Ascendenze rumene, cuore veneziano

 

Sergio Micalesco (Trieste 1937 – Trieste 2003)

 

Walter Abrami

 

 

 

 

Poco più di un anno fa, con savoir-faire, flemma e calma serafica che sempre  lo contraddistingueva, ma anche con   mano sicura, accorta, meticolosa e gesti eleganti di pittore consumato, Micalesco eseguì un lavoro scenografico di ampie dimensioni (3 m x 5 m) nella scuola Addobbati presso la quale  insegnava.

Egli prediligeva i grandi formati fin dai tempi della maturità artistica e l’occasione di preparare lo sfondo per uno spettacolo di tema medievale ispirato al boccaccesco Decamerone, che trovava protagonisti i giovani, l’aveva coinvolto. Da sempre, seguendo in tale appassionante  vocazione le tracce di altri artisti giuliani tra i quali  mi vengono in mente Zangrando, Grimani,  Giordani, Predonzani, Bastianutto,  Reina e Carà, aveva abbracciato l'insegnamento  e i suoi memorabili, dinamici  e articolati disegni  di figure umane, tracciati con i gessi colorati sulle lavagne di diversi istituti, restano ancora ben impressi nella memoria di molti allievi e di colleghi sensibili al fascino del disegno.

Disegno che egli amò più di qualsiasi altra cosa e lo coinvolse emotivamente fin da ragazzo quando incominciò a leggere fumetti: L’Uomo Mascherato, Mandrake e Il Piccolo Sceriffo furono la prima palestra di un’interminabile e diversa narrazione tematica che ebbe primi protagonisti principalmente gli indiani  (Micalesco aveva una ricca collezione di volumi inerenti la vita di questi popoli) e alcuni aspetti rituali importanti della loro cultura (danze, preghiere, sepolture), nonché elementi di vita quotidiana (accampamenti, totem, cavalli, bisonti).

Con il totem, elemento figurativo della sua produzione più tarda, stabilì, da iniziato, una relazione di appartenenza o di identificazione considerandolo una potenza extraumana.

Attraverso i riti iniziatici, spiega la scuola junghiana, con il totem il giovane entra in possesso della sua anima animale e al tempo stesso sacrifica il suo essere animale nella circoncisione.

Attraverso questo doppio processo, è ammesso nel clan totemico e stabilisce una relazione con il proprio totem animale. Soprattutto diventa uomo e (in senso più vasto) essere umano.

Pure la lettura di tutta la produzione di Salgari, accelerò in Micalesco fantasie esotiche ed egli divenne abile nel disegnare animali feroci e azioni in successione con sorprendente capacità.

Per passatempo si dedicò pure alla realizzazione di divertenti storie a fumetti di genere poliziesco.

A pochi mesi dal pensionamento, ignaro del terribile appuntamento con la morte avvenuta nel mese di aprile, il professor Micalesco non si lasciò dunque sfuggire l’occasione propizia di lavorare serenamente tra gli allievi in un ambiente a lui confacente.

Nel corridoio vasto e luminoso ove dipingeva l’enorme tela, poteva ascoltare i commenti spontanei dei ragazzi e cogliere gli eventuali suggerimenti dei colleghi, ma poteva anche indietreggiare liberamente, allontanarsi a piacimento dall'opera e  osservare, da distanze ragguardevoli, i molteplici soggetti rappresentati.  Nella sua disordinatissima abitazione-studio di via San Francesco, colma all’inverosimile di colori di ogni tipo, tavolozze, telai, cornici, cavalletti, libri che testimoniano una cultura figurativa vastissima, fumetti, vecchie carte, stampe, statue, stravaganti suppellettili e bottiglie di vini selezionati e di Champagne d'annata (era un raffinato conoscitore), confusamente posizionati accanto a bottiglie piene di acidi che usava per le incisioni, (nello studio era un’impresa  camminare senza calpestare qualcosa!, non sarebbe nemmeno riuscito ad introdurre la pesante e voluminosa tela.

