Un alpino  al servizio della…pittura

 

Pio Solero (Sappada 1881 – 1975)

 

Walter Abrami

 

 

 

A metà degli anni Sessanta, le gite sciistiche organizzate da qualche sacerdote intraprendente e dinamico a Sappada, avevano  per molti giovani degli oratori e dei centri studenteschi,  maggior incanto di tante opportunità odierne.

Ci si trovava di buona ora con zaini e borse piene di panini preparati premurosamente dalle mamme la sera prima, abbigliamento xxl, sci lunghi  due metri e duri scarponi ammorbiditi con grasso di balena.

Quell’attrezzatura potrebbe oggi incuriosire i visitatori dello Skimuseet di Holmenkollen accanto allo sci di Øvrebø o all’equipaggiamento delle spedizioni polari di Nansen e di Amundsen…

Si partiva allegri in corriera occupando anche gli scomodi strapuntini, si comunicava, si cantava e si cercava soprattutto la compagnia di  una bella ragazza  con la speranza di baciarla nella fievole luce azzurrina del pulmann durante il rientro.

Altroché sms, mms, mp3 e corriere lager con cerberi alla guida!

In una di queste memorabili gite, durante la sosta in una baita che profumava di frico e salame all’aceto, conobbi casualmente un vecchietto abbronzato sul cui volto segnato dalle rugosità tipiche dei montanari (e dei marinai), spiccava orgogliosamente un pizzetto bianco.

Il cappello che portava aveva una penna curiosa che mi colpì per la lucentezza: il montanaro dinamico dal verbo essenziale, intrattenne me ed alcuni amici con qualche aneddoto e qualche saggia raccomandazione sul comportamento da tenere in montagna, verso la quale – diceva - bisogna aver sempre rispetto!

Che fosse del posto lo si capì non solo dalla cadenza della parlata, ma pure dalla manifesta conoscenza dei luoghi e dai sorsi imperiosi di grappa che tracannò.

Si allontanò dalla baita con la sua bicicletta sul manto bianco di neve senza sculettare!

Il suono del  campanello della Bianchi (?), un drin drin drin ripetuto, augurava un sano, buon divertimento a tutti i gitanti triestini!

Solero aveva un legame affettivo con Trieste dove espose varie volte ed ebbe estimatori ed amici.

Solo in seguito e per caso, guardando alcune foto a casa di una cugina del pittore Argio Orell, mi ricordai dell’incontro con Pio Solero.

Ma non basta: destino volle che alcuni anni dopo la sua scomparsa, passeggiando nel mercatino di San Telmo a Buenos Aires trovai una cartolina sgualcita inviatagli da Bariloche da un amico argentino.

Sulla cartolina il testo era più o meno questo: “ Un viaje es, por arte de magía, una nueva vida, con un nascimento, un crecimento, y una muerte, que nos es ofrecida, en el interior de la otra”.

Parole che  mi fecero riflettere  proprio perché Solero, sappadino irrequieto soprattutto in gioventù, fu viaggiatore intrepido in anni molto difficili laddove molti artisti faticavano a seguire un corso di studi regolare spostandosi dal luogo di nascita.

Mi chiesi pure se durante il suo soggiorno argentino (arrivò comunque dopo le esperienze accademiche), avesse avuto occasione di ammirare le opere dei numerosi artisti italiani e stranieri che facevano circolare i loro dipinti in quella nazione.

Nell’Exposicion Internacional de Arte del Centenario-Buenos Aires (1910) furono presenti gli italiani Balestrieri, Balla, Bezzi, Bianco, Brass, Fontana, Fragiacomo, Mancini, Milesi, Nono, Previati, Selvatico, Scattola, Someda e Tito sono per citare alcuni.

Solero conobbe le bellezze del distretto dei laghi in Patagonia e quello che è oggi il parco nazionale di Nahuel Huapi? Ammirò l’imponenza delle Ande?  Fu sorpreso dall’infinito orizzonte della pampa?

Chissà in qual maniera  quel viaggiò incise sulle sue decisioni future!

Claudio Magris nel suo libro più recente, con l’arguzia e l’intelligenza che lo caratterizza ci aiuta a riflettere…

Quali dunque le ragioni che  spinsero Solero a ritornare nel paese natio con la consapevolezza che Sappada era semplicemente un piccolo centro di poche abitazioni con un’unica strada e una chiesa sproporzionata rispetto le modeste baite di allora?

Insicurezza? Nostalgia? Desiderio intimo di quiete e silenzi?

Procediamo con un po’ d’ordine e seguiamo le vicende biografiche dell’artista che ci consentiranno di conoscerlo un pochino di più.

Solero fu primogenito di Giulio, impresario edile e di Marianna Benedetti.

