Nato a Trieste il 20 settembre del 1854, Ruggero Berlam è l'esponente
intermedio di una dinastia di costruttori che dalla metà del XIX secolo
al primo quarantennio del Novecento impresse un sigillo ineguagliabile
alla fisionomia architettonica e urbanistica della città: il padre
Giovanni Andrea (1823-1892) era stato il primo ad introdurvi i modi di
un revival stilistico (quello che genericamente si conosce col termine
assai equivocabile di 'eclettismo') valido a riprendere su tutt'altro
registro l'insegnamento dello storicismo neoclassico, mentre il figlio
Arduino (1880-1946) ne avrebbe perpetuata la lezione temperandola con le
istanze più fresche della modernità, oltre a distinguersi nel campo del
grande arredo navale.
Dopo una prima formazione compiuta presso l'Accademia di Venezia
(1871-74), Ruggero perfeziona gli studi nel triennio successivo nella
milanese Accademia di Brera, sotto la guida di Camillo Boito, all'epoca
il maggior teorico del rinnovamento architettonico italiano, il cui
esempio (elaborare un linguaggio nuovo coll'"annodarsi a uno stile del
passato" perdendone però "il carattere archeologico" e ispirandosi al
temperamento "incontestabilmente italiano" dell'architettura lombarda o
delle "maniere municipali del Trecento") gli rimarrà imprescindibile
fino al termine della carriera, pur allargando il raggio della
rivisitazione stilistica ai modelli più maturi del Cinquecento o del
Barocco, facilitato di suo da un talento grafico eccezionale. Vale
sempre la pena ribadire la celebre osservazione di Pietro Sticotti
secondo la quale "egli fece il pittore per tutta la vita, anche quando
architettava".
Fin dal principio il nostro ha modo di confrontarsi con progetti di
largo impegno, tra i quali vanno segnalati quelli per la sede della
Cassa di Risparmio locale, per il rifacimento – che immagina in accenti
goticheggianti – della facciata del duomo goriziano e soprattutto per il
secondo concorso internazionale del Vittoriano a Roma.
L'esordio fisico in città coincide con l'arricchimento di due ambiziose
imprese paterne, tra 1878 e 1880. La casa all'attuale civico 24 della
via Carducci, all'epoca accolta dagli applausi della critica, integra il
prospetto con un entusiastico prontuario di soluzioni
tardorinascimentali: sarebbe sufficiente citare le specchiature a
graffito e la parte inferiore delle semicolonne giganti cinta da putti
in carosello, ma è difficile tacere dei gruppi leonini chiamati a
sostituire il fogliame in tutti i capitelli maggiori. Se, com'è
prevedibile, patisce d'un eccesso di severità da parte della
bibliografia più recente, le rimane, per consolazione, il primato della
fantasia tra i prospetti che fanno ala a questa importante strada di
scorrimento. Gli interventi su palazzo Hermanstorfer (via Battisti 6),
dal canto loro, giocano sulla promiscuità contraddicendo l'archiacuto
nelle aperture del pianterreno con stratagemmi chiaroscurali di stampo
manierista nel comparto centrale (protomi di nuovo leonine per i
mensoloni sfaccettati sotto il balconcino del secondo piano; ghirlande,
rivestimenti embricati e testoni intorno alle quattro finestre mediane
dello stesso).
In una decina d'anni (1884-1893), Ruggero sparge altrettante costruzioni
sul colle di san Vito: quattro risultano commissionate dai Bazzoni.
All'incirca come un segnale d'allarme trilla il villino al civico 4
della via omonima (1888); le munizioni cilindriche d'angolo e
soprattutto gli slittamenti affannosi imposti agli strombi delle
finestrelle toscaneggianti palesemente non sono estranei a trame
caricaturali. Un anno dopo, comunque, eccolo riacquistare disciplina
nella ferma impostazione volumetrica della villa Haggiconsta, ritirata
in un parco sul viale Romolo Gessi. La redazione finale del progetto
sfronda gli accenti fiabeschi del concepimento e affida al corpo
occidentale l'intensificazione d'un torretta appena leggermente
capricciosa, il cui modulo verrà ripreso di lì a una quindicina d'anni
per i rinforzi del quinto caseggiato Aidinian in via dei Giustinelli.
