Sontuoso, altero, superbamente anacronistico, lo stile dei mobili di
Jacques-Emile Ruhlmann suscita reazioni contrastanti, ma mai
indifferenza. Il principe degli ebanisti francesi, che dominò la scena
dei primi decenni del Novecento, per creare i suoi costosissimi "pezzi"
attingeva alle più diverse fonti di ispirazione e non trascurava neppure
le sigarette russe che gli suggerivano il prediletto accostamento di
colore, nero e oro.
Le forme dei mobili di Ruhlmann in genere sono piuttosto semplici, anche
se il loro rigore è poi smentito e al tempo stesso esaltato,
dall'impiego dei materiali più pregiati come, l'amaranto, l'ebano di
Macossor e il bois di violette. Eppure a dispetto del suo "aureo"
isolamento, Ruhlmann seppe anticipare molte delle tendenze che si
sarebbero poi affermate nei decenni successivi. Gli anni Venti, che
videro il trionfo del Decò, ricorrono frequentemente a materiali
insoliti, come l'avorio, la pelle di squalo e quella di serpente,
persino la lacca con incrostazioni d'uovo. Jean Dunond, per esempio,
amava la lacca e creava famosi paraventi neri, impreziositi da sapienti
tocchi argentei, che suggerivano atmosfere orientali in sintonia con i
miti dell'epoca.
Trionfavano dunque forme rigorose accanto a mobili sorprendenti che si
ispiravano all'antico Egitto, come quelli disegnati da Pierre Legrain
(sedie intagliate minuziosamente che non sarebbero sfigurate nelle regge
dei faraoni) e da Carlo Bugatti che accentuava l'esotismo dei suoi
incredibili divani con pergamene, petti di leone e scaglie di
madreperla.
I classici divani in tessuto mutavano d'aspetto e si vestivano con i
sinuosi motivi geometrici cari a Ruhlmann e spesso si ispiravano alla
pittura dell'avanguardia: ecco allora apparire velluti cubisti e sete
costruttiviste, mentre Raoul Dufy proponeva composte corse di cavalli,
tipiche dei suoi dipinti, anche nelle stoffe d'arredamento.
Sonia Delavnay amava violenti contrasti di colore e forti geometrie,
mentre il più affermato creatore di tappeti dell'epoca, Ivan da Silva
Bruhms si ispirava ai manufatti berberi. Alcuni, come Maurice Duprême
(direttore del Laboratorio di arti applicate delle faleries Lafayette),
mantennero un sottile legame con l'art nouveau nell'insistenza dei temi
floreali anche se essi appaiono sempre più spesso "spezzati" da zig zag
che ne alterano la fondamentale armonia. In Italia, Fede Cheti sbalordì
il pubblico lavorando un tappeto viola col pelo lungo e folto come una
pelliccia, prima tappa della sua lunga carriera di innovatrice del
tessuto. Dal suo laboratorio sarebbero poi usciti seta e colori con
inserti di ciniglia, velluti stampati, rafie realizzate sapientemente.
I classici motivi Decò attingono a elementi naturalistici reinterpretati
con gusto sontuoso: fondali marini sui quali si adagiano pigramente
pesci e tartarughe vengono realizzati attraverso complesse tecniche di "marquerterie"
dove si accostano legni caldi e nerissimi che poggiano su massicce basi
dorate. Mobili di stile essenziale sono "cosparsi" di fiorellini,
pannelli laccati si popolano di amazzoni lanciate in improbabili
scorrerie.
Era l'epoca in cui Eileen Gray, creatrice irlandese che lavorò a lungo
in Francia, disegnava per una sorta alla moda una chaise-longue come una
canoa in bronzo laccato, sulla quale non era difficile immaginare
sdraiata Nefertiti.
Il sole, dai rigidi raggi geometrici, è uno dei temi dominanti e lo si
ritrova sugli schienali delle sedie, sui ripiani delle tavole e da lì
arriva anche sulle spille, sui portasigarette, sui bottoni e sulle
fibbie. Ma quello che rimane il motivo d'ispirazione dominante è la
fontana, un'immagine continuamente ricorrente che il Déco priva d'ogni
naturalismo e che, proprio per tale motivo viene interpretata come un
simbolo di orgogliosa esaltazione del progresso. La spettacolarità e il
vitalismo di questo stile preludono al design industriale che già
s'intravede nelle sagome rigorose di divani e poltrone.
