Progetto di costituzione per la Repubblica Napoletana

 

 

Premessa

 

L'importanza del Progetto di costituzione per la repubblica napoletana (1799) per la storia della cultura italiana ed europea è inversamente proporzionale alla sua fortuna editoriale. Stampato originariamente in un numero di copie assai limitato, delle quali sono sopravvissute soltanto quattro, venne riedito saltuariamente nel corso dell'Ottocento e del Novecento, per conoscere un'edizione commentata soltanto nel 1994, grazie alla cura di Mario Battaglini. Tuttavia la centralità di questo documento nell'elaborazione della cultura democratica settecentesca, in quanto apice e sintesi dell'intera stagione illuministica che aveva conosciuto il magistero di Antonio Genovesi e di Gaetano Filangieri, è stata costantemente riaffermata dalla storiografia dell'ultimo quindicennio, che ha aggiunto importanti contributi di analisi e di ricerca rispetto ai risultati offerti dall'edizione Battaglini.

Muovendo da queste considerazioni e grazie al concorso della Compagnia di San Paolo e del Ministero dell'Università e della Ricerca, nell'ambito di un progetto di ricerca su L'Illuminismo e i diritti dell'uomo nella crisi dell'Antico Regime, i curatori del presente volume hanno ritenuto di presentare nuovamente al pubblico il Progetto napoletano. Il testo, alterato nelle riedizioni ottocentesche, è stato restituito nella lezione originale e accompagnato da un'analisi della sua genesi e dei suoi contenuti, che tiene conto dei risultati conseguiti negli ultimi anni e che si misura con gli orientamenti più recenti della storiografia italiana e francese sull'esperienza del costituzionalismo democratico settecentesco. L'analisi del testo costituzionale è stata perciò costruita anzitutto attraverso una più sistematica ricognizione delle fonti del pensiero di Francesco Mario Pagano, soprattutto per quanto riguarda i suoi debiti nei confronti dell'opera di Gaetano Filangieri. Sul versante interpretativo, il lavoro di edizione è stato condotto accogliendo i suggerimenti giunti dai molti studi che nell'ultimo decennio hanno messo in luce il rapporto stretto tra il costituzionalismo del triennio democratico italiano e la tradizione illuministica e da coloro che, come Michel Troper, hanno riletto in prospettiva storico-giuridica e costituzionale la carta francese dell'anno III, considerandola non più come un tradimento dei principi dell'89 e del '93, ma piuttosto come una realizzazione più completa ed articolata di quegli stessi princìpi.

A conclusione di questa fase della ricerca, i curatori desiderano ringraziare coloro che in vario modo hanno contribuito alla sua realizzazione con consigli e suggerimenti, in particolare Elvira Chiosi, Vincenzo Ferrone, Michel Troper e Anna Maria Rao, la quale ha anche generosamente acconsentito alla ripubblicazione, in apertura di questo volume, della prima parte della sua ricerca sull'organizzazione amministrativa e giudiziaria della Repubblica napoletana nel '99, ancora fondamentale per la ricchezza di documentazione e per la precisione dell'informazione.

Quest'edizione è frutto di una costante collaborazione fra i suoi curatori; tuttavia, ai fini della riconoscibilità del rispettivo apporto, si intende che le pp. 70-83 e 84-119 sono dovute a Federica Morelli, le pp. 40-56 e 57-70 ad Antonio Trampus.

 

Federica Morelli e Antonio Trampus

 

 

 

 

 

L'ordinamento e l'attività giudiziaria della Repubblica napoletana del 1799

 

di Anna Maria Rao

 

 

 

L'attività legislativa e l'ordinamento giudiziario della Repubblica napoletana

1. L'organizzazione della Repubblica. Il 23 gennaio 1799, le truppe francesi, superate le ultime resistenze dei «lazzari», che per più giorni le avevano bloccate alle porte della città, entravano a Napoli, dove i patrioti, conquistato Castel Sant'Elmo tra il 19 e il 20, avevano già proclamato la Repubblica Napoletana una e indivisibile, sotto la protezione della «grande nazione francese».

