DOMENICO MIOTTI
UN PITTORE RITROVATO
Antonella Bellin
Domenico Miotti, La
Sagra, Venezia, collezione privata.
La ricostruzione della personalità
artistica di Domenico Miotti nel panorama della pittura veneta della
seconda metà dell’Ottocento è stato l’obiettivo principale di uno
interessante lavoro di ricerca di recente pubblicazione che intende
aggiungere un altro tassello per la conoscenza di quella che viene
chiamata la grande stagione verista della pittura veneta.
Domenico Miotti è un artista
praticamente sconosciuto della seconda metà dell’Ottocento, che pur
essendo trevigiano d’origine (nasce infatti a S. Maria del Rovere nel
1838), può essere considerato a tutti gli effetti un pittore veneziano.
Egli opera, infatti, principalmente a
Venezia, nel momento in cui Giacomo Favretto, Guglielmo Ciardi, Luigi
Nono e Alessandro Milesi, stavano attuando
una reale trasformazione della pittura figurativa tradizionale
dando vita a una pittura rinnovata sia tematicamente che
stilisticamente, una pittura moderna che deve attingere la propria
ispirazione dalla realtà circostante,
colta in tutti i suoi aspetti attraverso uno studio sapiente della luce
e del colore.
Domenico Miotti fa parte di quella
schiera di artisti, cosiddetti “minori”, rimasti esclusi sia
dall’attenzione sia della critica del tempo, sia dalla critica moderna e
che invece costituiscono una testimonianza importante della varietà
d’espressione della scuola veneta della seconda metà dell’Ottocento.
Grazie a diverse opere di Miotti
presenti in collezioni private veneziane è stato possibile realizzare la
sua monografia, che va oltre la biografia dell’artista arrivando a
scoprire i modi e gli ambienti della sua formazione artistica, i
rapporti con i pittori e la committenza del suo tempo.
L’assoluta mancanza di notizie su
questo pittore ha reso la ricerca difficile ma molto appassionante.
Attraverso quindi una capillare
ricerca presso gli archivi di diverse città italiane (Venezia, Treviso,
Trieste, Milano e Torino), è stato possibile ricostruire il percorso di
studi di Domenico Miotti all’Accademia di Belle Arti di Venezia dal 1855
al 1861, il suo viaggio di studio a Firenze, Roma e Napoli, ma
soprattutto la sua attività espositiva presso la Società Veneta
Promotrice di Belle Arti, la Società Promotrice di Belle Arti di Torino
e la sua partecipazione a varie Esposizioni Nazionali quali: Roma nel
1883, Torino nel 1884 e Venezia nel 1887.
Particolare rilevanza nella
monografia viene data alla collocazione di Miotti all’interno del
panorama artistico veneziano della seconda metà dell’Ottocento
individuando i modelli che inducono Domenico Miotti ad abbandonare
subito il soggetto storico che caratterizzava le sue primissime opere (Nicolò
de Lapi esposto a Firenze intorno al 1862, Ritratto di Garibaldi,
venduto allo stesso Garibaldi a Napoli nel 1863), e abbracciare la
pittura di genere che si era sviluppata a Venezia dagli anni Quaranta in
poi grazie all’attività di Eugenio Bosa, Antonio Rotta e Guglielmo
Stella.
Quella pittura di “drammi
famigliari”, soprattutto delle classi più povere e dimesse, che inducono
lo spettatore a partecipare emotivamente alle vicende di quel mondo
senza eroi. Sono i soggetti che per il prof. d’ Estetica dell’Accademia
di Belle Arti di Venezia, Pietro Selvatico, erano più ”acconci
all’indole del tempo in cui viviamo, più immedesimati con noi e quindi
più efficaci a porgere a tutti una vera utilità morale”
La prima opera certa di Domenico
Miotti, intitolata El calegher o Il sequestro, ora in
collezione privata, esposta in Piazza dei Signori intorno al 1872, è la
dimostrazione di come Miotti avesse perfettamente recepito il messaggio
di Pietro Selvatico
Quest’opera rivela con chiarezza
evidenti affinità con Il marito traviato di Guglielmo Stella.