Terminate le ore di lezione, si confrontava quotidianamente con essa. Dipingeva  in giacca e…foulard: amava tenerne uno al collo! Discorrevamo spesso uno accanto all'altro e con il passar dei giorni il dipinto a tempera si popolava incredibilmente di personaggi e ambienti diversi che ricordavano via via  gli affreschi del castel Roncolo o quelli  di Fénis o anche particolari desunti della danza macabra della chiesa di Risano. L’intenso profumo di sandalo, che lasciava una scia al suo passaggio, era un elemento caratterizzante della sua presenza a scuola.

La comune passione per l'arte ci proiettava lontano: parlavamo sempre dell’ambiente artistico veneto, dei pittori veneti che aveva frequentato, di alcuni amici comuni, del mercato dell’arte,  delle gallerie e musei importanti e delle mostre nazionali e internazionali contemporanee.

Desiderio comune era quello di dipingere, scrivere e…lavorare a Venezia o nell’area veneta da entrambi ritenuta importantissima.

Qualche volta la conversazione ci portava a parlare dei grandi pittori veneti del passato che Micalesco conosceva alla perfezione. La nostra amicizia aveva data remota e  tra i colleghi, nessuno conosceva nei dettagli la sua storia artistica. L’avevo conosciuto nel 1980 in occasione di una mostra personale presso la Sala Comunale d’Arte di Trieste;  allora “la coscienza che l’arte è anche processo di ri-meditazione degli accadimenti psicologici e sociologici dell’uomo” continuava ad essere alla base delle sue scelte emotive, ma già in quegli anni, il suo tempo di pittore vero era ormai finito.

Dopo l’archiviazione dei  quadri rimasti invenduti (molti altri sono finiti nelle mani di collezionisti francesi, americani e giapponesi!) posso sostenere  che l’insegnamento fu per lui (come per altri Maestri) deviante.

Nell’ultimo ventennio della sua carriera il dialogo con i giovani e il conseguente desiderio di trasmettere passione, far conoscere stili architettonici, movimenti, correnti pittoriche e artisti importanti lo condizionò.

Il ciclo di dipinti dedicati ai giovani tra i quali Il Bacio, Passeggiata sul sentiero Rilke, La moto, Galileo Galilei, Incontro, Discoteca, Il cinema di periferia rivelano la sua inesauribile vena di narratore, l’ancor giovane energia del pittore maturo, ma anche la progressiva e inevitabile decadenza.

Proprio la moto, disegnata e dipinta infinite volte, simbolo maschile di forza e vigore, diventa  metaforicamente il suo autoritratto: nei medi e piccoli formati coglie di frequente due amici, due giovani (sempre una coppia maschio e femmina) e pone la moto a terra o sul cavalletto poco distante.

Quasi fosse proprio lui,  il professor-pittor Micalesco ad osservare distaccato, ma partecipe quel loro mondo spensierato, virile, pericoloso, ma anche ingenuo, poetico e felice.

In realtà di ritratti veri ne eseguì tre o quattro in tutta la sua vita ed uno giovanile del 1959, è davvero formidabile.

Del resto egli era riservato, poco propenso a parlare di sé, degli importanti riconoscimenti artistici veneziani, dei ripetuti successi conseguiti in Francia (parlava perfettamente il francese) alla Galleria Vendome  dal 1964 al 1967  e della sua vita privata.

Scapolo per amaro destino più che per scelta, preferiva discorrere  dell’isola d’Elba che amava più di una  donna ideale: lì, infatti, soggiornava ogni anno, lì aveva gli amici più cari, lì incontrava artisti e letterati, lì rifletteva, guardava i cieli stellati svelava ad alcuno, spesso durante incontri occasionali,  le passioni qui a nessuno note (i Tarocchi, l’astrologia, la grafologia, l’egittologia, gli animali sacri, la magia bianca, lo studio anatomico del corpo umano) i vizi (gioco d’azzardo e, moderatamente, il vino) e le manie (collezionare maschere tribali, civette, sistemare dovunque monetine e spilli, raccogliere tappi, biglietti, pendolini, oggetti di culto egizio) e invadere quotidianamente per anni la propria casa di feticci, di compagni misteriosi e  silenziosi.