La Repubblica si trovava fin dal suo sorgere in condizioni molto precarie, soprattutto dal punto di vista militare (in molte zone dell'ex regno continuavano i combattimenti contro i Francesi), che rendevano ancora più difficile il gravoso compito di costruire il nuovo stato, in cui superare le deficienze, i disordini, gli abusi dell'antico sistema e attuare i nuovi ideali di libertà e di uguaglianza, in nome dei quali la repubblica era stata fondata. I patrioti, del resto, erano pienamente consapevoli delle difficoltà che avrebbero dovuto affrontare per «regolare una barca da tanti lati sdruscita» (così il Governo Provvisorio definiva lo stato dell'ex regno nel suo Proclama ai Cittadini), e che non potevano essere superate da un giorno all'altro.

La prima organizzazione della repubblica venne realizzata guardando al modello francese e sotto la guida del generale in capo Championnet, che con la legge del 4 piovoso (23 gennaio), nominava il Governo Provvisorio, composto di venticinque membri, investiti «dell'autorità legislativa, ed esecutiva fino all'organizzazione completa del governo costituzionale». Le persone elette al governo erano: Raimondo di Gennaro, Nicola Fasulo, Ignazio Ciaja, Carlo Lauberg, Melchiorre Delfico, Moliterno, Domenico Bisceglia, Mario Pagano, Giuseppe Abbamonti, Domenico Cirillo, Forges Davanzati, Vincenzo Porta, Raffaele Doria, Gabriele Manthoné, Giovanni Riario, Cesare Paribelli, Giuseppe Albanese, Pasquale Baffi, Francesco Pepe e Prosdocimo Rotondo. A questi, con decreto del 24 piovoso (12 febbraio), venivano aggiunti Antonio Nolli, Giuseppe Logoteta (in sostituzione di Domenico Cirillo, che aveva rinunciato), Pasquale Falcigno, Giuseppe Cestari, Diego Pignatelli del Vaglio e Vincenzo Bruno.

L'assemblea dei rappresentanti così composta (i cui decreti non avevano forza di legge se non dopo la sanzione del generale in capo francese), era divisa in sei comitati, «per l'esecuzione delle leggi e di tutti i dettagli dell'amministrazione pubblica»: il Comitato centrale d'esecuzione, composto da cinque rappresentanti, incaricato di «tutte le misure relative all'esecuzione delle leggi, tutte quelle che concernono la polizia generale e la pubblica amministrazione»; il Comitato di legislazione, di quattro membri, incaricato della preparazione della Costituzione e delle leggi «riguardanti l'abolizione di tutt'i dritti, e di tutti gli usi contrari a' principj della libertà, e del Governo democratico»; il Comitato di polizia generale, diviso in sei burò, preposto «alla sicurezza ed alla tranquillità pubblica», col diritto di «accusare, e di fare processare in tutt'i Tribunali, che saranno istallati, tutti coloro, che sono indicati di complotto contro la Repubblica, e contro il Governo» e col compito di vigilare su tutti i tribunali e di indirizzare «al Corpo legislativo tutti i rapporti riguardanti l'organizzazione, ed il pronto stabilimento di una giustizia civile, e criminale conforme ai principj della Democrazia»; il Comitato Militare, diviso in un Segretariato e tre Sezioni, responsabile dell'organizzazione delle truppe nazionali di terra e di mare e dei loro movimenti; il Comitato di Finanze, composto anch'esso di un Segretariato e tre Sezioni, incaricato della «vigilanza ed ispezione di tutte le proprietà nazionali mobili, ed immobili, sulle contribuzioni dirette, ed indirette», sui banchi pubblici e sulle zecche; infine, il Comitato di Amministrazione interna, diviso in una Segreteria e tre 'burò', preposto alla «organizzazione di tutte l'Autorità amministrative» ed alla loro direzione. Accanto ai Comitati vi erano inoltre, con compiti puramente amministrativi, quattro ministeri, di Guerra, di Finanze, dell'Interno e di Giustizia e Polizia, attribuiti, rispettivamente, ad Arcambal, Bassal, F. Conforti ed E. Mastelloni fino al 18 aprile, e poi a G. Manthoné, Macedonio, V. De Filippis e G. Pigliacelli. Infine, lo stesso Championnet nominava, con editto del 6 piovoso (25 gennaio), i membri della Municipalità di Napoli.

