marinisti della sua epoca, non poté controllare un certo mercato di opere false. Il pregio di tante sue tele è che sono ‘facili’, immediate, splendidamente efficaci nella decorazione coloristica; egli, che disegnatore non era, che non ci ha lasciato tracce di matite o carboncini, aveva più di altri colleghi, l’esperienza e la padronanza di tutti i colori, dei loro infiniti possibili accostamenti: sceglieva senza titubanze ad ‘occhi chiusi’ e con maestria, quelli più felici! Il terzo quesito si scontra con una duplice realtà: i quadri dell’artista sono sparsi nelle case di molte persone e probabilmente non c’è nessuno che possieda un nucleo abbondante di opere che costituisca un facile punto di partenza per realizzare un percorso antologico significativo, vario e soddisfacente della sua produzione quarantennale e pressoché quotidiana. Chi di dovere si assumerebbe la responsabilità di farsi sputtanare nell’ ‘arcipelago’ individuato dal Martelli suggerendo una mostra (il che significa responsabilità, rischio, impegno, tempo e danaro) su Ugo Flumiani quando tutti riconosciamo superiori i meriti artistici di Ciardi, Fragiacomo, Grimani e Barison? S’intuisce anche che la medesima non potrebbe ‘esportare’ prestigio... Quarta risposta: talvolta il collezionista esagera, spende più del dovuto, s’ inebria e si fa abbagliare, s’ inorgoglisce, s’ intestardisce, si vanta delle proprie conoscenze magari sbaglia un acquisto, si pente ma si ricompone, scambia qualche dipinto, ‘sacrifica’ una tela ritenuta meno importante di altre e tuttavia spera sempre di pagare poco un quadro che altri vorrebbero sulla parete più invidiata della propria abitazione (non sempre si riesce!), Tutti peccati veniali. Sognare è lecito: sono anni che anch’io cerco un paesaggio bretone di Gino Rossi nelle cantine di Trieste o un Egon Schiele tra fogli sgualciti ai mercatini e non perdo la speranza di credere che ciò sia possibile. Il collezionista giuliano è avvezzo al Bello più di quanto egli stesso creda perché in un momento magico della sua breve, ‘tardiva’ ma non casuale storia artistica, Trieste ha avuto individualità importanti di scrittori, pittori e di scultori; se alcuni artisti rimasero legati alla tradizione veneta e furono poco propensi al nuovo, altri se ne andarono altrove per abbracciare nuove esperienze; tra quelli che stati ‘rispolverati’ da poco o ’scoperti’ appena ce ne sono altri che urlano rabbia all’ oblio del tempo! Flumiani, artista d’innato lirismo, rimane e rimarrà ‘tra color che son sospesi’. Per quanto ancora? Seguiamo le vicende della sua vita attraverso le notizie qui raccolte, alcune delle quali inedite. Egli nacque a Trieste il 26 gennaio del 1876 poco prima del famoso incendio del Teatro Mauroner. Il piccolo Ugo guardava incredulo il mondo, quando al posto del vecchio teatro fu edificato l’Anfiteatro Fenice che ebbe architetto il poco più che ventenne Ruggero Berlam; al nuovo soffitto pose mano Eugenio Scomparini, ma molto passò prima che Flumiani divenisse suo allievo e lavorasse con lui! Non si conoscono le vicende personali di questo primo periodo della vita e non mi risulta siano mai state effettuate ricerche anagrafiche più approfondite sulla sua famiglia, ma ciò è qui irrilevante; in “Pittori e Scultori di Trieste” Sibilia ricorda che il pittore aveva uno studio assai vasto nell’ultimo piano di una casa in Acquedotto. Quella zona della città che era stata un tempo la ‘Contrada dei giardini’ ricca di campagne e ville, piaceva anche a Bolaffio (egli dipinse il viale su memorie pittoriche attinte a Parigi) e fu passeggiata mattutina d’Umberto Saba. Flumiani visse a poca distanza del Politeama Rossetti e della Sala Apollo dove trovavano ospitalità compagnie drammatiche, una scuola di ballo e teatrini di marionette. Suppongo che anch’egli abbia usato i primi colori dopo aver osservato, ancora ragazzo, il lavoro degli scenografi. Risulta che in seguito abitasse in Via Coroneo al numero 21 in un piano alto, luminoso dove pure ebbe lo studio; accanto al cavalletto conservava il busto di Veruda che considerava un Maestro, una sua foto tra alcuni altri ricordi personali e un ritratto di donna che dominava da un angolo tutti i suoi quadri: essi, sempre nuovi, si accatastavano e occupavano anche i corridoi dell’abitazione. Svolse i suoi primi studi artistici all’Accademia di Venezia seguendo il corso di paesaggio di Ciardi, fu a Chioggia, una delle mete preferite dei paesisti veneti, lombardi e persino tedeschi e svizzeri (da Ciardi imparò anche Fragiacomo con il quale Grimani strinse amicizia nel 1896 proprio a Chiozza), quindi all’Accademia di Bologna