"In Italia i costruttori di mobili continuano a fornire ai nuovi
arricchiti, il falso rinascimento per la sala da pranzo, il falso Luigi
XVI per la stanza da letto, il falso impero per la sala da ricevimento:
i fabbricanti di mobili a basso prezzo ritornano a quel delizioso stile
fantasia che perpetrò i suoi indimenticabili delitti nella seconda metà
del secolo scorso...", così scriveva su La Stampa di Torino il 10 luglio
1911 il critico Enrico Thovez a proposito della "Esposizione
internazionale" che celebrava i fasti delle arti applicate nella
capitale piemontese. Una decina d'anni dopo, circa, scenario si presenta
profondamente cambiato. Nel 1923 si inaugura a Monza la "Mostra
internazionale delle arti decorative" della quale poi trae spunto e
nasce la famosa "Triennale milanese", massima vetrina italiana tutt'ora
esistente delle nuove idee tutte italiane, pronta, nel secondo
dopoguerra, a conquistare il mercato mondiale. Con la Biennale di Monza
si ha l'inizio ufficiale di una nuova espressione nell'architettura di
interni e nell'ebanisteria che vede i suoi maestri nel romano Duilio
Cambellotti, e nei nuovi architetti emergenti che sono Piero Portaluppi,
Giovanni Muzio, Giò Ponti, Tommaso Buzzi. Uno dei massimi ispiratori,
oltre ai maestri cubisti, sarà proprio Fortunato Depero che nella sua
Casa d'arte, fondata a Rovereto nel 1919, si era dedicato allo studio e
alla progettazione di qualsiasi tipo di manufatto, passando dai filati
ai mobili intarsiati.
Mentre in Francia Iribe e Grault, in un'estenuante ricerca di
originalità di materiali, rivestono i loro mobili di "galiehat" (la
sottile pelle del piccolo squaletto detto "sagù", con la superficie
fittamente granulata) in Italia gli ebanisti si sbizzarriscono animando
le sobrie forme dei mobili art Déco con intarsi diversi e ispirati e
talvolta disegnati dai maggiori pittori e scultori loro contemporanei.
Così, Cosorati, Balla, Carrà e Sirani suggeriscono con le loro opere
decorazioni e intagli. Allo stesso modo Gigi Chessa disegna in prima
persona i pannelli che erano realizzati con minuziosa precisione dagli
artigiani-artisti utilizzando legni pregiati locali ed esotici quali:
limone, bosso, ebano, acero, tuia, nelle loro tinte naturali o
delicatamente colorati.
Tutto gioca ora sul puro sintetico design, sulle proporzioni del mobile
e sulla sua linea essenziale; le superfici sono levigate e piatte. Si
accantona ogni forma ridondante o ecclettica che sia. I mobili nascono
dalla connessione di tre elementi creativi, quelli manifestati dal
progettista, dall'intagliatore e dall'intarsiatore. La produzione di
pezzi unici e quella di serie hanno una matrice comune, autori omologhi
e si esprimono attraverso gli stessi canali. A Milano, già negli anni
tra le due guerre, capitale del disegno industriale, nell'ambito dei
magazzini "La Rinascente" nasce, con Giò Ponti e Emilio Lancia, la
"Domus Nova", il reparto di arredamento nel quale si propongono mobili
economici e "estetici" allo stesso tempo.
I medesimi architetti, affiancati da Tommaso Buzzi, progettano
contemporaneamente mobili per la società "Il Labirinto", che sono arredi
destinati a un pubblico piuttosto raffinato ed esigente ma sempre alieno
da sfoggi di lusso e stravaganza. Nel 1928 nascono, quasi
contemporaneamente, due nuove riviste la "Domus" fondata da Giò Ponti e
"La casa bella" di G. Marangoni che aprono la strada verso nuovi
orizzonti del verbo architettonico e stimolano la vena creativa del
settore delle antidecorative. Le due riviste saranno le prime anche a
registrare il tramonto di un certo modo di intendere la creazione di
mobili e il loro inserimento in determinati ambienti. Con la seconda
guerra mondiale alle porte, il fascismo che aveva sempre privilegiato lo
stile Novecento, dalle linee squadrate e dalle forme massicce, visto
come un ritorno all'ordine sia nelle arti visive che applicate, aveva
ormai i giorni contati.
Nel dopoguerra sarebbe iniziato il momento del trionfo per il design
italiano, un'ondata di successo del quale ancor oggi si sentono gli
effetti.