I problemi di fronte ai quali si trovava il Governo Provvisorio così costituito erano molto gravi. Tra i problemi più urgenti era il disordine dei banchi, che erano stati completamente svuotati negli ultimi anni dalla corte, che dopo aver attinto a piene mani al denaro depositato dai privati aveva continuato ad emettere fedi di credito per le quali non esisteva più alcun deposito. Il Governo Provvisorio si affrettava perciò, con decreto del 10 piovoso (29 gennaio), a dichiarare il debito pubblico «sotto la garanzia nazionale», impegnandosi a garantirne l'intero pagamento. D'altra parte, il governo era costretto ad imporre un prestito forzoso di due milioni e mezzo di ducati nel Comune di Napoli e Casali, per le spese e il mantenimento dell'esercito francese.

La spoliazione dei banchi non era stato però che l'ultimo episodio del disordine dominante nell'amministrazione finanziaria del Regno di Napoli, nel corso del XVIII secolo, nonostante i tentativi di riforma, in questo come in altri campi, di Carlo di Borbone che, con l'introduzione del catasto onciario, aveva mirato a porre riparo alla sperequazione tributaria e ad un sistema di ripartizione e di esazione fondato su un regime di privilegio. A sua volta, il problema finanziario non era che un aspetto del disordine che regnava in tutti i rami della pubblica amministrazione, in particolar modo nel campo giudiziario, dove ancora più gravi erano le conseguenze della potenza politico-giurisdizionale ed economica del baronaggio.

Il problema di fondo era quello della feudalità, contro i cui privilegi fiscali ed economici si erano intensificati nella seconda metà del secolo gli attacchi della letteratura riformistica napoletana, che appunto nella feudalità, con i suoi diritti giurisdizionali, i suoi diritti proibitivi, i mille legami ed impedimenti posti sulla terra, primogeniture, fedecommessi, sostituzioni, aveva individuato l'ostacolo principale allo sviluppo dell'agricoltura. Contro le vecchie strutture si era andato via via affermando un nuovo concetto di proprietà, l'esigenza di un dominio sulla terra libero dalle pastoie feudali e al tempo stesso più rigido ed assoluto, che avrebbe favorito gli stessi baroni, promuovendone la trasformazione in liberi proprietari borghesi.

Ora, una delle prime leggi emanate dal Governo Provvisorio fu appunto la legge abolitiva di tutti i diritti di primogenitura, fedecommessi e sostituzioni, pubblicata il 6 piovoso (25 gennaio) e modificata dalla legge del 22 piovoso (10 febbraio), dove si ribadiva l'abolizione di quegli istituti e si esplicitava maggiormente il carattere che la legge assumeva di applicazione a livello di società civile degli ideali di libertà e di uguaglianza già acquisiti a livello politico. La legge del 6 piovoso non doveva essere però che il primo passo verso l'abolizione totale dei diritti feudali e l'instaurazione del nuovo tipo di proprietà, «sacra e inviolabile come i diritti personali»: ma la legge feudale incontrò grosse difficoltà nella sua elaborazione e, dopo lunghe discussioni, non venne approvata che il 23 aprile, quando era ormai troppo tardi per la sua applicazione.

All'organizzazione delle province si provvedeva infine con la legge del 21 piovoso (9 febbraio), compilata da Bassal, che divideva il territorio dell'ex regno in undici dipartimenti, a loro volta suddivisi in cantoni e in comuni. I dipartimenti previsti dalla legge non tenevano però alcun conto delle divisioni naturali del regno e la legge in effetti non fu mai attuata e venne ufficialmente revocata il 27 marzo dal Mac Donald, che conservò soltanto il dipartimento di Napoli.