dove studiò architettura e decorazione: ciò gli consentì qualche guadagno nel tempo poiché a Trieste si applicò in diversi lavori decorativi. Tra l’altro dipinse assieme a numerosi altri colleghi (Lonza, Scomparini, Rathman e Lucano) nel Palazzo a somiglianza di quelli veneziani Rezzonico e Pesaro che Filippo Artelli , il noto assicuratore marittimo, si fece costruire dall’architetto Antonio Bruna in Via SS. Martiri. Anche Flumiani come tanti artisti venne a contatto con l’ambiente monacense, ma non si sa quando ne per quanto; poi fu a Milano dove riscoprì l’impressionismo tedesco ‘più corposo nel pigmento e meno sfarfallante nel maneggio del pennello rispetto a quello francese’ come indicato da Patrizia Fasolato alla quale si devono recenti e brillanti osservazioni sull’opera del pittore. Forse fu a Capri dove pure era stato il Grimani nel 1894. Nel settembre del 1896, ventenne, espose per la prima volta due motivi veneziani all’acquerello nel negozio di Schollian (dal 1885 esso era il centro più importante delle manifestazioni artistiche locali e divenne poi proprietà del Michelazzi): la critica gli fu severa e lo trovò immaturo. A Trieste strinse amicizia con Umberto Veruda di cui ammirava gli effetti di luce: fu prima suo discepolo e poi, per un periodo, i due pittori ebbero in comune uno studio in Via degli Artisti vicino al teatro Filodrammatico. Qualche anno dopo l’esordio, Flumiani si presentò rinfrancato, più sicuro, più forte, riconosciuto pittore proprio dal Veruda che aveva intuito la sua predisposizione naturale. Nel 1899 vi fu la mostra retrospettiva del Favretto alla Biennale, ma anch’egli e Grimani parteciparono all’Esposizione e si recarono a Venezia per ammirare le altrui opere e trarne profitto. L’anno successivo Flumiani fu presente all’Esposizione Industriale Artistica di Gorizia con ben cinque opere: Busto di donna, Figura femminile, Papaveri, Una gara e Mattino d’Autunno. Poco si sa, purtroppo, del decennio seguente. Presumibilmente nel 1900 Veruda eseguì il ritratto di Flumiani dipinto su tela con colori a tempera Wurm inventata da Cesare Laurenti, da lui raffinata, ammorbidita e colorita con lievi velature. Il dipinto firmato in basso a destra con dedica che è proprietà del Civico Museo Revoltella (inv.4543), fu donato da Antonio Fonda Savio; è un “ritratto di potenza straordinaria buttato giù senza scrupoli di coscienza in meno di due ore”: fu eseguito con pennellate rapide e larghe ed ha un’inconsueta gamma cromatica. Veruda eseguì un secondo ritratto a Flumiani molto più deciso e completo del primo di cui purtroppo esiste solo una fotografia. Dell’artista esiste pure un Ritratto caricaturale attribuito a Wostry, una caricatura individuale ed una con altri due amici che formano il trio dei “Tre capisaldi” (Sencig, Cernivez e Flumiani) dello stesso Wostry, una caricatura eseguita dal suo amico Cernivez proprietà dei Civici Musei di Storia e Arte di Trieste, una quarta riprodotta sul Marameo e un’altra infine che comparve su La Coda del Diavolo; evidentemente la sua statura di nanetto che lo caratterizzava, contrastava con le grandi tele che dipingeva al punto da renderlo una macchietta! Sergio Sergi, non dimentichiamolo, eseguì il ritratto xilografico stampato per il volume di Sibilia e pure il collega Guido Fulignot, con il quale strinse amicizia, lo ritrasse. A cavallo dei secoli Flumiani frequentò il Circolo Artistico; egli ne fu prima socio e venne nominato ironicamente bibliotecario poichè si vantava di possedere in casa una libreria composta da soli sei volumi, infine fu per molti anni direttore dell’istituzione ‘ perchè aveva la buona qualità di capire al volo le cose’. Certamente ‘ fu uno degli elementi più chiassosi e instancabile organizzatore di feste, dispetti e burle ‘: in un angolo del camerino della sede, aveva messo su una sedia un manichino foggiato e vestito da Attilio Hortis che scriveva la Storia di Trieste! Partecipò a tutte le mostre del Circolo dal 1906 al 1925. Nel 1907 lo troviamo dipingere a San Canziano dove lavorò pure Wostry (notevoli le sue acqueforti); due anni dopo preparò assieme a Cambon, Sencig e Orell dei figurini caricaturali per l’Esposizione delle Bambole del Circolo Artistico di Trieste e anche l’illustrazione del programma per la manifestazione indetta per l’inaugurazione del vessillo del Politeama Rossetti di cui è conservata copia nel Museo della Società; Fu ancora nella città lagunare (VII Biennale) con Ora d’Oro un anno dopo il soggiorno di Monet e nel 1910 con Lo Specchio, Canto d’Autunno, Farfalle mentre a Venezia era presente Klimt. Fu questo un anno di vita