Sacro entusiasmo e disciplina, quiete e poesia nelle opere paesaggistiche di due apprezzati interpreti regionali:
Joannes Napoleon Pellis (1888-1962) e Gianni Brumatti (1901-1990)
Walter Abrami
Pur nel rigore di una solitudine che sfiorò spesso la misantropia, ma attenti e bene informati sui fatti d’Arte internazionale, sulle rassegne nazionali più importanti, sulle ‘scuole’, sulle correnti che si andavano via via sviluppando nel primo quarantennio del secolo e oltre, sulle avanguardie, sulle mode (che pure avvertirono ma alle quali mai vollero inchinarsi!) e su tutto ciò che in genere concerneva il duro e improbo mestiere di pittore (lo intesero come scelta definitiva per istinto!), vissero dipingendo J.N. Pellis pittore di Ciconicco di Fagagna e G. Hermet, meglio noto con il cognome materno Brumatti, triestino dalle lontane origini armene. Autocritici, intransigenti (non di rado ‘logorati’ da insoddisfazione distrussero con rabbia e determinazione un certo numero di quadri!) caratterialmente ‘ruvidi’ e poco disposti alla commercializzazione delle loro opere esclusivamente per il guadagno, ai fatti materiali, schietti ma ‘difficili’, di poche parole, furono entrambi convinti che l’Arte è spiritualità e privilegio di alcuni, ma anche suggestione, illusione e mestizia. In pittura, sostennero perplessi soprattutto dell’altrui sfrontatezza e arroganza, non può esserci democrazia! Il loro intendimento spirituale, il comune gusto per il colore interiorizzato dal sentimento, veicolo d’armonie tonali e timbriche delicatissime e certa semplicità esplicativa, quel voler sempre raccontare con i pennelli rispettivamente le bellezze della Carnia o del Carso e le fatiche della rude gente di montagna o degli umili contadini per arrivare senza ridondanze al nocciolo della questione, induce a tracciare se non termini di paragone per certi versi improponibili, almeno un’analisi dei loro percorsi stilistici, a ricercare qualche similarità psicologica, a scrivere della loro comune genuina inclinazione al colorismo emotivo... Sebbene le loro opere siano tecnicamente diverse (generalmente più materiche e ricche di colori quelle di Pellis, più scabre e monocordi quelle di Brumatti), nonostante i due pittori predilessero formati e quindi spazi ideali dissimili (i quadri del Pellis sono spesso di misure considerevoli) pure è riscontrabile la loro comune inclinazione di vivere totalmente ed egoisticamente per se più che per il pubblico, l’opera di volta in volta realizzata. Essi meditarono ogni azione della mano, ogni pennellata, ogni struscio o graffio, e diedero l’anima ai loro soggetti. Laddove il friulano fu impetuoso e irruente, il triestino fu flemmatico, almeno apparentemente imperturbabile; ma se il Pellis agiva con immediatezza, viceversa Brumatti sceglieva i soggetti dopo averli visti tante volte nella variabile luce del mattino, meditava giorni, mesi e ritoccava i quadri con una velatura o con una punta di verde smeraldo, uno dei suoi colori preferiti che usava con religiosa parsimonia, anche dopo anni. Entrambi considerarono la pittura come “un male dalle radici profonde”, una questione di sangue o di nobile destino. I loro quadri di paesaggio vanno interpretati ora come una preghiera ora come un canto alla natura ora alla stregua di un’evasione. Ma nelle loro ‘fughe’ contemplative verso i silenzi dei monti o quelli delle doline carsiche da che cosa vollero evadere. Una necessità interiore che se fu discontinua ma non saltuaria per il pittore di Ciconicco, fu quotidiana per il triestino e divenne non solo abituale percorso ieratico, ma anche costante riflessione sulla variabilità dei valori della scala dei tòni nelle stagioni, studio scientifico del colore e sfida contro il tempo; esso, diceva il giuliano, insegna la sintesi, obiettivo estremo di un artista. E se Sauris divenne per Pellis un cordone ombelicale fin dal 1921-1922, per Brumatti la stessa cosa si può dire di Samatorza, Sgonico e Slivia dove si recò a dipingere fin da ragazzo. Vagabondare nei silenzi alpini sotto la neve sferzante o nel vento tra le doline, in mezzo agli stavoli o alle case carsiche, significava per i due artisti scoprire la meravigliosa e cangevole magia del paesaggio, raccontarlo e interpretarlo con delicatezza d’animo. Per quanti volessero documentarsi ulteriormente sul Pellis è doveroso suggerire la lettura del catalogo (i testi appartengono a Licio Damiani, Elisabetta Brunello Zanitti e Patrizia Cabrini) dell’importante mostra retrospettiva del 1988 a Fagagna che ha pure commemorato il centenario della nascita del pittore. Per coloro che come me hanno un’ottima considerazione della pittura del Brumatti, consiglio di aver pazienza e di attendere un’ampia rassegna antologica (speriamo con un meritato catalogo!) che gli renda i dovuti meriti; non credo infatti che egli abbia ‘trasmesso’ la propria miopia a coloro che, responsabili socialmente della Cultura locale, non si sono ancora ricordati di lui dopo la morte. La sua ‘colpa’ fu d’essere puro come i grandi, mite e silenzioso.