Fuori Trieste, nel mar Tirreno al largo della Toscana, amava immergersi in apnea, fotografare i fondali e la costa (era affascinato da Capo Teschio che pure incise diverse volte su   lastre), ma anche cercare qualche modella e andare in sua compagnia in un ristorante raffinato e alla moda: la cultura enogastronomica, il piacere proustiano del cibo  lo rendeva   gradevole  commensale dovunque andasse, ma l’ampiezza delle sue argomentazioni poteva interessare chiunque: con vena umoristica e sarcasmo, egli   portava astutamente la conversazione nei campi prediletti per carpire e capire l’interlocutore: la magia, l’esoterismo, la simbologia e  l’arte gli facevano da tramite in una sorta di analisi condotta con scrupolo e abilità di psicologo.

Pur essendo affabile e cordiale, l'uomo era schivo, poco disposto a trattare anche solo con pochi cenni o commenti le decisive tappe e le scelte pittoriche della sua vita, modesto e beffardo: nessuno, neanche i familiari ai quali era pur legato da grande affetto e gli amici più intimi, conoscevano il suo mondo e solo la sua scomparsa ha rivelato una doppia personalità  davvero singolare e perfettamente mascherata nel gioco del quotidiano, nel palcoscenico della vita.

Ottimo disegnatore, pittore, incisore e ceramista (per hobby) Micalesco fu pure vivace scrittore e critico d’arte.

Ripercorriamo dunque la sua carriera e  lo straordinario periodo artistico d’impronta metafisica,  fauve ed espressionistica che, tra gli anni 1948 – 1970 variabilmente, lo pone su un piano d’importanza nazionale.

Micalesco studiò all’Accademia di Belle Arti di Venezia con i maestri Cesetti, Santomaso e Saetti e si diplomò in Pittura nel 1963; ma  il suo debutto fu antecedente (1959) e una mostra personale nella città giuliana presso la Galleria Lonza ottenne molto successo e fu portata in molte città italiane: Venezia, Verona, Vicenza, Padova, Ferrara, Milano, Torino e Lucca.

Fra le sue mostre successive più importanti vanno segnalate quelle di Venezia nella Galleria Santo Stefano del 1961, Ca’ Giustinian del 1962 (invito del Comune di Venezia), Scuola Grande di San Teodoro del 1963.

Nello stesso anno il pittore partecipo' a Francavilla al Mare al Premio Michetti e fu poi alla Bevilacqua La Masa (1964, 1967).

Nel decennio 1960-1970 espose pure in importanti mostre personali a Napoli, Palermo, Firenze, Vienna, Londra, Los Angeles, San Francisco (California) e Tokio.

In quegli anni memorabili della sua carriera, pure le mostre in Francia a Parigi, Le Havre, a Cannes e a Montecarlo ebbero cadenze annuali e l’artista fu anche presente alla Biennale d’Arte Sacra al Palazzo delle Esposizioni di Roma, al Palazzo del Podestà di Bologna  e alla Galleria d’Arte Moderna di Milano. Espose alla Comunale di Trieste nel 1966 e nel 1980.

Strani presagi lo indussero improvvisamente ad abbandonare le esposizioni e una superstizione vincolata a diaboliche credenze rumene (il piccolo paese d’origine della sua famiglia fu sotto l’egida del ben noto Conte Dracula) determinarono la scelta.

Nel silenzio della sua dimora s’inabissò ossessivamente nella Passione distruggendo quanto non dovette sembrargli  pre-destinato.

I suoi soggetti sono ora Angeli, La Chiromante, La Monaca, L’Uomo Trauma, Primavera veneziana, I tori sono anche a Venezia, Composizione con motocicletta, Crocifissione, Resurrezione, Angeli di Santa Maria della Salute.

Assai belle, materiche, di dimensioni più contenute le nature morte d’impronta chiarista  che rappresentano il Capro con vaso di fiori , Capro sul tavolo e altre varianti con il medesimo soggetto.

Il CAPRO è un animale dal significato  tragico diventato tradizionalmente l’immagine della lussuria (Orazio, Epodi, 10, 13); libidinosus dice il poeta latino, di questo capro lascivo che vuole immolare alle Tempeste, come se la libido si identificasse con gli eccessi sessuali e con la violenza della potenza generatrice.