Domenico Miotti, Il
sequestro, 1872-74, Venezia, collezione privata.
Confrontando l’opera di Miotti con il
dipinto realizzato da Stella nel 1852 notiamo che entrambe le
composizioni sono costruite in orizzontale, decentrando la scena
principale verso sinistra mentre lo sfondo è volutamente meno delineato
e tagliato fuori dalla luce che entrando dalla finestra va ad illuminare
i personaggi principali della scena: la famiglia del marito traviato in
Stella, il ciabattino e l’ufficiale giudiziario in Miotti. Miseria,
disperazione, lacrime e umiliazione di un intera famiglia, questi sono
gli ingredienti che caratterizzano entrambe queste opere.
B.
Marcovich,
Il marito traviato,
incisione dal dipinto di G. Stella,
Archivio
Fotografico Fondazione Musei Civici di Venezia, Coll. Stampe P.
D. gr. 443.
I modelli per quest’opera di Miotti
non sono solo veneziani.
La struttura della composizione con
l’espediente della finestra posta a sinistra da cui far entrare la luce
è tipica di molte opere dei fratelli Domenico e Gerolamo Induno. che a
Milano erano considerati gli esponenti più autorevoli della pittura di
genere. Confrontando l’opera di Miotti con L’usuraio pegnatario in
mezzo alle sua su anticaglia di Domenico si può notare che entrambe
le scene si svolgono all’interno di una stanza, parzialmente illuminata
dalla luce che entra dalla finestra aperta a sinistra della composizione
tagliando la scena in diagonale.
Vi sono molti particolari, quegli
“accessori” come scriveva Giulio Cantalamessa in “Emporium” nel 1904 che
erano “assolutamente necessari per parlare del soggetto, fanno parte del
soggetto stesso che senza di essi il senso del quadro sarebbe esposto
con omissioni”.
Le anticaglie dell’usuraio, i ferri
del mestiere e gli oggetti pignorati del ciabattino, servono a far
capire esattamente all’osservatore di chi e di che cosa si sta parlando
per indurlo a riflettere sul dramma che si sta consumando.
D. Induno,
L’usuraio pegnatario in mezzo alle sua anticaglia
1853, Firenze Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti.
Nel 1875 Miotti si trasferisce a Venezia iniziando una
lunga collaborazione con la Società Veneta
Promotrice di Belle Arti, esperienza che si rivelerà fondamentale per il
rinnovamento della sua produzione artistica.
Grazie a questa collaborazione che
inizia nel 1875 e termina nel 1885, Miotti entra in contatto con Giacomo
Favretto, Guglielmo Ciardi, Luigi Nono coloro che sono considerati i
rappresentanti più importanti della ” Scuola veneziana del vero”.
Scorrendo le Memorie della Società
Veneta Promotrice di Belle Arti, pubblicate annualmente dalla
Società stessa, risulta evidente che dal 1880 l’arte di Domenico Miotti
si evolve, matura nell’artista l’interesse per la rappresentazione della
vita popolare veneziana, quella vita che si svolgeva nelle “calli”, nei
“campielli” o lungo i canali della città, dove poteva cogliere e
immortalare tramite un efficace uso del colore venditori ambulanti,
allegre “comari” mentre “ciacolano” tra di loro e umili popolane
protagoniste di piccoli eroismi quotidiani.
L’ambiente veneziano ripreso con
intensità e con attenzione ai particolari, diventa quindi il tema
prediletto e più ricorrente nelle sue tele che vengono apprezzate dalla
committenza del tempo e gli permettono finalmente di uscire
dall’ambiente veneziano per farsi conoscere a livello nazionale
mettendosi a confronto con i migliori artisti di tutta Italia.
Soprattutto con Favretto, amico oltre
che collega, Miotti condivide intenti, soggetti, luoghi d’ispirazione,
scelte cromatiche.