Cenni biografici - Joannes Napoleon Pellis
Joannes Napoleon, ultimo di tredici figli, nacque il 19 febbraio 1888 a Ciconicco, frazione del Comune di Fagagna, da Maria Zoratti e da Valentino Pellis che conduceva un’azienda agricola; la famiglia viveva agiatamente, ma la morte della madre prima e del padre poi, segnarono la progressiva rovina della proficua attività. Pellis sedicenne entrò nello studio di Leonardo Rigo; favorito dal consiglio esatto che il pittore diede al padre, fu mandato a Venezia per continuare gli studi sulla pittura che aveva intrapreso. Nel capoluogo frequentò l’architetto Rinaldi e seguì all’Accademia i corsi di Guglielmo Ciardi che gli consentì di conoscere altri aspetti della pittura italiana (la pittura dei Macchiaioli, la scuola napoletana e i vedutisti romani). Furono gli anni 1907/1911; durante il soggiorno veneto, assai rilevante per varie ragioni, (partecipò alla Mostra della Bevilacqua La Masa nel 1909, nel 1912 nel 1913 e anche in seguito nel 1926!) conobbe e frequentò Gino Rossi (1884-1947), Umberto Moggioli (1886-1919), Arturo Martini (1889-1947) con i quali soggiornò sulle isole (specie a Burano), e anche Tullio Garbari (1892-1931), Ugo Valeri (1873-1911); dovette interrompere questa straordinaria esperienza a causa del servizio militare ed egli si trovò presto a Torino. Assolto l’obbligo della leva progettò un viaggio a Parigi con Arturo Martini che già conosceva la capitale francese per esserci stato nel 1912 con G. Rossi; esso non poté essere compiuto poiché venne a mancare il supporto economico di un’eredità sulla quale i due artisti fecero progetti; nel 1914 Pellis partecipò alla Biennale Internazionale di Venezia. Nello stesso anno vinse la borsa di studio Marangoni e si recò a Roma: ebbe lo studio in Via Margutta e per maestro il Sartorio. Con il “gruppo veneto” espose alla Mostra Internazionale della Secessione nel 1914 e nel 1915. Dopo qualche mese di permanenza nella capitale, come tantissimi altri giovani, anch’egli fu arruolato a causa dei tragici eventi. Prestò servizio nel genio a Tolmezzo, nella Val Studena, e nel 1918 fu trasferito presso Legnago; l’anno seguente tornò provato in Friuli dove trovò la casa distrutta e il cimitero del paese con qualche anima in più... Gli parve improponibile restare e andò a Torino in cerca di lavoro: in Piemonte dove fece l’imbianchino per sopravvivere, ebbe un forte esaurimento nervoso e si rifugiò nuovamente nella sua terra. Si legò sentimentalmente con Luigia Zennaro che sposò nel 1932; da lei ebbe una figlia: l’adorata Graziella, la sua ‘Pitussi’. Andò a dipingere a Sauris (1921-1922): rimangono, di questo memorabile periodo, alcune splendide fotografie scattate tra le baite che lo ritraggono con la sua grande tavolozza, i pennelli sparsi ed un’enorme tela quadrata. Nel 1922 partecipò alla Biennale di Venezia con lo straordinario Viatico, (olio su tela di cm 180 x 336 firmato e datato Sauris-MCMXXI-MCMXXII Joanny Nap. Pellis) oggi proprietà della Galleria d’Arte Moderna d’Udine opera di grande suggestione e bellezza. Nel 1924 fu nuovamente a Roma; fruì della borsa di studio Marangoni, conobbe De Chirico che pure gli cedette una stanza sulla Rupe Tarpea nello scantinato del Palazzo Caffarelli, Oppo e numerosi altri artisti. Rivide Moggioli. Ma i luoghi che predilesse e che nonostante tutto segnarono tappe decisive della sua attività rimangono Collina, Forni di Sopra, Sauris e Valbruna. Dal 1925 al 1929 visse a San Giorgio di Nogaro presso un fratello, ma ancora con i nervi a pezzi, sopportò male la pianura e in cerca d’equilibri e stabilità psicologica raggiunse ancora i suoi monti. Nel 1931, con