Casa Leitenburg (1889) ha la perentorietà del capolavoro e il carisma
del simbolo. Affermazione di piena consapevolezza artistica non meno che
ideologica, è il reinvestimento definitivo del sempre presente auspicio
boitiano nel contesto congenitamente ricettivo della città irredenta.
Incunabolo locale di uno stile che Pietro Sticotti appellò 'fiorentino'
ma che secondo l'analisi degli studiosi successivi si inclina a recepire
suggerimenti da un più ampio circondario centroitalico, sospende
l'incredulità e s'installa nell'indaffarato crocevia Giulia/Rossetti con
felice voracia appropriativa. Tonante, piena di grazia e maestà, si fa
forte di una deferenza mimetica personalissima che non incrinerebbe
l'assetto di via de' Tornabuoni a Firenze, Piazza Tolomei a Siena o
Corso Vannucci a Perugia. Tutti i caratteri della famosa 'maniera
municipale' agiscono a piena potenza spazzando via ogni imbarazzo: la
sfida è decisamente vinta da questo palazzo 'in stile' tra i pochi a non
avere il birignao e dove non si annusi la polvere dell'accademia. Le due
fronti – più rappresentativa quella su via Giulia – accoppiano o isolano
finestre architravate nel primo piano e a pieno centro nel secondo e
terzo, ove sono rimarcate, di contro lo sfondo minuto del cotto, da
estradossi a conci più larghi che le assecondano in un quasi
impercettibile dirottamento archiacuto; la cimasa, infine, riceve la
calda stesura dell'affresco e proietta degli sporti in legno a sostenere
la rustica linea di gronda. I ferri battuti che scandiscono il prospetto
in riccioli di disegno araldico sono richiamati nella affilata lucerna
appesa allo spigolo, arieggiato più su dalla stupenda loggia a pianta
pentagonale: questa si esalta nello stacco cromatico delle balaustre e
del fusto in pietra bianca che illuminano il profilo della
portafinestra, ancora distintamente affrescato a fiorami (e bianco
sarebbe, a onor del vero, anche il partito di pietra svolto nei primi
due livelli, ovvero fino all'altezza della loggia, se gli scarichi dei
veicoli in traffico costante non l'avessero intriso con una spessa
patina di nerofumo).
Un equilibrio mai eguagliato dalla miriade di imitatori o infatuati
(fino al 1940 sorgeranno oltre duecento fabbricati in quest'ispirazione,
specie nel distretto di Barriera Vecchia), ma nemmeno dallo stesso
ideatore. Berlam ritenterà il colpo nel 1906, di nuovo sfruttando un
incrocio, e questa volta oltremodo decentrato (vie Piccardi/dell'Eremo).
Brachilineo cassettone asperso d'ingentilimenti sottili sottili, il
palazzo scala la fronte secondaria sul dislivello di via dell'Eremo, ciò
che comporta un effetto ponderale rovinoso, da piombo nelle ali, anche
se questa stessa pesantezza, da un altro punto di vista, può
trasformarsi nello spettacolo di una potenza selvaggia, espressivamente
oltre la portata di tanti altri interventi architettonici del periodo.
Ritorna l'incantamento e l'insegnamento specifico di Casa Leitenburg a
disegnare un Medioevo più vero del vero, e le finiture poche volte sono
state altrettanto intonate: le cartelle a saporite sfumature d'affresco
sull'attico, il balcone foggiato alla veneziana, i listelli marmorei che
striano in orizzontale la densità della massa, ecc.; malgrado tutto,
qualcosa di importante si è perso, o non è riuscito a filtrare. Così, la
ricchezza di concetti che aveva presieduto alla creazione del prototipo
adesso si traduce in una spoglia senza dubbio evocativa, ma ormai vacua
e scaricata, orfana del significato iniziale.