Nonostante la rigidità del padre, la famiglia  colta e benestante fu una garanzia per la sua formazione e gli diede una certa sicurezza per il suo futuro: bel vantaggio per chi intraprende la via dell’Arte!

Contro la volontà del genitore, Pio abbandonò gli studi all’istituto tecnico e s’iscrisse all’Accademia di Belle Arti di Venezia seguendo l’esempio di Guglielmo Talamini e Valentino Brustolon che giunsero in laguna dal Cadore.

Nei quattro anni (1898-1902) trascorsi tra calli, campielli e canali, venne certo a contatto  con la pittura di Guglielmo Ciardi, di Giacomo Favretto di Alessandro Milesi, ma poté apprezzare anche artisti stranieri presenti alle Biennali in quegli anni tra i quali Knopff, Ensor, Klinger, Ropps, Rodin, Moreau e Böcklin. Guardò pure ai divisionisti e si rese conto dei cambiamenti del gusto generale.

Strano è che non fu mai attratto, nemmeno in altri periodi della sua vita, da ambienti  diversi dal suo luogo di nascita e dalle amate montagne divenute continuo tormento e gioia pittorica.

Che la visione narrativa e panteistica di quel microcosmo divenisse ripetitiva, limitata e quasi ossessiva fu scontato a lui stesso…

Da Venezia Solero si spostò a Roma dove rimase un anno.

Il clima culturale della città gli consentì nuove frequentazioni e amicizie: anche l’Esposizione Internazionale del Bianco e Nero costituì un avvenimento per il mondo artistico!

Nella capitale le nuove tendenze trovavano allora  due esponenti in Giacomo Balla che si avvicinò al divisionismo in chiave sociale di Morbelli e Pelizza e s’interessò al mondo degli operai e degli “esclusi” e al grafico Cambellotti che collaborò con giornali e riviste: Novissima era fresca di stampa.

Solero colse marginalmente i messaggi dei gruppi che accentuavano interesse per idee e problemi sociali di derivazione inglese (Morris, Ruskin e Preraffaelliti), ma osservò con maggior attenzione le evoluzioni di quel  filone continuo del paesaggio, già avviato dal Costa con il gruppo In Arte Libertas.

Si tenne pure informato sulla grafica europea che destò in lui certo interesse.

A Roma, dove già si era recato il cadorino Tiziano De Luca, incontrò Carlo Bonomi; l’anno seguente furono assieme a Monaco (1903-1904).

In Baviera egli ebbe per maestro il Knirr.

Nella città tedesca erano giunti e continuavano a confluire diversi artisti giuliani; Solero incontrò Argio Orell che oltre a divenire suo compagno di studi divenne suo amico come il bergamasco Pietro Serravalli.

Un ritratto eseguito dal raffinato Orell a Solero finì nella Galleria Nazionale di Roma.

Alcuni artisti conosciuti in quegli anni, rimarranno vicini a lui nel tempo e faranno parte del cosiddetto gruppo di Sappada.

Oltre confine il pittore fece un altro incontro importante: conobbe Maria Teresa Treichl Rosenwalt che divenne sua moglie.

La Germania viveva allora l’influsso dell’Art Noveau.

A Monaco nel 1896 si percepì più che altrove quel rinnovamento culturale con la fondazione dello Jungendstil, con il  diffondersi di Laboratori d’arte applicata e con la pubblicazione della rivista Jungend dall’inusitata ed originale veste grafica. In città, inoltre, c’era il fermento delle nuove idee espressioniste che maturarono nel Der Blaue Reiter.

Come visse Solero quei nuovi fremiti innovativi?

Fu piuttosto attratto dal naturalismo realistico del Segantini un pittore che lo entusiasmava e  presentò al direttore di Jungend due piccole vedute tradizionali che furono pubblicate benevolmente.

E’ stato notato dalla critica che la posteriore attività cartellonistica di Solero in sud America trovò spunti nel lavoro d’Otto Eckmann che lavorava appunto in quegli anni per la rivista.

Dopo  Monaco Solero si recò a  Vienna, Parigi e Il Cairo.

Giunge spontaneo chiedersi con quali introiti personali…

Per certo  si recò in Egitto in compagnia dell’amico-collega Eugenio Bellotto e dipinse all’ombra delle piramidi. Furono due turisti speciali solo per caso?  Indomito, animato da spirito d’avventura, come  tanti connazionali attraversò l’Oceano in cerca di fortuna:  arrivò a Buenos Aires nel flusso inimmaginabile d’emigranti europei e conobbe la dura vita della  Boca.

Come tanti connazionali occupo'  presumibilmente, una scatolina di lamiera allagata dalle acque del Riachuelo nella piena del Paranà da qualcuno definita orgogliosamente casa, umidissima d’inverno e calda d’estate. Niente a che vedere con le candide e silenziose baite alpine!