 

 

2. L'ordinamento giudiziario.

La riforma del sistema giudiziario, che pure era stato uno dei temi più ricorrenti della letteratura riformatrice napoletana della seconda metà del '700, si presentava ai patrioti napoletani di tutt'altro che facile attuazione. In effetti, il quadro legislativo e giurisdizionale del regno non avrebbe potuto essere più confuso: una pluralità di tribunali dalle attribuzioni di origine abbastanza definite poi via via sempre più confuse e molteplici, una legislazione caotica e frammentaria basata su consuetudini, prammatiche, dispacci, rescritti che si erano andati stratificando da secoli gli uni sugli altri, il divario esistente tra questa legislazione che, mancando la motivazione delle sentenze, offriva margini d'interpretazione estremamente incerti, e la sua applicazione ai casi particolari, la venalità della giustizia che spingeva i tribunali ad una continua lotta di competenze per trattare quante più cause fosse possibile, e che, attraverso il sistema delle inibizioni ed avocazioni aggravava il problema dell'accentramento dell'amministrazione giudiziaria nella capitale, tutto ciò rendeva il corso della giustizia estremamente lento, incerto, arbitrario, e al tempo stesso offriva infinite scappatoie a chi volesse sottrarvisi, attraverso il ricorso ai numerosi privilegi di foro. Infatti, come scriveva Cuoco, d'amministrazione della giustizia non era ordinata in modo da seguire la natura delle cose e delle azioni, ma seguiva ancora [...] la natura delle persone: la giustizia era diversa pel militare, pel prete, per l'uomo che possedeva una greggia, per l'uomo che non ne possedeva, ecc. ecc.». La manifestazione più evidente di questa pluralità di giurisdizioni era la coesistenza, accanto alla giurisdizione regia, della giurisdizione feudale e della giurisdizione ecclesiastica, e se con quest'ultima si era trovata una via di compromesso col concordato del 1741 e la creazione del Tribunale Misto, il godimento dei poteri giurisdizionali aveva continuato a costituire uno dei massimi punti di forza della feudalità, rendendone ancora più pesanti i privilegi economici e traducendosi esso stesso in vantaggi economici immediati, attraverso la vendita degli uffici di giustizia e il ricavato delle composizioni e transazioni.

Un ruolo non indifferente nel mantenimento dei poteri giurisdizionali feudali aveva avuto lo stesso ceto forense, che se da una parte si trovava su un piano di stretta concorrenza nei confronti della giurisdizione baronale, dall'altra era a sua volta legato alle strutture feudali in cui tendeva ad immettersi per goderne i privilegi economici, e preferiva perciò, ad una riforma radicale, il mantenimento dello status quo, in cui accaparrarsi il maggior numero possibile di processi attraverso il sistema delle inibizioni ed avocazioni.

Sempre più violenti si erano fatti nella letteratura riformistica napoletana, dalla «svolta» segnata dal Genovesi in poi, gli attacchi contro i poteri giurisdizionali feudali, «primo anello — scriveva Filangieri — di quella lunga catena di disordini che interamente distruggono la nostra civile libertà», le denunce di un sistema giudiziario basato sull'abuso e sul privilegio, l'avversione per un ceto forense che, se in un primo momento era stato visto come il vero «corpo intermedio» che potesse «bilanciare l'autorità del principe nelle monarchie», dopo il fallimento dei tentativi di riforma legale del Tanucci, appariva sempre più legato ad interessi particolari perché si potesse sperare per questa via in una reale spinta innovatrice.