In rapporto al filone, quest'opera può dirsi la battuta d'arresto. Fino
a questo momento (per non dire di quello seguente), comunque, le strade
intraprese saranno quasi sempre costellate di riuscite, in una gamma di
proposte, per giunta, sorprendentemente ampia; come se in effetti
l'artista potesse operare in modo davvero proficuo solo a patto di
praticare la differenziazione sistematica della cifra linguistica.
Tornando agli anni 1890, vediamo che lo spirito in qualche modo
pacificato così come espresso nella villa Haggiconsta, fissa uno
standard di eccellenza per il versante più classicista dello storicismo
eclettico con un progetto a beneficio del Circolo Artistico di Trieste,
consistente in un salone elevato sopra il caffè del Teatro Fenice e
schermato da una facciata (via san Francesco) di aureo senso
proporzionale, esemplare per nitidezza e semplicità. Sarà necessario
attendere lo scadere del decennio perché il Berlam ripristini una
analoga felicità d'ispirazione. Tornando all'isolato Leitenburg, eccolo
quindi contrassegnarne il capo opposto, all'angolo con la via
Piccolomini, col marchio di un caseggiato che Marco Pozzetto annoverava
tra i più belli costruiti in città alla fine del secolo. Difficile dire,
tra parentesi, se per l'apprezzamento delle sue linee il massiccio
maquillage cui è stato sottoposto da poco sia meno nocivo dello
scadimento cromatico e dell'immancabile annerimento da smog subiti in
precedenza. Il palazzo (via Giulia 5) resta prodigo di sottigliezze. Al
pianoterra, sfilata di arconi sorreggenti un'indovinatissima teoria di
oculi circolari, per la cui valorizzazione è di rigore un mezzanino in
sordina; piano nobile arbitro d'eleganza con finestre e portefinestre
(tre i balconi) rimarcate dal cesello delle candelabre, non concesso
invece alle aperture rettangolari nel livello superiore, che l'assenza
di marcapiano rende compositivamente partecipi dello stesso settore;
ripasso di ghiere intorno alle finestre dell'ultimo piano, siglato col
grafismo erudito del cornicione rinascimentale.
Se anche a Trieste sono maturi i tempi per la fioritura del Liberty, il
nostro si dichiara avverso alle sue novità. Le due villette edificate
per i Modiano sulla via Rossetti (civici 77 e 79) provano ad adattarne
qualche locuzione, ma l'esercizio appare svolto controvoglia. L'unica
maniera, del resto, che Ruggero (almeno in ambito cittadino) trova per
attuarlo con profitto è quella di contraddirne gli assunti saggiandone
l'applicabilità al suo bagaglio storicista. Risultato, quella bizzarra
creatura che è la casa al numero 36 di via Piccardi. Decorata in
libertà, zeppa di consapevoli incongruenze (il derisorio parato floreale
dalla qualità meno che scolastica, l'impiego dei mattoni a vista), sa
chiaramente di truffa. Indicativo comunque dei suoi gusti e disgusti,
sorta di confessione burlesca, anzi, il lavoro sarà rettificato nel
palazzo adiacente sopra descritto (civico 38), non a caso senza troppa
soluzione di continuità nella scelta dei materiali, per riaffermarne la
correttezza d'uso.
Palazzo Vianello (1905) cerca la meraviglia a qualsiasi costo. Lo
stentoreo manto orchestrale che lo affardella di obelischi, statue,
concrezioni, applique e arzigogoli rasenta la perversione, segnando il
punto di non ritorno nella ricerca ornamentale del nostro. Diamo atto
che la costruzione non assomiglia da vicino a nessun'altra di quelle che
l'hanno anticipata, così da non accusare alcun segno di stanchezza e
vanificare la spinta a eventuali confronti. Per quanto ingombrante possa
risultare, vive in effetti di personalità propria. I motivi della
facciata fioccano con tutta l'energia possibile e distolgono
l'attenzione dal repertorio profuso sugli altri lati, dove pure non
mancano occasioni d'interesse: quasi sconosciuto, infatti, il fianco su
via XXX Ottobre, sul quale si apre un portone stravagante per esubero di
marmi, nel cui tettuccio due medaglioni dipinti con le effigi di
Leonardo e Michelangelo alludono ancora una volta al 'genio italico'.