Per sopravvivere si adattò a dipingere insegne di negozi  e mise a frutto le esperienze acquisite.

L’esperienza argentina si concluse presto.

Allo scoppio della Grande Guerra (come mai proprio in quel momento?) Solero ritornò in Italia con la moglie ed un figlioletto.

Visse la drammatica esperienza del conflitto sulle montagne di casa da alpino  e fu decorato con la croce d’argento per un’impresa coraggiosa.

Finì prigioniero e fu destinato ad un lager ungherese dal quale uscì duramente provato nel morale e nel fisico. Finita la guerra soggiornò per un breve periodo a Pieve di Cadore per ritornare definitivamente a Sappada nel 1918. Nel primo dopoguerra si dedicò ancora alla figura memore degli insegnamenti monacensi. Ritrasse le fisionomie dei vecchi sappadini come fossero modelli mitteleuropei di ben altra rilevanza, ma forse meno carismatici dei bonari montanari.

Si cimentò pure in grandi composizioni di figure  e  nel 1918 dipinse una pala d’altare per la chiesetta di Misurina in sostituzione di una precedente di Tommaso Da Rin scomparsa durante la guerra.

Negli anni seguenti eseguì la pala per la chiesetta del cimitero militare di Pocol a Cortina, la pala di Sant’Antonio in San Leonardo nuovo di Casamazzagno e l’affresco con San Daniele nella chiesetta di Costa di Comelico.

Nella solitudine del suo paese complice la piena maturità d’uomo quarantenne, rispolverò la capacità creativa mai trascurata e  trovò nell’isolamento l’ispirazione a lungo desiderata e l’espressione pittorica più naturale e congeniale senza mai rinnovarsi, testardo nelle sue convinzioni di pittore.

Colse  la fredda luce dell’alba, la malinconia dei crepuscoli e il passar delle stagioni con genuino affetto.

Visse il senso dell’infinità e del vuoto delle montagne, il loro peso preponderante sulle vallate, da uomo che è in una situazione di singolare ambivalenza allo stesso tempo al sicuro e perduto.

Le scarse testimonianze che ci giungono e la quantità limitata d’opere realizzate in gioventù delle quali peraltro si sono perse abbondantemente  le tracce, non consentono nuovi approfondimenti.

La timida attenzione  della critica nei suoi confronti iniziò nel 1924 anno in cui egli partecipo' alla XV Mostra Veneziana della Bevilacqua La Masa.

Fino allora le sue opere note evidenziano un’ascendenza mitteleuropea.

In quell’occasione, nella sede di Ca’ Pesaro, egli presentò otto quadri di paesaggio accanto ad opere di Pio Semeghini, Gino Rossi, Iuti Ravanna e  altri pittori ancor oggi meritevoli di attenzione quali Mori, Da Venezia e Seibezzi.

I soggetti di quel periodo Le sorgenti del Piave, Misurina, Monte Ferro e Autunno  fanno già trapelare nuove dolcezze tonali e lo studio più approfondito della luce.

In anni seguenti l’artista partecipo' all’interessante mostra veneziana nelle sale napoleoniche di Palazzo Reale e all’Esposizione d’Arte delle Venezie con Rododendri, Camoscio ucciso, La dimora degli umili e  La mia Patria di cui molto è stato scritto.

Solero predilesse la tecnica a spatola che gli consentì di accentuare forme volumetriche e dilatare la matericità dei soggetti.

Nei suoi paesaggi manca la figura umana poiché egli magnificò gli atti umani solo attraverso l’osservazione delle loro semplici opere costruttive: una baita, un casolare o una fontana.

Le montagne destano sempre un gran rispetto e nelle sue tavole tendono spesso alla monumentalità.

Ciò è evidente nelle Cime di Lavaredo, ne Il Cristallo dal lago di Landro e nell’ Antelao tutti eseguiti nel 1925. I primi piani di questi dipinti eseguiti con i pennelli, sono costituiti rispettivamente da grossi macigni che bloccano un reticolato di filo spinato di triste e recente memoria, dalla riva del lago colta in una lunga diagonale e dagli abeti che assai spesso ammirò e riprese nella luce delle stagioni.

I due elementi sui quali Solero costruì le sue prime opere con un progresso costante e fermo furono la scelta del mezzo tecnico tradizionale e gli elementi monumentali: entrambi non furono ne potevano essere una conquista immediata. Furono il frutto di ricerche compiute con un’ intima e profonda spiritualità. Il pittore ebbe bisogno di meditare in solitudine e di raggiungere spesso altezze montane in una comunione costante con la natura.

