Piero della Francesca
e la prospettiva
Alessandra Doratti
Quando Piero della Francesca si spegneva in Borgo Sansepolcro, il 12
ottobre del 1492, Cristoforo Colombo approdava alle coste del Nuovo
mondo. La storia preparava ingiustizia e travisamenti al grande
navigatore. Piero della Francesca nella lunga cecità che ne afflisse la
vecchiaia, aveva dettato il mirabile studio De quinque corporibus
regolarimenti della rappresentazione artistica, De prospettiva
pingendi è il titolo del trattato che Piero offre al duca d'Urbino
Federico II. Nella prima delle tre parti che lo compongono vengono messe
in prospettiva figure piane, nella seconda è la volta dei solidi, nella
terza in special modo delle teste umane. Il processo è lo stesso
definito dall'Alberti "costruzione legittima". Piero, più che vere e
proprie novità, aggiunge enfatico rigore. Per lui lo spazio e le cose
sono misurabili con lo stesso metro: l'artista non rappresenta, in
pratica, solo la superficie visibile degli oggetti secondo la dottrina
albertiana, ma si vale delle superfici per scandire uno spazio a tre
dimensioni, suscettibile d'esser ridotto o duplicato senza che se ne
alterino le leggi essenziali. L'ordine figurativo riposa su una
valutazione ottica delle strutture spaziali. Egli si dichiara
perfettamente consapevole del dissenso tra la costruzione prospettica e
l'effettiva impressione visiva, e da questa consapevolezza passa senza
esitazioni a proclamare la superiorità delta rappresentazione artistica.
A Firenze come in un grande museo o in un laboratorio
Quando è apprendista a Firenze, naturalmente, Piero ha sotto gli occhi
la "Trinità" di Masaccio in Santa Maria Novella, la prepotente,
drammatica e spettacolosa applicazione pittorica delle proposte del
Brunelleschi, di quei rapporti architettonici e spaziali che intanto va
asserendo l'Alberti. Ma il maestro con il quale Piero lavora è non a
caso Domenico Veneziano, aperto allo possibilità e alle promesse della
prospettiva, comunque più appassionato ancora alla bellezza del colore
come estrema libertà e aristocrazia della pittura. Masaccio, l'Alberti,
Domenico Veneziano: certo l'educazione artistica di Piero non si conduce
solo su questi nomi, Firenze è tutta un museo e un laboratorio, da
Giotto al Beato Angelico, la citazione di Masaccio, dell'Alberti, di
Domenico Veneziano fornisce appena una traccia, con il tanto di
arbitrario che è in ogni semplificazione, di un procedere verso
l'assoluta originalità; quel momento in cui cadono i prestiti, i
ricalchi, le suggestioni.
Piero è la testimonianza di come il pittore borghiano abbia imparato: i
suoi dipinti sono immobili di luce, e i gesti paiono senza moto, fermati
per sempre nella tregua irreparabile dell'esecuzione. Ciò che conta è la
consapevolezza, la fede di Piero nelle regole per ricreare l'armonia.
Sono le regole che costituiscono il mendo nelle sue opere, vi compaia un
paesaggio familiare o un fondo d'oro o un'architettura albertiana, le
regole di una coralità di uno spettacolo superiore agli affanni e alle
affermazioni dei personaggi.
Il suo allievo, il matematico Luca Pacioli, si appropriava del
manoscritto che stampava a suo nome nel trattato De divina
proportione. Dall'icosaedro così accuratamente studiato dal grande
scopritore di forme, nacquero i poliedri complessi del Pacioli. Un
labirintico rapporto fra superfici sferiche e superfici poligonali, con
centri per raggi che diventano le altezze di piramidi, esterne e
interne: all'infinito.
Rappresentazioni grafiche utili alla cartografia appena posteriore
all'utopia vincente di Colombo. Sono le proiezioni coniche sul piano
della sfera suddivisa in meridiani e paralleli, sulle quali, ancora
oggi, si studiano il volto del pianeta e gli spazi galattici del cielo.
È l'adozione definitiva della prospettiva la grande avventura
intellettuale prima che tecnica, che Piero comincia a vivere a Firenze
nella sua giovinezza. Consideriamo ciò che disse il Gregory in Eye &
brain, the psychology of seeing e cioè: La prospettiva rappresenta
per l'arte un'acquisizione assai recente. I popoli primitivi e le
civiltà successive fino al rinascimento italiano ignorano i principi
prospettici... È veramente sorprendente il fatto che la prospettiva
geometrica, basata sui principi elementari, sia stata attuata tanto
tardi dagli uomini, tanto più tardi del fuoco o della ruota, soprattutto
quando si pensi che il senso della prospettiva, essendo parte della
capacità di vedere, è sempre esistito...».
Giudicare con il senno di poi è semplice, l'approdo alla prospettiva è
meno improvviso e drastico, più mediato e meditato, né risulta ancora
chiaro se sia lecito parlare di scoperta o di riscoperta rinascimentale.
È lecito piuttosto parlare di teorizzazione rinascimentale: per tutta
l'antichità classica e il Medioevo non pare valida alcuna distinzione
tra ottica e prospettiva, i trattati enunciano il fenomeno della visione
sotto forma di leggi, l'antichità classica con maggior attenzione alle
forme geometriche, il Medioevo ai meccanismi fisici, i problemi della
rappresentazione artistica restano comunque estranei a qualsiasi
ricerca.
Solo con il Rinascimento appunto si distingue tra ottica e prospettiva;
i trattati, quello di Piero dopo quello dell'Alberti, si ricollegano
alle leggi della visione come a un presupposto necessario; il loro
insegnamento comunque mira a divulgare le regole e i procedimenti.
Alessandra Doratti