Per Galanti, infatti, le cause non sono più «che istrumenti di fortuna per una certa classe dello stato», la giurisprudenza è divenuta «simile alla scolastica, e gli avvocati sono tanti sofisti il cui mestiere sembra essere quello di opporre al dritto ciò che le particolari passioni richieggono». G. M. Galanti, Considerazioni sulla nostra legislazione, in Riformatori napoletani, cit., pp. 1040-1043. È una situazione più o meno analoga a quella che già da tempo si era verificata in Francia, dove la prospettiva di uno sviluppo della libertà politica, attraverso i parlamenti si era rivelata priva di qualsiasi reale possibilità di attuazione, essendo divenuto chiaro che i parlamenti, come corpi privilegiati, non potevano «disgiungere la difesa di certe libertà contro l'accentramento assolutistico dalla difesa dei propri privilegi». F. Diaz, Filosofia e politica nel Settecento francese, Einaudi, Torino, 1962, p. 24. Sui Parlements come «baluardo della reazione e del privilegio», cfr. inoltre, B. Moore Jr. Le origini sociali della dittatura e della democrazia, Einaudi, Torino, 1969, pp. 69-71 e E. J. Hobsbawm, The age of revolution 1789-1848, Weidenfeld and Nicolson, London, 1962, pp. 79-80.

Sempre più viva era diventata l'esigenza di una riforma radicale del sistema vigente, di una legislazione coerente e razionale, basata su «principi fissi, determinati e immutabili», di una codificazione che rispecchiasse «il codice della natura» e garantisse la libertà e l'uguaglianza di fronte alle leggi, unificando i molteplici soggetti del diritto esistenti in uno solo, il cittadino, portatore di diritti naturali e imprescrittibili, e semplificando insieme i contenuti del diritto, riducendoli al fondamentale diritto del cittadino alla proprietà, una legislazione, infine, in cui lo «spirito della nazione» apparisse non più come «oggetto», ma come «soggetto».

La fiducia in un'azione illuminata della monarchia per l'attuazione di una simile legislazione si era andata via via affievolendo di fronte al fallimento di tentativi come quello tanucciano e all'impotenza del governo ad affrontare i problemi del paese, rivelatasi in tutta la sua gravità in occasione del terremoto in Calabria del 1783, per poi spegnersi del tutto sotto l'influenza degli avvenimenti francesi e di fronte all'azione repressiva del governo. Caduta definitivamente, dopo gli avvenimenti del 1794, qualsiasi possibilità di collaborazione tra governo e classi colte, sempre più diffusa si era fatta la convinzione che per l'attuazione dei programmi di riforma fosse ormai necessario un nuovo ordinamento politico, in cui i diritti degli uomini fossero saldamente regolati da una costituzione che garantisse la libertà e l'eguaglianza di fronte alla legge, e da una codificazione che garantisse l'esercizio dei diritti individuali, in primo luogo del diritto di proprietà.

I primi provvedimenti del Governo Provvisorio sulle vecchie istituzioni sembravano però smentire le esigenze di rinnovamento radicale così vivacemente sostenute dai riformatori napoletani negli ultimi anni. Infatti, con decreto dell'11 piovoso (30 gennaio), il Governo Provvisorio, «volendo assicurare il servizio di tutte le parti della Pubblica amministrazione fino alla loro riorganizzazione diffinitiva, e prevenire la dissoluzione del corpo sociale, ed i disordini dell'anarchia», stabiliva che fino a nuovo ordine, restassero al loro posto tutti i funzionari pubblici, purché servissero con zelo la Repubblica e si dichiarassero «lealmente ed apertamente per la rivoluzione».