Le numerose città visitate, pur così diverse e ricche d’attrattive, destarono a Solero minor emozione del paese natio.

Si pensi a tal riguardo alla Sappada da lui magistralmente dipinta nel 1928 su una piccola tavola rettangolare di pochi centimetri e al più tardo Neve a Cima Sappada. In entrambi i dipinti egli usò le spatole e abbandonò quasi del tutto i pennelli: sarà una scelta pressoché definitiva che se da un lato è generalmente criticata da molti maestri, dall’altro aumenta certe difficoltà esecutive, produce casualità, ma pure effetti virtuosistici.

In Solero questi ultimi superano certamente la maniera, ma costituiscono pure un limite espressivo.

Con le spatole dipinse Alle sorgenti del Piave, Casera Razzo, Monte Ferro, La Croda del Lago e tanti altri dipinti sfruttando sempre la base lignea delle tavolette per mettere in risalto la neve o i gialli autunnali o le nubi sugli azzurri intensi del cielo. Talora lavorò su formati circolari.

Nel suo paese il pittore impegnò sempre molto del suo tempo a favore d’iniziative pubbliche e fu sportivo appassionato divenendo primo presidente del Gruppo sciatori di Sappada.

Proprio nel decennio 1920-1930, allo stesso modo di Segantini, Pellis e soprattutto di Piccoletto del quale fu assai amico, intraprese la sua lunga attività di pittore di montagna camminando in quota in tutte le stagioni, peregrinando tra le rocce, sui sentieri più sperduti  in cerca di un’angolatura insolita, decisiva e soddisfacente per la sua espressione pittorica finale.

Dotato di qualità coloristiche istintive, aveva affinato il gusto sia osservando le tavolozze d’altri bravi artisti a Venezia, Roma, Monaco e Parigi sia dipingendo ore ed ore plein air.

Raggiunse maestria nel rendere la luce delle Dolomiti, la varietà dei verdi del sottobosco e i riflessi azzurri o rosa delle rocce.

Fu consapevole dei cambiamenti ma deciso e istintivo nella scelta;  il pittore rumeno Boris Georgiev che tracciò una bella sanguigna del Nostro, lo spronò ad allestire la prima mostra personale alla soglia del cinquantesimo anno di età.

Solero ebbe una sede prestigiosa a Roma e tra i visitatori  al Palazzo Augusteo vi fu il re Vittorio Emanuele III.

Un Paesaggio Invernale del pittore finì a Palazzo Madama.

Le mostre si susseguirono ed egli fu più volte a Trieste dove era in contatto con diversi artisti tra i quali il vigoroso  russo Alessio Jssupoff cui dobbiamo uno splendido ritratto.

Solero prediligeva quest’opera e spesso la introduceva nelle sue personali.

Espose a Tripoli, Bologna e Milano.

Di lui ricordiamo anche numerose  nature morte con selvaggina e gli svariatissimi fiori  di montagna che amava dipingere spesso in un bronzino: genziane, zinnie, rododendri, anemoni, ranuncoli, orchidee, margherite e pure i cardi.

Nel 1943, quasi un decennio dopo la scomparsa del figlio aviatore in un incidente di volo, il Cadore gli rese il giusto tributo ospitando una mostra antologica nel Palazzo della Magnifica Comunità di Pieve.

I drammi dell’artista continuarono: la moglie morì nel 1944 ed egli fu internato nel carcere giudiziario di Baldenich.

Alla fine della guerra, provato e più solo, trovò spesso nel lavoro la forza di continuare. I suoi quadri divennero più cupi, più drammatici ed egli li portò in molte altre città italiane tra le quali Gorizia, Cagliari e Belluno, convinto della fedeltà alla tradizione nonostante il mutare del gusto.

Proprio a Belluno, città che aveva amorevolmente dipinto dalle prigioni di Baldenich in anni durissimi, espose ottantenne.

La sua pittura era divenuta ormai il cammino faticoso di un alpino testardo che non cambia sentiero pur di raggiungere la vetta non accorgendosi che ci sono altre vie più brevi e meno faticose.

Come tanti anziani ingenui prese il suo “pacco” napoletano illudendosi oltremisura dei propri meriti; non fu Vanna Marchi a recapitarglielo quanto un prestigioso Sindacato Internazionale d’Arte Pura del quale cercò la sede sotto il Vesuvio per ritirare un diploma…a pagamento…naturalmente!

L’ambizione vuole sempre vittime…in montagna come in città!

Nel caso di Solero spiazza anche la critica poiché egli era solito dire: L’Arte è il mio ultimo mestiere, prima sono cacciatore, poi pescatore, cuoco e pittore…a tempo perso!.

Che ci credesse davvero?

 

 

 

Walter Abrami