Perchè Parigià  

 

Walter Abrami

 

 

 

                     

“Perché la vita è un dono dei pochi ai molti: di coloro che sanno e che hanno, a coloro che non sanno e che non hanno”

 

 

A. Modigliani

 

 

                   Quando il piranese Cesare Dell’Acqua dopo aver compiuto gli studi artistici all’Accademia di Venezia soggiornò brevemente a Parigi prima di stabilirsi definitivamente a Bruxelles, nella dotta e affascinante città francese la proprietà immobiliare era già associata all’idea della mobilità; un ventennio prima, in occasione dell’epidemia di colera, i sansimoniani avevano imposto su “Le Globe” la questione degli ‘sventramenti’ come mezzo per eliminare focolai di epidemie, con conseguenze facilmente intuibili. La  tesi venne ripresa con forza dopo la rivoluzione del 1848 sicché l’intervento del governo consentì di trasformare la capitale in una metropoli che pur vivendo continuamente uno sbalorditivo divenire architettonico fu, più di ogni altra, testimone di manifestazioni artistiche “assolute” che assunsero spesso carattere internazionale in svariati campi espressivi.

Parigi era in forte espansione demografica e contava circa un 1.160.000 abitanti; risulta anche che mediamente, nelle sue numerose gallerie d’arte e nei salone vennissero esposti 2.300 quadri in un anno! Ciononostante le commissioni ufficiali, i ritratti di apparato e le mostre alle ‘adunanze elette’, venivano accordati a quei pittori che ‘producevano’ opere dotte e dipingevano scene mitologiche, storiche, sacre...

La reazione di alcuni artisti “nuovi” che manifestarono al Salon de Rèfusès del 1863 portò alla fondazione della “Societè de Artistes Indèpendents” dove i giovani Redon, Seurat, Signac ecc. potevano esporre liberamente le proprie opere.

Gli artisti più significativi di questi ultimi centocinquant’anni hanno reso Parigi città simbolo dell’Arte immortalando i suoi scorci entusiasmanti, la sua variabilissima luce, le architetture, le cromie stagionali ed infine gli uomini, in celeberrime tele: il fascino della Senna, dell’Ile de la Citè con la cattedrale di Notre-Dame, della “Butte” Montmartre, degli angoli di Montparnasse o dei caffè di Saint Germain de Pres non fu estraneo a molti onesti e bravi pittori e scultori veneti, giuliani, friulani ed isontini, certo meno conosciuti, ma non sempre ‘provinciali’; sono purtroppo pochi, in verità, i soggetti parigini che essi ci hanno lasciato quale testimonianza concreta di viaggi-studio, infatuazioni momentanee, seduzione o magica ispirazione e di ciò non possiamo che rammaricarci.

Principalmente nella seconda metà dell’Ottocento, Parigi divenne per molti un punto di riferimento, una meta insostituibile o il sogno di una vita intera e il mondo bohemien di Montmartre cominciò ad attirare scrittori e artisti che la resero memorabile: la sua storia parla di  Renoir e di Corot, ma anche degli italiani Giovanni Boldini, Medardo Rosso (fu a Parigi nel 1884) e fondò il Salone d’Automme con lo stesso Corot, Degas e Manet di Giuseppe De Nittis, che nel 1873 ottenne   grande successo con “La strada da Brindisi a Barletta” e partecipò alla prima mostra degli impressionisti presso il fotografo Nadar nel 1874, di Pio Semeghini, di Carlo Carrà, di Giorgio De Chirico che fu amico di Valery e di Apollinaire dopo il 1910 e fu  presente alla prima mostra surrealista del 1925, di Arturo Martini, di Amedeo Modigliani, di Filippo De Pisis , di Eleonor Fini, di Renato Guttuso per citare solo alcuni tra i più noti.

Dopo il 1870 assunsero pure notorietà molti locali tipici fra i quali il Moulin de la Galette balera sita sulla collina di Montmartre aperta nel luogo effettivo di un mulino a vento, le Folies-Bergère dapprima circo, pista da ballo e caffè-concerto poi teatro di varietà e il Moulin Rouge.