Nell'ambito dell'amministrazione giudiziaria restavano così gli stessi funzionari e le stesse istituzioni esistenti al momento dell'instaurazione della Repubblica. Cambiavano soltanto i nomi dei tribunali: infatti, il Comitato di Polizia Generale, con decreti del 14 piovoso (2 febbraio), firmati dal Presidente Nicola Fasulo e dal segretario Alessandro Petrucci, rimetteva ad Ippolito Porcinari, Luogotenente della Regia Camera Sommaria, a Giacinto Dragonetti, Presidente della Gran Corte della Vicaria ed a Filippo Mazzocchi, Presidente del Sacro Regio Consiglio e della Real Camera di Santa Chiara la disposizione del Governo Provvisorio che, richiamando la decisione dell'11 piovoso, che abilitava «le Magistrature dell'antico regime a poter continuare le loro giudiziarie procedure a norma delle Leggi civili e criminali, e dei riti finora stati nella costante osservazione», li invitava a far riunire, da lunedì 4 febbraio in poi, tutti i magistrati componenti i detti tribunali, coi nomi, rispettivamente, di Camera dei Conti Nazionali, Gran Corte Nazionale, Supremo Consiglio Nazionale e Supremo Tribunale Consultivo Nazionale (o Camera Consultiva Nazionale), perché continuassero «a procedere in tutti gli affari, ch'erano di lor giurisdizione, fino a [...] nuove Istruzioni», ricorrendo alla Municipalità per la forza armata necessaria per l'esecuzione dei decreti, «restando da questo momento abolite le Guardie di tutti i Tribunali Collegiati». Il decreto stabiliva inoltre che i ministri, gli avvocati ed i procuratori non indossassero più gli abiti «alla Spagnuola», ma che ciascuno vestisse a modo suo, «senza cingere spada, né altro simile ornato». Dopo un generico invito a tutti i magistrati «ad accoppiare incessantemente alla giustizia, ed alla esatta, ed imparziale esecuzione delle Leggi, tutta quella umanità, equità, fratellanza, e tutte le altre doti, che son proprie di un buon Repubblicano», il decreto ordinava di scrivere i decreti in lingua italiana, di sostituire le formule e i simboli repubblicani a quelli dell'antico regime e infine di inalberare la bandiera tricolore nazionale, blù, gialla e rossa ai lati del Castello Capuano. Modifiche formali, queste, che lasciavano sostanzialmente immutato il vecchio ordinamento giudiziario e rendevano quindi estremamente improbabile che potessero realizzarsi effettivamente quelle esigenze di riforme radicali che erano emerse nel corso del secolo e che ora, con la diretta partecipazione al potere della classe colta napoletana, avrebbero potuto finalmente concretizzarsi in una precisa azione di governo. Cominciava, invece, a delinearsi una frattura tra dichiarazioni di principio e loro realizzazione pratica: se infatti una delle prime affermazioni di principio del Governo Provvisorio era stata la dichiarazione dell'uguaglianza di fronte alla legge, che raccoglieva uno dei principi fondamentali scaturiti dalla Rivoluzione francese, rimanendo in vigore i vecchi tribunali, e restando al loro posto i vecchi giudici, era ben difficile che questa affermazione si potesse tradurre nella realtà.

I tribunali riprendevano la loro attività il 16 piovoso (4 febbraio), come disposto dai decreti del 14 piovoso, dopo essere rimasti chiusi dall'11 gennaio e tre giorni dopo il Comitato di Polizia Generale, richiamando la disposizione del Governo Provvisorio che tutti i Magistrati continuassero ad esercitare le loro funzioni fino a nuovo ordine, invitava i cittadini a non mancare al rispetto ad essi dovuto. Questi provvedimenti, però, erano soltanto provvisori: gli accenni ad una riorganizzazione definitiva di tutte le parti della Repubblica e l'invito rivolto alle magistrature a continuare l'esercizio delle loro funzioni secondo le leggi vigenti fino a nuovo ordine, facevano prevedere che si procedesse ad un riordinamento del sistema giudiziario.

Per quanto riguarda le province, già il 24 piovoso (12 febbraio) Melchiorre Delfico aveva preparato un «piano provvisorio per i tribunali dei dipartimenti e i giudici dei cantoni». Questo piano prevedeva un giudice per ogni capoluogo di cantone e un tribunale di cinque giudici e tre supplementari per ogni capoluogo di dipartimento. I giudici locali, assistiti da un attitante, avrebbero trattato le cause civili in prima istanza e i giudici del dipartimento quelle criminali e le cause civili in seconda istanza. Contro l'abuso dei privilegi di foro era prevista l'abolizione di tutte le giurisdizioni straordinarie e delle delegazioni, «cioè quelle del Foro Doganale, Doganelle, Arrendamenti ecc.». Soprattutto, Delfico insisteva sulla gratuità dell'amministrazione della giustizia, ben conoscendo gli abusi che derivavano dal mancato pagamento di un soldo fisso a giudici ed attitanti, e che egli aveva già più volte denunciato.

