SANSEVERO
Giovanni Attinà
Nel cuore del centro
storico, all’angolo di una stradina dove difficilmente si fa vedere il
sole, tra palazzi decadenti e panni stesi, c’è un vecchio portone, al
quale nessuno fa caso, se non lo cerchi apposta. C’è solo un piccolo
cartello turistico, di quelli gialli, un po’ piegato, neanche molto
visibile.
Napoli, Cappella
Sansevero
Quel portone è il modesto ingresso di una piccola cappella, che non fa
parte dei tradizionali itinerari turistici.
Eppure, lì dentro, a detta di molti storici dell’arte, si cela una delle
più pregevoli opere barocche della città: è la chiesa di S. Maria della
Pietà, detta anche “Pietatella”, meglio conosciuta come Cappella
Sansevero. Un luogo straordinario, avvolto da leggende popolari e
misteri, magie e simboli esoterici, un piccolo spazio che racchiude
archi, marmi, stucchi, dipinti, colonne, affreschi e statue.
Nella zona dove sorge la chiesa, da quanto raccontano archeologi e
studiosi di esoterismo, già in tempi molto lontani si tramandavano
leggende e simboli relativi a templi pagani, e a un cosiddetto “centro
cosmico”, un luogo dove ci sarebbe una particolare corrente di
magnetismo e di energia. Lì doveva esserci un tempio contenente una
statua “velata” di Iside e di Horus, Dei egiziani, poiché in quell’area
abitavano immigrati alessandrini, come ancora oggi ricordato dal nome
della vicina via Nilo.
Bartolomeo Capasso affermava che “...in fondo alla cella vi era
l’immagine della Dea, che i filosofi credevano fosse il tutto, ciò che
fu, è, e sarà: essa, dai soli sacerdoti e dagli iniziati poteva essere
veduta….”.
Quasi una predestinazione! Due millenni dopo, un altro tempio -
cristiano – accoglie statue “velate” e simboli, visibili dai soli
iniziati o comunque da studiosi della materia, mentre a un qualsiasi
visitatore, la visione della cappella, suscita comunque ammirazione e
sconcerto, stupore e turbamento.
Napoli, Cappella
Sansevero
La sua storia ebbe inizio, a Napoli, alla fine del XVI sec. Fu fatta
costruire, infatti, nel 1590 dal duca Francesco di Sangro, principe di
S. Severo, come cappella privata annessa al vicino palazzo di famiglia;
nel 1608 fu trasformata in chiesa, aperta al popolo, e destinata ad
accogliere le tombe della famiglia.
Don Gennaro Aspreno Galante, prete e archeologo napoletano(1843/1923),
nel suo libro: “ Guida sacra della città di Napoli”, così scriveva:
“..la calata Sansevero a nostra dritta ci mena alla superba cappella
della Pietà de’ principi di Sangro. Nel 1590 Francesco di Sangro,
principe di Sansevero, l’edificò per voto, collocandovi l’immagine di
S. Maria della Pietà, che era primamente nel contiguo giardino di suo
palazzo e diede il nome alla cappella. Nel 1613 Alessandro di Sangro,
patriarca di Alessandria e arcivescovo di Benevento la riedificò dalle
fondamenta destinandola a sepolcreto di sua famiglia; verso il 1750
Raimondo di Sangro l’adornò di tali e tanti lavori d’arte, che ne venne
chiamato fondatore. Egli costruì il cornicione ed i capitelli dei
pilastri con un mastice da lui formato che parea madreperla…”.
Dal racconto emerge subito la figura, e un accenno a una invenzione, di
un aristocratico personaggio, che fece la cappella così come la vediamo
ancora oggi: Raimondo di Sangro, non solo principe di S. Severo, ma
insignito di tanti e diversi titoli nobiliari, gran maestro della loggia
massonica di Napoli, alchimista, inventore, studioso di anatomia,
occultista, filosofo, ecc.
Nato nel 1710 a Torremaggiore, in Puglia, egli è probabilmente il
napoletano meno conosciuto all’estero, forse perché fuori dagli schemi
soliti e dai luoghi comuni: personaggio straordinario, tipico del ’700,
del secolo dei lumi, protagonista dei misteri dei vicoli di Napoli.
Sulla sua vita avventurosa, le sue invenzioni, la sua attività e la
stessa cappella San Severo, sono state già scritti biografie e saggi, ai
quali rimando per chi voglia approfondirne la conoscenza; qui solo
qualche accenno agli avvenimenti e alle opere più famose, perché più
delle parole sono le immagini, e possibilmente una visita, a dover
parlare..
Nato in una famiglia tra le più antiche e nobili del regno, restò orfano
di madre già all’età di un anno e, abbandonato dal padre, fu affidato al
nonno, che lo mandò a Roma presso il collegio gestito da Gesuiti.