scarsi aiuti, costruì la sua casa ai piedi del castello presso la Civica Biblioteca d’Udine, verso Riva Bartolini; alternò ripetutamente per un trentennio (!), i periodi udinesi con i soggiorni trascorsi in montagna anche lontano dall’amata famiglia. Nel corso della sua vita disegnò molto e dipinse svariati soggetti: ritratti, autoritratti (stupendo quello del 1920 proprietà della Galleria d’Arte Moderna d’Udine e interessante un altro del 1945), figure, nudi, interni e nature morte. Si dedicò all’arte sacra e si cimentò pure nell’affresco (sono del 1957 i lavori eseguiti nel Tempio Ossario di Timau); fu interessato alla scultura: ad essa si dedicò ancor ragazzo modellando l’argilla. Tra i suoi amici più cari vanno ricordati perlomeno Valentino Ciani, Pio Solero, Giuseppe Barazzutti, Michele Gortani e uno in comune con Brumatti: Djalma Stultus. Pellis ebbe la passione per le moto che amò condurre, possedette pure un sidecar. Piace ricordarlo a 1870 metri d’altitudine sul Clap Grande come documentato da una mitica foto del 1934, davanti ad un cavalletto conficcato nella neve, improvvisato e realizzato sul posto con martello, chiodi e lunghi tronchi d’abete. Morì improvvisamente a Valbruna il 2 febbraio 1962 a causa di una broncopolmonite. Nel 1963 un’indicativa mostra alla Sala Ajace d’Udine fu la prima di una serie importante (Venezia, Milano e Firenze furono le tappe successive) che ricordarono la sua ampia e diversa attività. La retrospettiva del 1972 alla Galleria Sagittaria di Pordenone presentò contributi critici di Ragghianti, Perocco, Manzano, Rizzi e Ciceri.
Cenni biografici - Giovanni Hermet (Gianni Brumatti)
Brumatti nacque a Trieste il 2 luglio 1901 e fu dunque più giovane di Pellis di tredici anni. La madre, Antonia Brumat (poi Brumatti) era figlia di un proprietario terriero friulano, il padre, Luigi Hermet, portava un cognome illustre...; egli legittimò Gianni solo poco prima di morire quindi il pittore, che iniziò a dipingere giovanissimo, firmò sempre i suoi quadri con il cognome materno. Egli trascorse l’infanzia e l’adolescenza in un ambiente artistico: la nonna Amelia era costumista teatrale e affittava camere a gente di teatro (tra gli altri ospitò Mascagni che più di una volta le fece visita), la mamma e la zia erano due brave cantanti liriche e il padre un discreto musicista (suonava il corno). Brumatti nutrì sempre un grande amore per la musica, ma scelse la pittura e incominciò a stendere i colori ad olio fin dal 1914 mentre frequentava il Ginnasio di Gorizia. Anch’egli, come Pellis, ‘pagò’ le conseguenze psicologiche (e non solo!) causate dallo scoppio della Prima Guerra: dovette abbandonare gli studi e lasciare la città isontina. Ritornò a Trieste presso la famiglia: furono anni difficili e dovette arrangiarsi; iniziò un duro apprendistato come assistente scenografo presso il Teatro Fenice e il Teatro Rossetti accanto a professionisti davvero formidabili e preparati come Rossi e Moscotto. Nel frattempo frequentò vari artisti (lo svizzero Koch e Wostry) finché decise di seguire lezioni di pittura presso lo studio di Giovanni Zangrando. La personalità e la bravura di questo pittore (ma anche le belle donne che spesso venivano a trovarlo, lo circondavano e posavano nude per lui!) attirarono molti giovani lassù a Scorcola: nel suo studio mossero i primi passi anche Nathan, Levier, Marchig, Finazzer e Sambo. Poco dopo il 1922 Brumatti incominciò ad esporre nelle mostre collettive del Circolo Artistico Triestino e nel 1923 da Umberto Michelazzi: mi raccontò che ‘gli sembrò di toccare il cielo con un dito’ quando Wostry, dopo aver ammirato un suo quadro, lo elogiò