In questa prospettiva il capro, animale fetido, è diventato un simbolo di abominio o di riprovazione o, come dice Louis Claude de Saint-Martin, “di putrefazione e di iniquità”.; animale impuro, completamente preso dal bisogno di procreare, il capro non è altro che un segno di maledizione.

Nel Medioevo il diavolo si presenta sotto forma di capro; nelle immagini cristiane, Satana che presiede al Sabba è comunemente rappresentato con aspetto di capro.

Osservò Giuseppe Cesetti: in molti dipinti di Micalesco “le masse risultano illuminate da bagliori che si accendono in arancioni, rosa, e chiazze di bleu come chi guarda il penetrar del solo tra le piante”.

 Ma  i protagonisti del suo tragico, misterioso talora  impressionante ed enigmatico mondo sono figure che si caricano ciascuna di una caratteristica angosciante di un destino poco scrutabile.

I tori evocano l’idea di potenza e di foga irresistibile. Nel suo dipinto I tori sono anche a Venezia egli evoca il maschio impetuoso; il suo toro indomito simboleggia lo scatenamento sfrenato della violenza.

Il fatto che Micalesco amasse dipingere tori e caproni non è casuale: nel vicino Oriente i tori sono paragonati agli arieti e ai caproni, altrettanti simboli dello spirito maschile e combattivo delle potenze elementari del sangue.

Ecco ad esempio che I pescatori di Rovigno sembrano presagire prima il mare nero e poco oltre la paurosa visione delle raffiche di bora in mare aperto: mare ostile, divenuto gelido come la morte.

Nei quadri di Micalesco si avverte sempre sprezzante bravura costruita sullo studio degli artisti maggiori,  robustezza cromatica, saldezza di composizione, dominio della forza di tensioni e conseguente improbabile sforzo di contenere le energie, conflitti di masse, colori accesi e ribelli  che possono rimandare al fantastico mondo di Marc Chagall  o cupi al punto da richiamare alcuni soggetti di Nathan. Luminosità violente e incupimenti altrettanto violenti!

L’impianto narrativo solido, ma non sempre di significato intuibile, maschera dialoghi impossibili, tensioni in bilico, traumi e paure rese salde nel loro clima cromatico.

La rappresentazione metafisica raccoglie angeli e uomini-automi (osservò Carlo Milic “ quasi un ricordo permanente dei manichini e degli ermafroditi tracciati nel mondo di Carrà e De Chirico), ma pure il diavolo è presente nelle opere e la testa di un caprone lo simboleggia  talora in diverse nature morte. Osservò Giulio Montenero che “…la prospettiva dello spazio riesce a dominare il tumultuoso accorrere di gesti e lo scomposto portato emotivo delle positure, strane, cariche di angosciosa attesa: ma alla fine ciascuno ritrova il proprio vuoto in cui collocarsi e fra i loro gesti si instaura una trama solidale di colloqui, verso l’espressione di una realtà, che pur drammatica e furiosamente indagata, non disdegna ancora parvenza e sostanza umana..”

Così scrisse nel 1964 il pittore: “Sulle estreme esperienze dei tardi epigoni delle correnti pittorico-culturali, di sapore internazionalistico, sta scorrendo questo nostro difficile tempo. Ancora un sospiro ed il secolo si concluderà sui nostri pensieri stupiti, in un’attesa insoddisfatta, mentre Picasso nel suo trono d’oro aspetta il consenso del tempo.. Voglio tornare per parlare ancora una volta, in mezzo a questa congerie di internazionalismi, un linguaggio pittorico che sia soprattutto italiano”.

Due anni dopo, presentando al pubblico una memorabile personale, ci fornisce una chiave di lettura delle sue opere: “Dipingere è veder chiaro in sé stessi, per lasciare in basso la realtà di ogni giorno, per avvicinarsi alla realtà che ci sovrasta. Senza vani preziosismi o confusioni di coscienza, figurare i frammenti di un ideale  affresco del dramma umano ove l’alba della ragione sarà l’ultima speranza”.

Pittura di meditazione dunque, ma anche pittura-rifugio di drammi, pittura che vuole chiarire una parte del mistero, pittura che ambisce a cercare un’ umanità autentica.

