IL RIONE
SANITA'
Giovanni Attinà
Napoli, Basilica
di Santa Maria della Sanità (o San Vincenzo alla Sanità)
Una calda e bella domenica di metà settembre ha fatto da sfondo ad una
escursione, o forse meglio parlare di una incursione, nel rione Sanità
di Napoli.
La passeggiata, iniziata davanti al Museo archeologico nazionale, si
ferma prima davanti alla porta S. Gennaro, l’ingresso settentrionale
della antica Νεαπολισ. Di qui infatti, seguendo il corso della via Forìa,
passavano le mura della vecchia città, che poco più avanti ripiegavano
verso S. Giovanni a Carbonara, passando poi per Castel Capuano e
proseguivano oltre.
La posizione attuale della porta è quella del 1537, quando il vicerè don
Pedro de Toledo allargò le mura, fu così chiamata perché portava alle
catacombe di S. Gennaro, sulla collina di Capodimonte.
Il Santo è ricordato anche nell’affresco dipinto sulla porta. Risale al
1656 durante una gravissima pestilenza e fu dipinto da Mattia Preti,
condannato dal Tribunale ad affrescare tutte le porte della città,
poiché il pittore calabrese aveva superato il cordone sanitario, e
ucciso una guardia che voleva impedirglielo.
Per narrare, almeno superficialmente, la storia della zona bisogna
risalire molto indietro nel tempo.
“Dal sistema collinare del Vomero e di Capodimonte scendevano a valle
corsi d’acqua a carattere torrentizio, lungo l’attuale via Pessina, via
Cacciottoli, il Cavone, Salvator Rosa, S. Teresa al Museo, Via Stella e
via Vergini. Questi corsi d’acqua – racconta Cesare de Seta – defluivano
in due direzioni, il cui tracciato si può individuare nelle attuali via
Foria e via Pessina”.
De Seta lo chiama Rubeolo, e altri Sebeto, fiume che isolava, e
proteggeva, insieme alle mura, a nord, la nuova città.
Tutta l’area era boscosa e selvaggia: le acque, anche piovane, avevano
creato veri e propri valloni, incidendo profondamente nel tufo, e
depositando negli stessi valloni la cosiddetta ”lava dei vergini”,
composta da acque, fango e detriti.
San Felice,
particolare
La zona fu destinata da subito al seppellimento dei morti e a cerimonie
religiose, e fu chiamata Vergini e poi Sanità.
Vergini, sembra, da Eunostidi, adoratori di Ευνοστοσ, cioè un dio
minore, di cui è inutile narrare il mito, ma era considerato un dio
della temperanza e quindi della verginità, quindi sacerdoti votati alla
castità, che si recavano extra moenia, per adorarlo e fare funzioni
religiose.
Siamo nel periodo greco della città, sono state istituite le fratrie –
anche gli Eunostidi lo sono -, associazioni di carattere religioso e/o
politico dell’antica Grecia, che operavano su un determinato territorio
della città, in cui erano iscritte le famiglie di cittadini appartenenti
a quel territorio.
Esse si occupavano anche dell’amministrazione del territorio di
competenza e ne gestivano tutte le attività, il che può già far pensare
a un antenato di qualche associazione odierna, non proprio lecita.
Bartolomeo Capasso (Napoli greco-romana, pag.91) individua anche il
quartiere degli Eunostidi:
“essendosi trovata fuori della porta S. Gennaro, nella via dei Vergini,
la tomba di una famiglia ascritta alla fratria degli Eunostidi, è lecito
supporre che questa fratria abbia avuto le sue case non che lungi dai
propri sepolcri, e che perciò il suo quartiere corrisponda alle isole
poste tra il teatro e il muro settentrionale della città”.
Sul nome di Sanità ci sono due teorie: la prima ha pensato alla
salubrità del luogo, pieno di boschi, e sorgenti d’acqua e ville per
riposo e svago, mentre altri si riferivano invece a presunti miracoli
avvenuti per le preghiere rivolte ai morti di quei cimiteri.
In effetti l‘area, oltre ad essere utilizzata per l’estrazione del tufo,
fu destinata nell’ordine, a necropoli pagana, a catacombe paleocristiane
e, successivamente a cimitero cristiano.
Qualcuno si è spinto a sostenere che la poesia “ ‘a livella ”, Totò
l’abbia scritta proprio ambientandola nel cimitero della sua zona.
La nostra brava e simpatica guida ci racconta tutto in maniera chiara e
semplice, meritando l’attenzione di tutti e nessuno, mi sembra, ha
mostrato segni di noia.