pubblicamente. Non a caso le sue prime opere piacquero anche a Barison, Parin e Grimani che lo notarono. Nel 1924 frequentò la Scuola per Capi d’Arte di Trieste; in quegli anni era impossibile vivere di sola pittura e per mantenersi egli eseguì vari lavori decorativi e pubblicitari che si procurò frequentando il Circolo Artistico Triestino. Dipinse con Cocever a Capodistria, a Isola d’Istria intervenne nei lavori di restauro di un affresco nel Duomo e a Trieste fu spesso accanto a Bidoli e Quaiatti. Si ammalò di tifo e trascorse un lungo periodo di convalescenza. E’ del 1929 la sua prima personale nel Salone Jerco; ottenne subito vari riconoscimenti e partecipò ad importanti mostre nazionali a Pola, Milano, Padova, Firenze e Roma. Strinse amicizia con Marcello Mascherini e altri esponenti della cultura locale. Nel ventennio seguente collaborò con l’Ufficio Stampa della Società Triestina di Navigazione Cosulich e realizzò affiches, disegni, oleografie, calcografie e sei copertine della rivista ‘Sul Mare’. Lavorò anche presso la libreria antiquaria d’Umberto Saba; conobbe bene il poeta e talvolta lo frequentò in case private. Spronato da Ugo Carà, eseguì per la Finmare alcune opere destinate al Conte Biancamano. Negli anni Trenta si recò diverse volte a Venezia dove ebbe modo di ammirare opere di Van Gogh e degli impressionisti francesi, ma anche quadri di Munch, di Kokoschka, di Picasso, di Chagall e degli italiani Semeghini, Rossi, Seibezzi, Rosai, De Pisis e Morandi... Nel 1934 fu presente alla XIX Mostra Biennale Internazionale della città lagunare; l’anno seguente ottenne il Premio del Duce per la Pittura; pure nel 1936 e nel 1938 espose rispettivamente alla XX e alla XXI Biennale veneziana. Trascorse gli anni della Seconda Guerra Mondiale a Trieste città dalla quale si allontanò raramente e per brevissimi periodi continuando ad esporre da Umberto Michelazzi. Nel 1943 ottenne un premio acquisto del Ministero dell’Educazione Nazionale a mezzo della Regia Soprintendenza alle Gallerie di Venezia. Espose più volte in varie mostre nazionali d’arte Sacra all’Angelicum a Milano, a Novara al Palagio dell’Arengo, ad Assisi presso la Basilica di San Francesco, a Bologna, a Pallanza, a Vercelli, a Salerno ecc. Nel 1949 vinse il premio P. Coscia con uno splendido quadro realizzato a San Giusto. Nel 1951 e nel 1955 presentò alcune opere alla Quadriennale Romana e tornò nella capitale nel 1959 con una personale all’YMCA. In questo decennio frequentò più d’altri Levier, Torelli, Giordani, Noulian, Samuel e Rosignano; nel 1966 collaborò con altri artisti per illustrare il libro di Ketty Daneo Un ragazzo, cento strade. Negli anni Settanta dipinse a Marano Lagunare e si dedicò anche all’incisione. Nel 1988 ricevette un importante riconoscimento dal Comune di Trieste. Continuò a dipingere instancabilmente e ad esporre in Italia e all’estero quasi fino alla fine sopraggiunta all’età d’ottantanove anni nel gennaio del 1990.
E’ curioso notare l’indole diversa dei due pittori prendendo in considerazione alcune testimonianze: mentre il Pellis dipinse spesso ad alte quote rischiando nientemeno che il congelamento delle estremità (il suo autoritratto del ‘20 fu dipinto con dieci gradi sotto lo zero!), l’unica volta che Brumatti andò in montagna soffrì di vertigini, fece un rapido disegno nei pressi di Misurina e costrinse l’amico che gli faceva d’autista (un noto collezionista triestino) a fare dietrofront senza nemmeno giungere a Cortina. Ma in Carso non c’era sole accecante o bufera di neve che potevano impedirgli di disegnare o dipingere quello che si era prefisso con ostinata testardaggine.
Sentieri paralleli?