Il primo, dipinto da Renoir, disegnato ripetutamente da Toulouse-Lautrec, ma anche da Van Gogh e Utrillo, fu frequentato da Federico Zandomeneghi che nel  1878 entrò in relazione con gli impressionisti e si accostò lentamente alla loro pittura pur rimanendo a lungo legato al verismo e alla sua particolare concezione cromatica tra il timbrico e il tonale. A Parigi egli era stato di poco preceduto da Luigi Nono che fu  invece attratto dai maestri paesaggisti della scuola di Barbizon e si trovò nella città contemporaneamente a Giacomo Favretto e Guglielmo Ciardi; i due al rientro in Italia pur non riportando particolari suggestioni da questo viaggio del quale si sa ben poco, videro e presumibilmente conobbero le opere degli impressionisti:

Favretto inviò all’Esposizione Universale due quadri dipinti con consueta maestria “In Sartoria” e “La ricetta”; un anno prima, all’Hotel Drouot, era stata organizzata la seconda vendita di dipinti impressionisti (il prezzo medio era fissato in 169 franchi per tela!) e Claude Monet viveva in serie difficoltà economiche.

Per molti artisti dell’area giuliano-isontina tuttavia, fu Monaco con la sua Accademia la prima città europea dove poter recarsi per avere contatti significativi e avvicinarsi alle ‘nuove’ tendenze figurative,la meta scelta per sprovincializzarsi: vi si recarono infatti Grunhut, Veruda, Wostry, Grimani Guttner, Rietti, Cambon, Croatto e de Finetti, ma molti di essi si diressero successivamente a Parigi in cerca di stimoli diversi, per visitare le stupefacenti raccolte o, possibilmente, confrontarsi con altri artisti . Se l’Accademia di Monaco dava la possibilità di uno studio piuttosto libero poiché l’allievo si sceglieva un professore  pur essenndo ammesso alla sua scuola con un concorso, a Parigi ‘tenevano lezione’ i boulevard, la Senna, le mostre di ogni tipo che continuamente venivano allestite...

Vi giunse forse primo dei triestini, l’allievo di Augusto Tominz Giovanni Rota che allora relazionava al Curatore museale Alfredo Tominz sulle esposizioni più significative; la loro corrispondenza, conservata presso gli archivi del Civico Museo Revoltella va dal giugno 1885 al luglio 1889.

Fu così che le collezioni del nostro museo si arricchirono di opere straniere: nel 1886 furono acquistate due grandi tele: “Gli affamati” di Henry Jules Geoffroy dipinto che introdusse al Revoltella la pittura di carattere sociale e un’opera storica “Madame Roland” di Evariste Carpentier.

 Fu seguito da Antonio Pascutti, Tito Agujari e da Antonio Lonza che ottenne certa notorietà con il quadro “I giocolieri” esposto nel 1882; sembra inverosimile pensare che in tale data Monet, quarantaduenne, avesse dipinto ormai da dieci anni “Impressione, sole nascente”, avesse colto in materica pittura le nebbie invernali della città, le poderose e sbuffanti locomotive a vapore della Stazione di Saint-Lazare che tanto piacquero a Brumatti e che dopo essere stato a lungo inseguito dai creditori, avesse finalmente qualche estimatore, qualche cliente più generoso e rinnovata, immensa fiducia nel proprio modo di esprimersi e ‘vivere’ la pittura.

 Umberto Veruda giunse per la prima volta a Parigi nel 1887 e vi rimase sei mesi dove studiò disegno all’Accademia Julien: con Italico Brass condivise l’ insegnante A. W. Bouguerau; questi era membro dell’Institut de France e svolse con Cabanel un ruolo fondamentale nella direzione del Salone ufficiale rifiutando sistematicamente proprio la pittura di Manet e degli altri impressionisti.