Una prima riforma, ancora provvisoria, dell'amministrazione giudiziaria nel ramo criminale si ebbe col decreto del 30 piovoso (19 febbraio), con il quale il Governo Provvisorio, per risolvere i problemi più urgenti, derivanti dal gran numero delle persone arrestate, «non essendo giusto, che i dententi marciscano nelle prigioni, secondo l'abuso dell'antico dispotico Governo», istituiva due commissioni: la prima era la Commissione di Polizia, composta di un commissario del governo e cinque giudici, ciascuno dei quali avrebbe fatto da presidente a turni di un mese, e aveva il compito di giudicare dei delitti che non meritassero una pena maggiore di sei mesi di carcere e all'esilio, nel qual caso il processo sarebbe stato rimesso all'altra Commissione, cioè alla Commissione Militare. Questa era composta da un commissario del governo, sette giudici ed un segretario e giudicava i delitti «d'insurrezione, o di lesa Sovranità del Popolo». In caso di pena maggiore ai sei mesi di carcere o all'esilio, doveva rimettere il processo alla Gran Corte Nazionale. Il decreto stabiliva inoltre che i giudizi dovessero essere terminati entro cinque giorni, aboliva la tortura e ordinava che le sentenze venissero pubblicate ed affisse in ogni cantone della città. Quest'ultima decisione si ispirava ad un principio che era alla base anche del decreto del 29 piovoso (17 febbraio) con cui si annunciava la formazione di un bollettino dove sarebbero state registrate via via «tutte le leggi, e gli atti del Generale in capo, riguardanti la Repubblica Napoletana, come ancora le leggi, e gli atti del Governo Provvisorio» e che sarebbe stato inviato a tutte le autorità costituite della Repubblica: la considerazione, cioè, che «i Magistrati debbon tuttavia sottoporre agli occhi e al giudizio del popolo tutti gli atti che si pubblicano in suo nome»; essendo necessario che «i cittadini e gli Amministratori sian sempre in grado di avere un'esatta cognizione di tutte le leggi, onde possano attingerne la norma della loro condotta». Principio, questo, che poteva assumere un significato di rottura nei confronti di un sistema legislativo e giudiziario, come quello dell'ex regno, in cui ordini, istruzioni, prammatiche, dispacci erano per lo più noti al solo magistrato a cui erano diretti, rendendo estremamente difficile tenersi aggiornati su tale legislazione regia. Si trattava, certo, di riforme ancora parziali e provvisorie, ma che comunque cercavano di rimediare ad alcuni dei difetti più evidenti del sistema, di eliminare alcuni degli strumenti di oppressione più gravi, come la tortura, di accelerare il corso della giustizia e di eliminare certi privilegi.

Su questa linea si pongono anche i provvedimenti successivi, come la legge del 2 ventoso (20 febbraio), con cui venivano abolite tutte le sopraintendenze ed economie, poiché esse servivano «a rovinare piuttosto che a conservare le fortune dei privati e a frodare e creditori» e, soprattutto, degradavano la magistratura, «rendendo i pubblici funzionari agenti dei privati e fomentando disuguaglianze nel regime delle famiglie».

Continuavano intanto i lavori per la legge sui tribunali e il 4 fiorile (24 aprile) Vincenzo Russo leggeva alla Commissione legislativa un progetto di legge di Polizia di Mario Pagano, assente perché infermo, ma apertasi la discussione, questa, scriveva il Monitore, era diventata «clamorosa» ed era stata quindi sospesa. Altri provvedimenti che preannunciavano una riforma generale erano la legge del 12 fiorile (1 maggio), approvata su mozione di Mario Pagano, con cui «considerando, che bisogna a poco a poco svellere gli antichi abusi, e preparare il nuovo sistema della criminale legislazione», venivano abolite la tortura e le pene straordinarie e l'abolizione, decretata il 7 maggio, della Camera della Sommaria, considerata ormai inutile.

 

 

 

P.S.: Nel testo corrente sono state omesse, per questioni di spazio, le note dell'autore.

 

 

 

Progetto di costituzione per la repubblica napoletana                                                     © Edizioni della Laguna