Cosi fu per secoli: c’erano piccoli edifici religiosi-cimiteriali, come
quello che oggi è sotto la chiesa di S. Maria alla Sanità.
In età angioina, con Napoli capitale del regno, ebbe inizio il
contenimento dei corsi d’acqua provenienti dalle colline, con opere
fognarie e idrauliche, e la zona perciò divenne più agibile.
Si delineò anche la strada che partiva dalla porta S. Gennaro e saliva
verso l’interno, e iniziò la formazione di un piccolo borgo intorno agli
edifici religiosi esistenti.
Con il passare degli anni, piccole fattorie e case sorgevano all’esterno
delle mura, oggi diremmo abusive, perchè c’erano espressi e ripetuti
divieti di edificare fuori le mura.
Veri e propri borghi sorgevano dappertutto, sia nella parte occidentale
della città sia nella parte orientale. Nella Sanità, cominciò una
consistente urbanizzazione: giardini, orti, grandi proprietà fondiarie e
palazzi. La strada, alla fine del XVII sec., era diventata, grazie anche
ad interventi urbanistici, la principale via di comunicazione tra
collina e città, attraversava la vallata e raggiungeva Porta S. Gennaro.
Tutta la nobiltà, i vicerè e poi re Carlo e Ferdinando, per recarsi
nelle loro riserve di caccia, e nei casini di caccia, dovevano passare
di là.
Lasciata via Foria, appena entrati nel Rione, siamo in un altro mondo.
Mi sembra di aver oltrepassato una soglia, alle nostre spalle è
domenica, i negozi sono chiusi, c’è poca gente in giro, davanti invece è
tutto aperto, la strada è inondata da gente, da bancarelle che espongono
merce di ogni genere, frutta, verdura, pesce, indumenti……
Attraversiamo abbastanza rapidamente la via dei Vergini, arrivando al
palazzo detto dello Spagnolo.
Tutti i palazzi nobiliari d’epoca di Napoli sono in genere aperti, a
Spaccanapoli, a S. Biagio dei Librai, e anche qui; essi mostrano al
passante cortili più o meno grandi, dove una volta transitavano carrozze
o cavalli, scalinate, piante e giardini incredibili, antiche reliquie di
altri periodi.
Il palazzo dello “Spagnolo” non fa eccezione a questa regola.
Esso sorge proprio sulla strada dei Vergini, che fu utilizzata fino a
quando, nel 1810, non fu inaugurata la strada diretta e il ponte sulla
Sanità, che consentiva un collegamento più rapido.
Perché dello ”Spagnolo”? La costruzione risale al 1738 - da quattro anni
regnava a Napoli Carlo di Borbone - , per conto del marchese Nicola
Moscati di Poppano, che, malgrado la nobiltà, esercitava il mestiere di
mercante di cavalli e buoi. Diventato immensamente ricco, anche grazie a
un matrimonio ancor più ricco, volle farsi costruire una dimora degna di
lui.
Si racconta che tutto andò bene finchè visse don Nicola, ma alla sua
morte, già il figlio iniziò a dilapidare il patrimonio.
Così, nel corso degli anni successivi, a seguito di una serie di
vicissitudini anche politiche, gli eredi si ritrovarono nella
impossibilità di mantenere il palazzo, i creditori si rivolsero al
Tribunale e il palazzo fu diviso in varie parti. Nel 1813, una parte fu
venduta a don Tomaso Atienza, detto lo Spagnolo, che peraltro era
procuratore e agente di don Vincenzo Osorio di Madrid.
La costruzione del palazzo viene attribuita a Ferdinando Sanfelice,
anche se sembra più certo che solo il frontale e il cortile interno
siano opera del suo genio.
L’architetto Sanfelice, era nato a Napoli nel 1675 da una famiglia
definita “patrizia” che abitava nel Rione. Pur non avendo goduto della
stessa fama del più giovane Vanvitelli, egli è comunque considerato uno
degli architetti più creativi del ‘700.
La sua opera era basata tutta sulla scenografia e su monumentali scaloni
aperti, che danno l’impressione di una scena teatrale.
Ne abbiamo un bell’esempio in questo palazzo: nel cortile interno una
scala monumentale a doppie rampe, con cinque aperture ad arco meglio
dette fornici. Si resta stupefatti dalla soluzione architettonica e
anche dal buon stato di conservazione, dalle scalinate e dai soffitti
affrescati e lunette decorate in stucco.