Nel “Corriere di Gorizia” del 1894 è riportata notizia dell’ opera di Brass “Una partita a carte” (ovvero “La briscola”) premiata al salon dei Campi Elisi e del suo matrimonio con una parigina (la donna in realtà era russa).

Il pittore presentò all’Esposizione artistica di Gorizia dello stesso anno sei oli definiti ‘studi dal vero’ dipinti nei dintorni della città.

Anche Carlo Wostry trascorse diversi anni nella capitale (dal 1890 al 1902) alternando numerosi viaggi e fu, oltre che pittore, disegnatore di moda e grafico pubblicitario. Le occasioni di lavoro non dovettero mancargli se pensiamo che nel cuore di Montmartre, in Place du Tertre, passeggiavano quotidianamente ballerine, cantanti, attrici, cavallerizzi, trapezisti, mimi, fotografi, mercanti d’arte, impresari. La rivista ‘Le Figarò Illustrè’ pubblicò spesso sue opere e alcuni critici riconobbero le sue buone qualità. “L’Indipendente” del  7/6/1898 diede particolare risalto ad una sua mostra personale nella quale espose “La Maddalena ” e “Il Boulevard de Italiens”; a Parigi eseguì “Il Martirio di San Giusto” per la cattedrale di Trieste e la “Scena boschereccia” conservata presso il Museo Revoltella.

Dal 1889 fu a Parigi Arturo Rietti che più di altri colleghi seppe interpretare nei suoi pastelli  raffiguranti eleganti donne, le atmosfere francesi, la moda, la magia degli impasti delicati: fu presumibilmente suggestionato da Boldini e venne attratto dalle evanescenze stilistiche di Eugene Carrière.

Era l’anno dell’Esposizione Universale che in un certo qual modo volle solennizzare l’anniversario della Rivoluzione francese e in uno dei numerosissimi, enormi padiglioni nei quali c’erano attrazioni di tutti i tipi poco distante dalla Tour Eiffel alla quale mancava solo il faro e la cupola finale, Rietti espose un “Ritratto di vecchia signora” che fu premiato con una medaglia d’argento. Egli ritornò a Parigi anche nel 1908 e 1912 e fu sicuramente il pittore triestino più vicino agli artisti francesi delle nuove generazioni.

Pietro Fragiacomo si recò nella città dei cafè-chantants tra il 1889 e il 1892, Guido Grimani  venne scelto dal nostro Municipio e inviato colà per motivi di studio in occasione dell’Esposizione Universale del 1900 e Lionello Balestrieri del quale è assai noto il Beethoven (sono tante le copie di questo quadro che circolano sul mercato perchè molti colleghi apprezzarono il famoso soggetto che ebbe la medaglia d’oro all’Esposizione Universale del 1900 e fu esposto alla Biennale di Venezia l’anno dopo) proprietà del Civico Museo Revoltella dal 1911; egli visse a Parigi vent’anni a partire dal 1897.

Anche Vittorio Bolaffio entrò in contatto con i maggiori esponenti dell’avanguardia tra cui Modigliani e Matisse dei quali, si dice, fu in cordiale amicizia e Giovanni Zangrando il sarcastico gentiluomo spesso interprete delle bellezze femminili locali che per lui posavano volentieri senza abiti, non solo nella sua scuola di pittura, come avvenenti modelle di Pigalle!

All’inizio del secolo Parigi, ormai divenuta la capitale mondiale della cultura e dell’arte, fu frequentata da  artisti dalle personalità diversissime uniti nella consapevolezza di vivere una fase di passaggio, di grande mutamento.

Allora in rue Laffitte avevano le loro gallerie Durand-Ruel e Ambroise Vollard: in esse esposero Gauguin e Cèzanne ma non furono gli unici ovviamente, poiché l’animatissima via era un  continuo andirivieni di pittori quali Matisse, Rouault, Vlaminck, Derain che si mescolavano ai più anziani Dègas o Monet; si recavano incuriositi  delle nuove tendenze, ma anche per incontrare un amico o contattare un mercante.