Pellis e Brumatti furono più che due autentici coloristi, due solisti aristocratici; essi pure in momenti diversi, assimilate con entusiasmo giovanile in modo del tutto personale e con saggia cautela alcune innovazioni linguistiche proposte dai pittori veneti delle nuove generazioni e in parte anche dalle avanguardie storiche, giunsero ambedue ad una rappresentazione raffinata e poetica del paesaggio che rimane, fuor d’ogni dubbio, la più alta espressione del loro lirico linguaggio pittorico. Sugli altri Pellis guardò principalmente i soggetti bretoni di Gino Rossi (1884-1947) si pensi a Fantocci di fieno e a Portatrici di sabbia e Brumatti studiò la tavolozza composta da colori lievi e l’essenzialità del segno di Pio Semeghini (1878-1964); anche le sue pennellate divennero sempre più povere ‘tirate’e magre e la sua espressione rivolta contro l’eccesso di cromie. I percorsi individuali tuttavia, pur avendo qualche nota psicologica parallela e comune (e non solo!), restano autonomi: la ricerca continua dei limiti della propria libertà, le loro ‘semplici, ma difficili’ scelte (furono spesso portati alle inquadrature grandangolari!) e la vena elegiaca che li pervase, li condussero senza indugi al racconto. La personalità del Pellis fu più complessa del triestino ed egli disegnatore più completo, fu anche più dispersivo, più dubbioso e lacerato nell’individuazione dei soggetti e conseguentemente meno coerente; d’altra parte si formò in un ambiente culturale, quello friulano fra Ottocento e Novecento, arretrato rispetto a quello in cui operavano i movimenti innovatori di portata europea e quindi faticò ad orientarsi. Gli artisti veneti che conobbe da giovane accentuarono la sua inquietudine di ordine estetico: egli fu portato per naturale tendenza ad essere austero con se stesso, ma i contatti avuti a Venezia ebbero certamente un peso psicologico decisivo anche nel proseguo della sua attività sicché instaurò più che un dialogo, un monologo con la realtà e “forse la scontentezza di se che lo accompagnò durante tutta la vita artistica fu motivata proprio dall’antitesi che egli avvertì tra la propria istintività creativa, sostanzialmente lineare, e i rivolgimenti che avvenivano intorno a lui”; l’insoddisfazione fu determinata dal “sentirsi coinvolto da tali rivolgimenti e dall’impossibilità di corrispondervi razionalmente, nonché dal sentire che le rivoluzioni del linguaggio gli facevano cambiare qualcosa interiormente”. Come è stato osservato Pellis “risentì dapprima della forza costruttiva di una linea di contorno marcato tipica dell’espressività di Gino Rossi e per quanto riguarda le scelte di pigmenti dimostrò affinità con la lezione francese dei Fauves.” In anni centrali del suo operare si avvicinò a Giovanni Segantini (1858-1899) per la ricerca di rapporti fra colori che rendano la massima luminosità, ma dopo la guerra incominciarono a manifestarsi in modo evidente anche i suoi tormenti: allora egli si rifugiò nella natura per dare risposta agli interrogativi che era andato meditando durante il periodo veneziano. Diventò a tutti gli effetti un pittore naturalista e seppe scoprire nel paesaggio la finezza formale, ma anche quella cromatica e tonale. La luce fu sempre, da quel momento, la prima protagonista dei suoi dipinti: intensa, cristallina, avvolgente esaltò i bianchi, gli azzurri e i violetti della sua ricca tavolozza: la pittura di Pellis si rivelò più autentica, addirittura ‘magica’ quando il pittore fu più parco ed eseguì alcune indimenticabili nevicate. In questi piccoli e medi formati egli stabilì allora un rapporto diverso con la natura che perde la sua assolutezza e imponenza per divenire umana e confidenziale. Brumatti invece, dalla giovanile semplificazione geometrica e cezanniana, fu successivamente suggestionato dal Chiarismo, il movimento pittorico così definito per la sua opposizione al denso chiaroscuro di Novecento. Egli osservò la forza strutturale delle composizioni buranesi di Pio Semeghini espressa attraverso una sintesi non sempre facile e sulle sue tavole di faesite (che predilesse) stabilì l’equilibrio di toni ridotti all’essenziale: molti paesaggi del giuliano infatti, sono risolti con l’incanto dell’aerea trasparenza di colori delicati e leggeri. In molti oli si nota una rarefazione del colore predominante e una volontà d’abbandono che porta all’intimismo. La casa incantata di Semeghini, oggi conservata nel Museo d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro, rimase per Brumatti un punto fermo cui fare riferimento e quando la critica accostò alcuni suoi paesaggi a quelli di Arturo Tosi (1871-1956) egli non condivise il paragone. Ma, suggerisce Livio Rosignano che più di altri ne conobbe l’opera e gli fu vicino, “non si creda che Brumatti sia stato soltanto un paesaggista. Un suo tema preferito fu anche quello dell’arte sacra. Indimenticabili alcune crocifissioni e le Marie ai piedi della Croce, opere in cui egli fece buon tesoro di un certo gusto della pittura informale, stratificando risonanze tonali con vera maestria, quasi a voler dimostrare che pure lui era un pittore avvertito, colto, ma che aveva saputo evitare le secche dell’astrattismo”. Opere di Pellis e Brumatti furono esposte a Trieste presso la Stazione Marittima (dicembre 1981-gennaio 1982) in occasione della mostra Arte nel Friuli Venezia Giulia 1900-1950.
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