Ferdinando Sanfelice però, sulla via Arena alla Sanità, poco più avanti
dello Spagnolo, già nel 1725, decise di costruire un palazzo per se e la
famiglia, con lo stesso stile architettonico.
Tutti i palazzi hanno alle spalle, in un secondo cortile, un ampio
giardino, l’ho visto salendo per le rampe del palazzo Sanfelice, chiuso
al pubblico.
Ora ci dirigiamo velocemente nella piazza della Sanità, proprio sotto al
ponte che porta a Capodimonte, davanti alla grande chiesa barocca di S.
Maria della Sanità, edificata nei primi anni del XVII sec., conosciuta
più popolarmente come chiesa di “ S. Vincenzo”, “’o Munacone”, santo
protettore dello stesso rione, al quale la stessa chiesa è dedicata.
A seguito di un violento nubifragio, nel 1569 vennero alla luce i resti
della chiesa di S. Maria della Sanità, sepolta molti secoli prima in
analoghe circostanze, chiesa paleocristiana e scavando più sotto antiche
catacombe intitolate a S. Gaudioso.
In questa occasione fu ritrovata quella che viene ancora oggi ritenuta
la più antica immagine della Madonna, nel napoletano, che è oggi esposta
nella antica chiesa cimiteriale.
Si ritenne perciò di dover costruire sopra una nuova chiesa, l’incarico
fu affidato al ”laico domenicano” – così lo definisce Gennaro Aspreno
Galante - Giuseppe Donzelli, soprannominato Frà Nuvolo. Questi non
distrusse l’antica chiesa cimiteriale, ma “con idea sorprendente e nuova
vi collocò di sopra il maggior altare e d’innanzi il maestoso tempio di
forma ellittica a cinque navi”.
Egli fece una cupola con mattonelle maiolicate e un bel campanile.
All’interno troviamo molti dipinti di Luca Giordano.
Ma quello che
colpisce subito il visitatore è l’altare maggiore, sopraelevato rispetto
ai fedeli, posto proprio sopra l’accesso alla antica chiesa e alle
catacombe.
Per entrare qui, dobbiamo cambiare guida, sembra che faccia parte di una
Associazione culturale “gradita al Vaticano”!
Mentre apprezziamo l’antica pavimentazione e il dipinto di S. Maria
della Sanità, ci viene proibito di usare il flash, il che, considerato
che siamo senza luce e sotto terra, equivale al divieto di fare
fotografie.
Le catacombe di S. Gaudioso costituiscono il secondo cimitero
paleocristiano di Napoli, per ampiezza e valore. Settimio Celio Gaudioso
era vescovo nella provincia romana d’Africa. Fu scacciato nel 439 da
Genserico, capo dei Vandali che avevano conquistato la regione. Egli si
stabilì a Napoli dove morì intorno al 452 e fu deposto in una tomba del
cimitero della Sanità che da lui appunto, prese il nome. Nella stessa
catacomba fu sepolto poco dopo anche Nostriano, vescovo della città.
Lungo le pareti delle catacombe si trovano cubicoli, qualcuno
affrescato, altri con mosaici. Sulle pareti appaiono solo teschi e una
suddivisione tra uomini da un lato e donne dall’altro.
Le catacombe furono utilizzate anche nei periodi successivi dai frati
domenicani; ci vengono mostrati gli “scolatoi“, piccoli loculi con
sedili bucati al centro, dove venivano sistemati i cadaveri e messi
appunto a scolare.
La macabra operazione tendeva alla decomposizione della carne e alla
eliminazione di liquidi e di gas dai cadaveri prima di seppellirne le
ossa; una operazione analoga l’abbiamo trovata nel castello Aragonese di
Ischia, nel monastero delle monache (vedi “ Il castello aragonese “).
A questa attività erano addetti alcuni operatori, che “aiutavano” i
cadaveri a scolare, mediante punzecchiature e buchi praticati nella
carne, e la raccolta poi dei liquidi: immaginiamo solo l’operazione e il
puzzo che doveva esserci. Adesso si spiegano anche le imprecazioni
napoletane: “puozz’ sculà” o “ schiattamuorte“.
L’escursione si conclude al cimitero delle Fontanelle, che come già
spiegato danno il nome alla salita che vi ci conduce che non è altro,
secondo gli studiosi, che il vecchio impluvio, e alla zona che secoli fa
era piena di sorgenti d’acqua.