artistica intensa per il pittore: espose a Monaco nell’ambito di una collettiva di pittori triestini, portò Cinque visioni istriane alla Prima Esposizione Provinciale Istriana di Capodistria e fu tra gli ordinatori della Mostra di Caricature che il Circolo Artistico aprì nelle Sale della Permanente (la sua caricatura appare sulla cartolina invito). Ricorda il Wostry che assieme a Lucano, Orell, Cambon, Timmel e altri, con fine umorismo presentò alla Permanente un’esposizione di Arte Futurista che divertì molto il pubblico in seguito alla prima serata al Rossetti del vate Marinetti che ebbe molta rilevanza ed è da considerarsi una delle più importanti tappe iniziali del movimento. Ma intanto una sua “Marina” fu esposta nella sala dei pittori triestini ad Arezzo... Nel 1913 fu alla Biennale di Venezia e non pago, presentò alcuni dipinti alla Seconda Esposizione di Belle Arti del Comitato Artistico Giovanile a Napoli; con lui esposero Marussig, Bolaffio, Cambon, Parin, Croatto e Timmel. Nel 1914 con Marussig, Barison ed altri artisti cittadini lavorò alle decorazioni del caffè San Marco che fu inaugurato quell’anno: esso fu frequentato da una clientela di irredentisti (Flumiani fu all’ala estrema del partito tra quelli che nei giorni di dimostrazione si facevano arrestare) e il 23 maggio del 1915 i locali vennero devastati da elementi anti italiani. Anche in seguito, tuttavia, l’artista fu uno dei clienti abituali e dipinse - e sono in parte a lui attribuibili - le due marine veneziane, pannelli di cartone gessato siti nell’ala verso Via Donizetti. Pure il Caffè Garibaldi, sotto il Municipio, fu una delle sue mete. Nella primavera del 1915, anno nel quale Flumiani al pari di Fragiacomo ebbe una mostra personale alla Permanente di Trieste, compare in una foto che rappresenta un gruppo di Volontari Giuliani ritratti a Mestre. Non è noto dove trascorse gli anni del conflitto mondiale. Le cronache tornano a parlare di lui nel 1920 quando fu nuovamente presente alla Biennale di Venezia con Fortunale sull’Adriatico. Nel 1922 dipinse in Val Trenta ed espose 22 opere alla Permanente del Circolo Artistico; l’anno dopo fu presente alla Quadriennale di Torino con Ritorno, Il golfo di Trieste, Prima luce e alla Biennale di Venezia con Riflessi e Fortunale; nel ‘24 partecipò alla Prima Esposizione Biennale del Circolo Artistico e nel 1925 alla Prima Esposizione Internazionale di Fiume. Sono gli anni migliori della sua pittura nei quali raggiunse il culmine artistico eseguendo una serie d’opere veramente significative e ricche di atmosfere. Arrivò il 1926 ed inviò alla IV Esposizione d’Arte delle Tre Venezie nel Palazzo della Ragione a Padova Ultimo Sole, Carso e In porto; successivamente presentò Piccolo porto, Ritorno e Marina alla Quadriennale di Torino e Riflessi, Calma, Ora azzurra alla V Esposizione d’Arte delle Venezie a Padova. Partecipò assiduamente alle mostre del paesaggio di Bologna e a quelle organizzate dal Sindacato Fascista di Belle Arti dal 1927 al 1937. Nel gelido 1929 espose a Milano nella Galleria Scopinich con la Glanzmann e Croatto e successivamente ebbe una mostra personale di Vedute di Trieste nella Sala della Permanente in via della Borsa tra scialli di Cascimarra: la critica fu severa nei suoi confronti poiché i quadri furono paragonati a cartoline, niente più. Nel 1931 con Nido di pescatori fu presente alla V^ mostra Regionale d’Arte a Udine, nel 1933 espose alla Prima Mostra Nazionale Belle Arti a Firenze e alla Mostra del Ritratto femminile a Trieste; trascorse un biennio e nel 1935 ritornò prima a Venezia per il 40° anniversario della Biennale Veneziana poi alla Galleria Trieste nel giorno dell’inaugurazione del monumento a Nazario Sauro: la mostra di soli soggetti istriani fu presentata a S.M. il Re d’Italia. Giunse così il 1937 e il vernissage della Mostra dell’Ottocento al Castello di San Giusto: fu uno degli ultimi ai quali partecipò in vita. Flumiani espose anche a Roma e a Milano, a Berlino, Parigi, Londra e a Praga dove pochi anni prima della sua morte un suo quadro fu acquistato dalla Galleria di Stato: fu forse il maggior riconoscimento che Flumiani ricevette in vita! Morì a Trieste il mattino dell’8 dicembre 1938 “soggiacendo, come ricordano le cronache di allora, ad un attacco del male (trombosi) che da alcuni giorni incombeva minaccioso su di lui”. Il funerale partì dalla Casa di Salute di Guardiella dov’era stato ricoverato nel breve corso della sua malattia. Nel dicembre 1945 una personale retrospettiva postuma inaugurò la stagione autunnale della Galleria Michelazzi di Via San Nicolò 21: vennero esposte 41 opere.