Dimostrò di essere un buon allievo, anche se insofferente alla
disciplina: fu attratto soprattutto da studi scientifici, che poi lo
segnarono per tutta la vita. Egli si appassionò, infatti, agli studi di
alchimia e chimica, alla fisica, alla medicina, alla anatomia in
particolare, e alla filosofia. Tornato a Napoli, nei sotterranei del suo
palazzo, installò un laboratorio chimico, poi una moderna tipografia e
una grande vetreria, realizzando invenzioni incredibili per l’epoca.
Poichè non ne spiegava mai i segreti, gli si creò intorno una
inquietante leggenda di stregone e mago: il popolino che vedeva
sprizzare dal suo palazzo, di giorno e di notte, bagliori di fornelli e
sentiva stridori di macchine, vedeva gente strana che entrava e usciva,
oggetti e opere straordinarie, mormorava di patti col demonio.
Egli scopri formule per costruire marmi colorati, gemme artificiali,
stoffe impermeabili, colori particolari; costruì inoltre una” carrozza
marittima”,
(probabilmente era un mezzo anfibio) con cui passeggiò nel golfo, e ne
fece dono al re, e soprattutto le cosiddette “macchine anatomiche”.
“….si veggono due macchine anatomiche, o per meglio dire, due scheletri,
d’un maschio e d’una femmina, ne’ quali s’osservano tutte le vene e le
arterie de’ corpi umani, fatte per iniezione…”cosi venivano descritti
già nel 1766.
Napoli, Cappella
Sansevero
Procuratosi - non si sa con certezza come, ma anche qui non mancarono le
dicerie - due cadaveri, un uomo e una donna, e con la collaborazione di
un medico, aveva iniettato nel sistema venoso una sostanza di sua
invenzione, a quanto pare ancora oggi sconosciuta, che aveva pietrificato
vene, arteria e viscere. I due scheletri, con il sistema arterioso e
venoso e le viscere pietrificate sono ancora li, da tre secoli.
Ce ne era abbastanza per ogni tipo di leggende e misteri sulla attività
del principe, che, per giunta, era associato anche alla Massoneria e
poi ne era divenuto gran Maestro. Egli di accuse e dicerie se ne
infischiava, e proseguiva nelle sue attività: la sua alta posizione
sociale glielo consentiva. Ovviamente entrò in contrasto con la Chiesa,
che lo scomunicò.
Malgrado fosse preso da studi scientifici, egli non dimenticò di
sistemare la Cappella, e, data la sua fama, studiosi e storici non
poterono fare a meno di individuare simbolismi esoterici, massonici e
perfino magici, in tutti i dipinti, le statue, le scritte e ogni opera
in essa contenuta. A mio parere era soltanto uno scienziato in anticipo
sui suoi tempi.
La cappella ha una unica navata: ai lati, lungo le pareti ci sono
quattro archi a tutto sesto, nei quali sono posti monumenti sepolcrali,
dedicati alla famiglia di San Severo.
L’affresco della volta è un’opera spettacolare di Francesco Russo, un
artista locale di cui si hanno scarse notizie, che realizzò l’affresco
nel 1749: denominato il “ Paradiso dei San Severo”, ancora oggi stupisce
per la brillantezza dei colori che resistono alla azione degli agenti
atmosferici. Ciò è stato attribuito a una particolare pittura detta “oloidrica”,
inventata dal principe, ottenuta, pare, sostituendo la colla,
normalmente usata per gli affreschi, con altre sostanze sconosciute di
sua invenzione che, come sempre, egli si guardò bene dal rivelare.
La stessa pittura fu utilizzata da altri artisti, come il sorrentino
Carlo Amalfi, che dipinse su un medaglione in rame, il principe in età
matura, oppure la “Madonna con bambino”, di cui si erano perse le tracce
e ritrovata appena nel 2005, realizzata e donata dal principe al Re,
dall’artista romano Giuseppe Pesce nel 1757. Nè si possono dimenticare
alcuni dipinti di Francesco de Mura, pittore barocco della scuola di
Francesco Solimena e Luca Giordano.
L’altare maggiore, sovrastato da una cupoletta affrescata, è diviso dalla
cappella da un arco: si presenta in uno stile barocco grandioso, con
pilastri e cornicioni, fregi e capitelli in marmo, circondato da statue
e gruppi marmorei. Il posto ne è pieno, ma limiterò questo breve
intervento solo ad alcune di esse.
“ Educatio et disciplina mores faciunt”, il latino non è proprio quello
classico di Cicerone, la frase è scolpita in una opera che rappresenta
l’”educazione” che viene impartita al principe raffigurato da piccolo,
attribuita forse a Francesco Celebrano, pittore e scultore napoletano,
tra l’altro direttore della Real Fabbrica delle porcellane di
Capodimonte.