La strada per arrivarci è in salita, si restringe passando attraverso
abitazioni private, panni stesi per strada, i cosiddetti bassi,
abitazioni a livello stradale, e persone che guardano incuriosite questo
corteo che incede ad andatura sostenuta, sembra si sia fatto un pò
tardi.
Il cimitero delle Fontanelle è una grande cava tufacea, altissima e
larga, e riaperta da poco al pubblico. All’ingresso un specie di
baracchino provvisorio, munito però di antenna satellitare, fa da
ufficio e un gruppo di 4/5 custodi chiacchierano per conto loro e
disturbano anche le spiegazioni della nostra guida..
L’impatto, anche se ci si aspetta di vedere cose già viste per tv, è
violento, macabro, …..
Migliaia di teschi ordinati e sistemati uno sull’altro in ordine quasi
perfetto, alcuni oggetti probabilmente regali o ex. voto, donati per
grazia ricevuti a testimonianza di credenze e superstizioni popolari.
L’origine di questo cimitero si fa risalire al periodo a cavallo tra XVI
o XVII sec. In quegli anni si erano verificati eventi terribili per la
città, catastrofi: rivolte popolari, carestie, terremoti, eruzioni del
Vesuvio, e epidemie.
Basta pensare che su un popolazione di 400.000 anime, morirono in quegli
anni più della metà. Poichè, come diceva Totò, conoscitore di questo
rione, la morte è una livella, e tutti sono uguali, e non c’era posto
per tutti nei cimiteri, né per nobili e ricchi nelle chiese, tutti i
cadaveri furono depositati, senza alcuna differenza, nelle cave extra
moenia, compresa quella delle Fontanelle.
Non mancarono però le inondazioni della lava dei vergini, che allagarono
la cava, tutti gli scheletri furono scaraventati fuori, e fu difficile
ricomporli.
Alla metà del XVIII sec, 1765, il cimitero fu destinato alla sepoltura
delle salme” della bassa popolazione”.
Negli anni ’70 del XX sec. fu chiuso per essere sistemato ma soprattutto
perché era diventato un esagerato luogo di culto e di leggende e
miracoli.
La gente pregava per le anime abbandonate, considerandole un ponte un
mezzo di comunicazione tra vivi e morti, tra la terra e l’aldilà.
Un teschio qualsiasi veniva adottato, gli si dava un nome, una storia e
un ruolo, e con lui si parlava e ci si raccomandava per una grazia e un
miracolo, offrendo doni e accendendo lumini.
E’ su questa “adozione” che si innesta una delle più conosciute leggende
come quella del capitano.
In un tempo imprecisato, una giovane donna era diventata molto devota a
un teschio che si diceva fosse di un ufficiale, andava a visitarlo, lo
pregava di accontentarla e di farle grazie.
Il fidanzato della giovane aveva cominciato ad avere dubbi sull’onestà
della giovane e si era ingelosito, così un bel giorno l’aveva seguita,
armato di un bastone. Entrato nel cimitero e preso dalla rabbia aveva
colpito il teschio infilandogli il bastone in un occhio e per deriderlo
lo aveva invitato al prossimo loro matrimonio.
Qualche tempo dopo, ormai l’episodio era stato dimenticato, nel giorno
delle nozze, apparve un invitato in divisa militare e nessuno lo
conosceva. Lo sposo allora gli aveva chiesto chi era e il soldato gli
rispose che era stato invitato proprio da lui. Così si spogliò e si
mostrò per quel che era, uno scheletro. C’è un’altra versione della
storia, più violenta, in cui gli sposi muoiono ammazzati dal capitano.
Questo teschio è particolare, è chiuso all’interno di una teca, ed è
sempre lucido al contrario degli altri coperti di polvere. Sembra sia
solo una questione di umidità, ma i fedeli pensano al sudore delle anime
del Purgatorio.
Qualcuno si allontana prima dalle Fontanelle, sembra che si respiri o si
senta una particolare e strana energia, proveniente dalle “anime”.
Anche qui, i “solerti” custodi ci hanno vietato di fotografare, ed è
perciò impossibile una decente documentazione fotografica.
Giovanni
Attinà
Per saperne di più:
Cesare de Seta. Napoli, Ed. Laterza
Bartolomeo Capasso: Napoli greco-romana, Ed. Berisio
Gennaro Aspreno Galante: Le chiese di Napoli, Ed. Solemar
Aurelio de Rose: I palazzi di Napoli, Ed. Newton & Compton
Massimo Rosi: Napoli entro e fuori le mura, Ed. Newton & Compton
Antonio de Curtis, Totò: A livella, poesie napoletane, Ed.
Fiorentino