Sarà questa connotazione, insita nel barocchismo flamboyant del
complesso, che la critica strumentalizzerà per contrapporlo
ideologicamente all'ascetica proposta 'jugend' della Narodni Dom di Max
Fabiani, edificata nello stesso momento quasi dirimpetto, prima che
un'insulsa replica del Vianello venisse piazzata all'altro capo dello
slargo, dirimendo in modo irrimediabile la vitalità del contrasto.
Nel biennio 1903-1905, Ruggero, avvalendosi per la prima volta della
collaborazione del figlio Arduino, architetta su commissione del
maggiorente armeno Giorgio Aidinian una vera e propria cittadella,
sfruttando una balza del colle di san Vito. Sfugge la leggerezza di
battezzarlo appunto 'quartiere armeno', questo paraggio residenziale che
nel ricordo e persino alla visione diretta trascolora in un esotismo
Romantico col quale in realtà non ha niente da spartire. L'insieme,
sincretico, è articolato in cinque blocchi. Come si presenta? Il primo
lotto (via Giustinelli 3) sta appresso la già esistente chiesetta dei
Mechitaristi. Procurando di non rubarle la scena, inventa a tergo un
prospetto, aperto sul pendio, con bifora centrale entro arcone a sesto
pieno sovrastato dal cornicione su cui siede una coppia di sentinelle
leonine, il tutto concluso da un fastigio mistilineo; la seconda casa
(civici 2 e 4 della stessa via), impersonale, si presta come complemento
volumetrico; lungo la sottostante via Benedetto Marcello s'inerpicano
due palazzi gemelli, temporaleschi nella loro progressione di bifore 'in
maggiore' – il marcapiano degli attici, fittamente dentellato, prevede
il rinforzo di mensole scalate e colonnine che insistono a loro volta su
mascheroni in rictus. Troneggia per finire (via Giustinelli 5) un
casamento fiero delle sue astruse torrette angolari: lo si scorge da più
e più zone della città.
Il permanente rispetto del dettato boitiano (torna la propensione
'medievalista' nelle case gemelle) e il vincolo della citazione (il
manierismo del Sanmicheli e dell'Alessi – palazzo Marino a Milano -
rivisitato dall'edificio-fortezza) non inibiscano l'ammirazione, ché
sono proprio questi a permettere lo sfogo di umori insospettati: una
reverie pseudoepica, nella cui concertazione al portamento guerresco si
aggiunge una sottolineatura iniziatica, quando non deliberatamente
sinistra.
Se un simile effetto non si attiva con la Scala dei Giganti (1907), la
colpa va addossata unicamente alla funzione urbanistica che il manufatto
deve assolvere: saldare cioè il colle di san Giusto con lo snodo viario
cruciale della Città Nuova (piazza Goldoni). Le rampe ammantano il
traforo, e il frastuono, della Galleria Sandrinelli, sacrificando
giocoforza le loro risorse poetiche, d'indubbia originalità; una
vigorosa stimolazione ancora una volta neomanieristica modella il
progetto su connotati vagamente antropomorfi.
Entro la Prima Guerra Mondiale, i Berlam – adesso associati a tutti gli
effetti – firmano la maturazione del loro programma comune con due
imprese che s'impongono a consuntivo e superamento di un'intera
concezione estetica.