La personalità e le vicende critiche.
Modesto (di fronte ad un complimento e davanti alle grandi tele soleva esclamare “Oh, piccolezze!”), ma istintivo, vero temperamento di pittore e lavoratore instancabile, ebbe foga nel colore e nella parola, svelto, allegro, loquace, il nasino rivolto all’insù, due baffetti impercettibili all’orlo del labbro, un riccio scappante sulla fronte, il cappello tondo rovesciato sulla nuca, incontentabile, irrequieto, impetuoso ed esuberante, fu bonario e di indole gaia, ma talvolta diventava feroce e sanguinario (Wostry); solitario rifuggì da qualsiasi notorietà; negli ultimi mesi della sua vita divenne malinconico, distratto, assente. Fu innamorato del proprio mestiere; pittore dalla tavolozza sfolgorante, dipingeva sempre sul posto e quando non poteva farlo per la dimensione di certe tele, troppo grandi, eseguiva numerosi bozzetti e poi completava in studio, sensibilissimo nel sorprendere e nel colorire gli innumerevoli aspetti del mare. Battane, bragozzi, gondole, paranze, e tartane furono i suoi soggetti preferiti, ma dipinse pure numerosi paesaggi (in Carnia, nel Tarvisiano, nel Cadore, in Val di Fassa ecc.), vedute cittadine e dei dintorni, qualche natura morta e qualche ritratto. Su tutti amò la pittura di William Turner che gli fu quasi maestro spirituale, ma nonostante realizzasse marine scintillanti con profondo senso di poesia marinara, nonostante la sua pittura fosse giusta di toni, tra i collezionisti e gli intenditori del suo tempo correva un detto: “Per il mare ci vuole Grimani, per le spiagge e il verde Flumiani”. Perché? I contemporanei informati osservavano le novità artistiche, le molteplici forme espressive moderne ed erano stufi degli schemi pittorici marinari sentimentali (quelli che ora piacciono), ma non potevano negargli né la professionalità né la veemenza della sua ineguagliabile gamma di verdi, d’ocre e di terre. Flumiani importò a Trieste la tradizione coloristica veneziana e il vedutismo lagunare; è stato detto che risentì della maniera del Fragiacomo al quale pure piacevano gli effetti del mare increspato dal vento e solcato da barche a vele spiegate e i neri bragozzi fra le scie spumeggianti, ma ciò è riduttivo: in molti casi questa osservazione vale più per Grimani la cui pittura è chiara, elegante, fluida e definita, che non per lui. Altro monotono ritornello critico fu quello che sottolineava l’ossessione del Flumiani per la luce e il sole quasi avesse nei loro confronti una sensibilità standardizzata (ma tra i Maestri, quali sono i pittori che hanno rinunciato a studiarli?). Niente di più circoscritto perché le sue marine che pur sono ripetitive, hanno deboli architetture e collaudate impostazioni prospettiche che lo condussero inevitabilmente alla maniera, sono anche la sinfonia del vento del quale egli rendeva perfettamente gli effetti; le vele tagliate gialle cadmio o arancione delle barche sono inni al colore e il mare dei suoi migliori dipinti è pervaso di gioia ma anche di paura, di fede e di superstizione (l’occhio apotropaico sulle prue delle barche dei pescatori ne è il simbolo). Se vi è un senso di stanchezza più palese nella sua abbondante produzione ‘commerciale’, (il crescendo d’ispirazione doveva avere un limite!) non dimentichiamoci le sue piogge di argento lunare sulle acque del golfo, la calma liquidità del mare o i meravigliosi moti di onde che i suoi cobalti e i verdi smeraldini ‘ricamavano’, la violenza delle luci incidenti e le squillanti pennellate rese con colori puri che pochi marinisti hanno steso con il suo coraggio e la sua determinazione.
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