L’eroe nei quadri di Micalesco è il nostro amico dell’angolo della strada deserta, che passa e non salutiamo e non ci saluta. E’ lo sconosciuto che ci cammina davanti, di cui sentiamo i passi alle spalle, di cui abbiamo lo sguardo in noi stessi, da sempre, è l’impotente che precipita nel vuoto di un baratro pauroso, è il temerario che osa sfidare il divino è il pittore che si auto –distrugge nel labirinto del suo  mistero.

Sono parole del pittore: ” Dipingere per vedere dentro le cose alla struttura lirica di attimi reali percepiti quasi inconsciamente, riflettersi nelle cose, nei personaggi ed in essi riconoscersi, percorrendo i sentieri della memoria del tempo la dove il silenzio cristallizza l’immagine ed in un attimo la scopriamo diversa da come era sempre stata, ed ogni volta una nuova gioia di forme, di luci, di colori si tuffa in noi e ci trasporta ai limiti della realtà”.

“Il lavoro si sente quando è già finito, di sera, soprattutto d’ottobre e d’inverno, quando è piovuto tutto il giorno. Il lavoro si vede all’alba quando s’inizia con luci accese e passi isolati, porte accostate e saluti lievi. Il lavoro ha l’odore del ferro, ed inebria come una droga; stordisce, esalta, trasforma il colore dei volti, degli operai come guerrieri o mistici eroi”.

Micalesco, osservò Decio  Gioseffi in una testimonianza del 1961, era pittore che ci credeva.  Artista, scrisse l’illustre critico, che  “ha fede nella vita e nella pittura in quanto espressione di vita. In tal senso non deve far meraviglia il suo fondamentale realismo. Allievo di Cesetti, si rifà per certi motivi al maestro, ma attraverso Cesetti riesce a recuperare la radice espressionistica del Novecento, spigolando nei campi della Brückel di Nolde, di Schmidt-Rottluff, di Kirckner, di Kokoschka. Vero è che la componente satirica, insopprimibile nell’opera di quei primi, è qui lasciata cadere: ma codesto non basta a riportare le intenzioni dell’artista sul piano disimpegnato del colore puro dei fauves. Micalesco cerca di farsi interprete di quelle “situazioni” (modelle in posa, ritratto di personaggi che guardano fuori campo) che, a suo giudizio possono ritenersi rappresentativi della condizione umana: intento perseguito con serietà e fermezza.”

Le sue figure continuarono, in quegli anni fulgidi del suo operare, a portarsi dentro il peso di una corporeità, ma anche drammi esistenziali enormi: i suoi uomini, le sue donne sono immobili nel tempo quasi a cercare ragione del proprio esistere in un contatto spirituale ora sotto l’aurea  angelica, ora torturati da pericolose presenze di un Mondo Supremo.

Quasi in una giornaliera lotta inesausta, logorante, confusa Micalesco lacerò se stesso, si chiuse nel suo mondo, si espresse attraverso simboli, rifiutò contatti con il mondo esterno. Tra i suoi eccellenti disegni anatomici, tra alcuni nudi di donne “esplorate” addirittura sotto le fasce muscolari, nello scheletro, spiccano le terribili serie della medesima “angosciante stanza”, quella nella quale dormiva e dipingeva, invasa da spiriti e demoni.

Non lo poterono consolare e liberare dall’ansia sempre ben mascherata, né l’aiuto di Leuviah né quello di Pahaliah o di Yeiayel che segretamente invocava.

Ma le visioni, i “contatti”,  lo riconducevano assai spesso alla considerazione di Iacopone

“O corpo enfracedato, eo so l’alma dolente” e a quelle di Boccaccio “Le nostre anime, fatte da Dio alla sua imagine, tutte andavano a’ dolenti regni de’ malvagi angeli…e a niuna era possibile per suo merito il risalire colà donde peccando era caduta”.

Ecco dunque drammatica e teatrale spiegazione di quelle sue figure capovolte, tese, semi-attorcigliate, ma sempre con le braccia lanciate nel vuoto come quelle del suicida che si tuffa verso il grigio dell’asfalto incurante dei passanti. Altre volte, nei dipinti di Micalesco,  si notano macchie improvvise e sfumate di colore chiaro: rappresentano ANGELI, esseri mediatori fra Dio e il mondo, citati sotto forme diverse nei testi accadici, ugaritici e biblici che il pittore conosceva.