Fu soprattutto dopo il 1910 che Montparnasse  conobbe una gran voga con i suoi caffè, i suoi angolini  suggestivi meno affollati di quelli di Montmartre, ma altrettanto ‘unici’; nel 1912 il futuro Carrefour fu semplicemente un incrocio di strade che faceva da perno alla vita di un quartiere popolare dai vaghi confini: i Giardini di Lussemburgo, il cimitero, la zona che prende il nome dalla Rue Falguière, l’Osservatorio.

Fu una specie di propaggine periferica del Quartiere Latino, dove la bohème ebbe una ‘tana’ quasi costante dai tempi di Villon a quelli di Verlaine. Quartiere di povera gente, dove la vita costava poco. La “Rotonde” e il “Dome” ebbero presumibilmente altri clienti  e avventori curiosi e motivati delle nostre terre: vi passarono Bianco Pietro Bortoluzzi in arte Pieretto Bianco e Veruda assieme, poco prima che nella metropoli arrivasse Pablo Picasso (egli dopo tre viaggi consecutivi qui si stabilì nel 1904), ma anche alcuni artisti  locali delle generazioni successive come Piero Marussig, Adolfo Levier che esaltò la sua tavolozza osservando non solo gli impressionisti, ma soprattutto la pittura dei fauves, forse Cesare Sofianopulo che studiò con J.P. Laurens e tradusse I Fiori del Male di Boudelaire e Gino De Finetti al quale piacquero i soggetti ippici di Gericault.

Giulio Toffoli rimase a Parigi dal 1913 al 1940; nel ‘20 espose opere di pittura ed incisione al Salone d’Automne e in seguito collaborò come pubblicitario al giornale “Le Petit Parisienne”.

 Lo sventurato Enrico Fonda fu senz’altro uno dei pittori più attivi e sono memorabili alcuni suoi dipinti raffiguranti il Sacro Cuore e la Senna a Meudon; nel 1934 nella città ebbe una breve esperienza esistenziale l’autodidatta Renato Daneo.

Tra le pittrici sono degne di menzione Otty Stock, Maria Lupieri e Amalia Glanzmann.

Veno Pilon iniziò la sua attività espositiva con la Mostra degli Artisti Jugoslavi a Parigi nel 1919 e soggiornò anche nel 1926, Leonor Fini si stabilì nel 1933 elaborando un linguaggio surrealista ricco di simbologie; con Zoran Music che là risiede dal 1955 e con l’anarchico apolide Luigi Spazzapan che arrivò nel 1925, (espose progetti di decorazione murale e disegni per stoffe per ritornare nel ‘39 con una personale di  disegni e guazzi) essi sono, fuor di ogni dubbio, gli artisti ‘regionali’ di caratura internazionale che in Francia poterono incrementare il loro già ricco bagaglio di esperienze, farsi conoscere ancor più e crearsi un ‘mercato’ davvero formidabile.

Altri ne seguirono successivamente l’esempio con esiti diversi: tra i più conosciuti gli scultori Marcello Mascherini che venne in contatto con Zadkine, Vian e Berrault, Adriano Alberti che fu allievo di Rodin, i friulani Afro Basaldella, Mirko Basaldella, Giuseppe Negrisin e Ugo Carà.

Negli anni Cinquanta fecero esperienze diverse Tullio Crali, Giorgio Celiberti Marino Sormani che dipinse alcuni quadri (vedi foto) recentemente comparsi un una mostra antologica retrospettiva a palazzo Costanzi e assai apprezzati dal pubblico e Federico Righi la cui base culturale ha matrici picassiane; tra gli artisti delle ultime generazioni mi sembra opportuno segnalare gli studi e i soggiorni di Marino Cassetti anche se ci sono ancora altri pittori e scultori contemporanei  che hanno lavorato, dipinto, studiato o esposto a Parigi e che non mi è consentito ricordare solo per motivi di spazio.

 

 

 

Walter Abrami