Il veneziano Antonio Corradini era considerato, insieme al suo seguace
Francesco Queirolo, un esperto di statue velate. Nato a Venezia nel
1688, dopo aver lavorato in mezza Europa, a Vienna, a Praga, a
Pietroburgo, e a Roma, fu chiamato a Napoli già anziano, nel 1749.
Antonio Corradini,
La Pudicizia velata. Napoli, Cappella Sansevero
Il Corradini realizzò, nel 1751, la “Pudicizia”, una figura femminile
avvolta in un velo, dedicata alla madre di Raimondo, come si legge nella
lapide:” a Cecilia Gaetani dell’Aquila d’Aragona, moglie del duca di
Torremaggiore di Sangro”. Il velo, perfettamente aderente alla statua,
oltre alla perfezione della scultura, trasmette una sensazione di fredda
sensualità.
Il Queirolo scolpì, invece, la statua detta popolarmente del ”Pescatore”, perché mostra una figura maschile che tenta di districarsi
da una rete, che sembra appunto una di quelle usate per la pesca. In
verità, la sua denominazione ufficiale è il “Disinganno”, ed è dedicata
al padre di Raimondo, don Antonio, un personaggio descritto, anche da
Benedetto Croce, come dissoluto e libertino, noto per eccessi di ogni
tipo, raffigurati come una rete, dai quali, egli cerca di liberarsi. Al Queirolo è attribuita anche la “Sincerità”, monumento funerario
dedicato alla moglie di Raimondo, raffigurata anche in questo caso, come
una figura femminile avvolta da veli.
In queste opere, dato l’alone di mistero del principe, si pensò, al
momento, non alla eccezionale bravura degli artisti, che avevano
scolpito velo e rete in un unico blocco di marmo, ma a una delle solite
invenzioni diaboliche di don Raimondo, che avevano consentito la
marmorizzazione di un vero velo e di una vera rete.
La stessa leggenda si diffuse per quella che è l’opera più famosa della
cappella, e che ne costituisce l’immagine più nota: la statua del Cristo
velato.
Giuseppe Sanmartino,
Cristo velato. Napoli, Cappella Sansevero
Ha lasciato scritto don Raimondo, “… sarà posta una statua di marmo a
grandezza naturale, rappresentante nostro Signore Gesù Cristo morto,
coperto da un sudario trasparente, realizzato dallo stesso blocco della
statua…”. Non fu uno scultore famoso a realizzare l’opera, ma un giovane
napoletano ancora sconosciuto all’epoca, (1754), Giuseppe Sanmartino.
Secondo alcuni studiosi, la statua in marmo fu realizzata su un modello
in creta lasciato dal Corradini, secondo altri invece anche l’ideazione
fu del giovane Sanmartino.
Giuseppe Sanmartino era nato a Napoli nel 1720; quando fu chiamato dal
principe Raimondo non era nessuno. La sua carriera ebbe uno slancio dopo
aver lavorato al Cristo velato. Egli infatti lavorò per varie Chiese, e
anche con Luigi Vanvitelli. Si dedicò inoltre anche alla creazione di
statuette per il Presepe napoletano, alcune delle quali sono oggi
esposte al Museo della Certosa di S. Martino.
La sua opera più importante, considerato un capolavoro della scultura
europea del XVIII sec., è stata e resta quella della Cappella San
Severo.
L’opera lascia senza fiato: la statua mostra nel marmo, con una
eccezionale tecnica scultorea, l’affiorare di un corpo umano disteso,
avvolto in un velo. Il lenzuolo che ricopre la statua aderisce
perfettamente alle forme del cadavere e provoca un vero impatto
drammatico, che fa ammutolire i visitatori.
Si racconta che uno scultore certo più famoso del Sanmartino, tal
Antonio Canova, dopo una visita alla Cappella, aveva confessato che
“avrebbe dato dieci anni di vita pur di essere lo scultore del Cristo
velato”.
Giovanni Attinà
Per saperne di più:
Bartolomeo Capasso, Napoli greco-romana. Arturo Berisio 1978
Gennaro Aspreno Galante, Le chiese di Napoli. Solemar.2007
Antonio Emanuele Piedimonte, Raimondo di Sangro, principe di san Severo.
Intramoenia 2010
Alessandro Coletti, Il principe di Sansevero. De Agostani 1988
Vittorio Gleijeses, La storia di Napoli. SEN 1974
V. Gleijeses, Guida di Napoli e dintorni. Del Giglio 1979
H. Acton, I Borboni di Napoli. Giunti
M. Buonoconto, Napoli esoterica. Newton 1996
Benedetto Croce, Storie e leggende napoletane