Inaugurato nel 1912, dopo un avvicendarsi di traversie burocratiche non
poco ambigue, il Tempio Israelitico di Trieste ha fama di essere il più
grande d'Europa. Vero o no, qua importa evidenziare che si tratta
dell'architettura meno neo-qualcosa compiuta in città da oltre un secolo
in quella parte (escludendo le realizzazioni liberty degne di essere
definite tali, beninteso). Le deduzioni storiche sono riassorbite in un
discorso finalmente autonomo dall' 'eclettismo' come professione di
fede, che anzi si vede convertire metaforicamente da Bibbia a
vocabolario. I prestiti stilistici – a maggior ragione dotti e
abbondanti come mai erano stati nelle edificazioni eclettiche del posto
– ora valgono quali ideali medaglie al merito, esautorati dal ruolo di
motivazione portante grazie alla quale (e a nient'altro) l'architettura
poteva considerarsi degna d'essere praticata o dichiarare un senso.
Per scrupolo d'inventario ne vanno perciò citate le soluzioni
decorative, dalla stella di David estrapolata a rosone (lato su piazza
Giotti) al fermento elettrizzante del portale maggiore, dal dado merlato
sullo spigolo del modulo principale, alla proiezione dell'organismo
absidale nel lato su via Zanetti (memore dei modi normanni nella Palermo
di Ruggero II) fino al paramento policromo per la parte interna dello
stesso, designato a esaltare l'Arca Santa tra il nero marmoreo
dell'emiciclo e la calotta indorata. Presumibilmente per volere di
Arduino, domina e impone all'edificio il suo vero carattere una norma
progettuale fondata sull'articolazione monumentale dei puri volumi.
La sede per la Riunione Adriatica di Sicurtà (tra 1911 e 1914) è davvero
un imponente sforzo corale. La regia dei Berlam, infatti, spartisce, la
riuscita con le maestranze all'opera nel completamento scultoreo e
accessorio. Va ammesso che almeno in parte quest'ultimo non gioca a
favore dell'impresa: mentre il Palazzo Vianello accettava come necessità
strutturale l'apparato di Gianni Marin, ora le sculture in facciata
(piazza della Repubblica), dovute allo stesso autore, cui si affianca
Giovanni Mayer, sembrano messe là per dovere d'ufficio. Convenzionalità
tuttavia riscattata dal lavoro di Domenico Calligaris, 'mago' del ferro
battuto cui spetta il corredo d'inferriate che schermano le finestre su
tre lati del pianoterra, oltre alla regale cancellata in bronzo e gli
ingabbiamenti delle colonne all'ingresso sulla piazza. Questa griglia
d'ammirevole artigianato prelude allo spettacolo che Ruggero teatralizza
superbamente con l'imbotte trapuntata di stucchi puro Rinascimento,
l'alternarsi del bianco e rosa per il marmo delle colonne nel vestibolo
avanti fino alla quinta sgargiante del disegno per la fontana del
Gladiatore, nella cui realizzazione il Marin riprende la sua vena
migliore seducendo con la variopinta sinfonia del bronzo dorato, il
rosso di Verona per i leoni e il bianco di Carrara per l'anatomia
dell'eroe. Su per lo scalone d'onore (parapetto con dischi a traforo,
scudi in bronzo alle pareti, soffio di stucchi sui soffitti) e gli
ambienti di rappresentanza prosegue incessante la ricerca cromatica e
formale, magnifica in tutti i particolari, come ininterrotto si svolge
il fraseggio chiaroscurale su tutti e quattro i lati del palazzo, a mo'
di parata, nel candore della pietra d'Aurisina, e con un gusto della
grandeur attribuibile in tutto alla mano di Ruggero, per quanto il
figlio non si esenti dall'alleggerirne il tono col freschissimo
tassellato degli accessi secondari (vie santa Caterina e Dante
Alighieri). Rispetto all'emancipazione tanto vistosa manifestata nel
Tempio per la comunità ebraica, l'edificio in esame attesta un ritorno a
posizioni decisamente più conservatrici. In ciò non è obbligatorio
riconoscere una regressione della tempra inventiva da parte dei Berlam,
ma piuttosto – soprattutto per quel che attiene a Ruggero – un monito
esplicito e vagamente malinconico a non dimenticare, sull'orlo di una
rivoluzione assoluta tanto per la storia quanto per l'arte, ciò che in
passato è stato utile a costruire l'immagine della grandezza e
dell'impulso ottimista di una città per molti versi unica.