 Gli ANGELI di Micalesco sono segni che avvertono la presenza del sacro e  che s’insinuano in spazi vitali. Macchie simboliche, talora si diffondono soavemente nelle sue tele e si dilatano penetranti in un clima di tragedia.

Spesso contrastano con il DEMONIO rivelato da ombre insidiose, figure illeggibili, ma contornate o da sguardi biechi di uomini e donne solo apparentemente rilassate e “distaccate” dal mondo circostante.

Per Micalesco, come per Rainer Maria Rilke (che  studiò a lungo), l’angelo rappresenta la figura nella quale è già realizzata la trasformazione del visibile nell’invisibile CUI NOI TENDIAMO.

Altrove figure “compresse”, mollicce negli abiti, apparentemente incorporee, ma saldamente dipinte, sono  nella preoccupata attesa dell’ineffabile e sono  realizzate sotto cieli minacciosi percorsi da nubi nere che preannunciano intime  catastrofi urbane.

Raramente barche solitarie vanno alla deriva, sono accostate tristemente vuote sull’arenile e casolari abbandonati indicano un possibile, fatiscente rifugio al marinaio, al naufrago.

La pittura di Micalesco non da speranza, non conduce l’artista verso una presunta morte felice. Ai suoi giovani allievi adolescenti non poteva dire tutto questo, doveva indicare le vie della speranza, non quella del dolore che teneva per sé.

E l’amore per la pittura, l’azione quotidiana diretta d’intervento sul lavoro altrui, i suggerimenti che poteva e sapeva dare ai ragazzi, gli consentivano di sopravvivere, di essere benvoluto, rispettato e apprezzato, ma soprattutto  di spezzare in due la propria giornata; rientrava a  casa lentamente e vi trovava rifugio per dipingere.

Trascurava del tutto quegli aspetti di vita considerati da chiunque ovvi e naturali e nessun orologio scandiva il suo tempo terminate le lezioni. Quelle pomeridiane non si potevano definire ore, ma TEMPO, il suo vero tempo. Al ritorno delle vacanze, non apriva neanche le valigie, non riordinava niente, né risciacquava asciugamani e costumi da bagno: rimandava l’incombenza all’anno seguente quando avrebbe buttato via tutto per acquistare nuovi indumenti, nuovi oggetti d’uso vacanziero.

Non si preoccupava nemmeno di entrare in cucina per farsi da mangiare (la porta della cucina era sbarrata da una tela posta obliquamente ed egli  preferiva spesso sostare fuori; non usava le vasche  del  lavello per lavare  verdure,  frutta, piatti e posate, ma per pulire i pennelli o versare in esse gli acidi delle incisioni.

Non raccoglieva mai ciò che cadeva in terra…

Anni addietro lo vedevo spesso in solitaria meditazione presso la sua Ford Anglia di colore blu che i raggi del sole, in un trentennio, hanno progressivamente stinto: pigro e panciuto l’ammirava come il giorno in cui s’innamorò della sua carrozzeria e del taglio obliquo insolito della parte alta posteriore: poche volte, in verità, se ne andava a fare un giretto sull’altopiano o a casa del fratello e della gentile cognata ad Opicina.

Amava anche lui il Carso, soprattutto quello  dei  dipinti di Brumatti  e di notte avrebbe desiderato percorrere qualche stradina tortuosa e solitaria per  inseguire con i fari della sua automobile il volo radente  delle civette in cerca di cibo o quelle affiancate sui rami di un albero che avevano affascinato Cerne, ma poteva udire il loro ritmato lamento pure standosene a casa: gli alberi del Giardino Pubblico, a poca distanza dal suo studio, nelle calde notti d’estate si popolano ancora di uccelli e il loro canto si sostituisce al suono delle campane della vicina chiesa nella quale raramente entrava.

Eppure tenne corrispondenze con diversi sacerdoti e scrisse a papa Woityla che pure ritrasse.

Forse quelle strane creature che hanno udito il suo urlo straziante di dolore nel momento della morte, volano ora nei cieli della Romania sopra le rovine del noto castello e osservano luoghi misteriosi e nascondigli di vipere.

 

 

 

Walter Abrami