Domenico Miotti,
Fruttivendola, 1882, Venezia, collezione privata.
Opere come La Fruttivendola
esposta alla Società Veneta Promotrice di Belle Arti nel 1882 o La
fruttivendola che legge, esposta all’Esposizione Nazionale di Torino
nel 1884, sono chiaramente ispirate dall’opera di Favretto esposta a
Milano nel 1880 intitolata Erbe e frutta.
Giacomo
Favretto, Erbe e Frutta, 1880, collezione privata.
In Erbe e frutta di Favretto,
la verdura si anima a tal punto da creare uno splendido disordine, la
frutta e la verdura addirittura escono dalle ceste per invadere lo
spazio circostante trasformandosi da natura morta in natura
assolutamente viva, grazie ad un sapiente disegno e resa del colore.
In Miotti tutto è più statico e i
colori sono abbastanza spenti, colori pastello per la fruttivendola e
toni arancio bruni per la frutta e la verdura.
Dove l’arte di Miotti riesce ad
esprimersi al meglio è sicuramente nelle opere che hanno come soggetto
“la sagra”. Qui il suo pennello riesce quasi sempre ad immortalare, come
una fotografia, tanto i gesti dei personaggi, quanto l’intimità del
momento, l’oggetto più minuto apparentemente insignificante ma anch’esso
vero e reale, come la scena in tutto il suo insieme.
La Sagra di S. Giacomo di
Miotti forse è il quadro più riuscito tra tutte le opere
eseguite dall’artista dagli anni Novanta in poi.
Ci sono infatti tutti gli elementi
che rendono quest’ opera estremamente convincente sia dal punto di vista
tematico che stilistico.
D.
Miotti, La sagra, particolare. Collezione privata.
G. Favretto, Il banco del lotto,
1881, Roma.
C’è sicuramente un studio più
accurato della struttura compositiva, c’è molta sensibilità nella scelta
dei colori e del loro accostamento, le macchie di colore costruiscono lo
spazio e la linea dei contorni è generata virtualmente dalla variazione
delle tinte o dei toni dei colori che vengono accostati.
C’è una ricerca degli effetti di luce
molto più evidente che in tutte le altre opere e i personaggi sono
osservati con cura minuziosa.
Per lo studio dell’ambientazione, le
figure colte di spalle e soprattutto la vivacità della gamma cromatica è
sicuramente da mettere in relazione con il quadro di Favretto intitolato
Il banco del lotto esposto a Milano nel 1881, sia con
La fiera di Pasqua al ponte di Rialto del 1887.
Il tema della sagra è un pretesto per
tutti quegli artisti come Favretto e Miotti per rappresentare un momento
d’allegria veneziana, di svago popolare dove si possono cogliere
situazioni e personaggi assolutamente “veri”.
D. Miotti, La sagra,
Venezia, collezione privata.
A.
Milesi, La sagra,1884, collezione
privata.
Questa Sagra di Miotti di
piccole dimensioni costituisce un’ ulteriore testimonianza di quanto
Miotti fosse un arguto osservatore del genere umano, soprattutto degli
atteggiamenti delle figure femminili.
Quest’opera si presta ad essere
confrontata questa volta con il quadro di Alessandro Milesi intitolato
per l’appunto La sagra del 1884. In entrambe le tele le figure
femminili sono colte di spalle mentre dialogano tra di loro.
A questo punto si potrebbero prendere
in considerazione altre opere di Miotti come Il ciarlatano
o Il bagno da mettere a confronto rispettivamente con Il
mercato di campo san Polo e Dopo il bagno di Favretto,
oppure L’impiraperle di Miotti con Le perlaie di Milesi,
ma risulta già evidente dall’analisi svolta fin qui che quando Miotti si
avvicina all’arte di Favretto o di Milesi, non lo fa come imitatore per
mancanza di genio artistico, ma come artista consapevole di far parte
seppur con un ruolo di minor importanza di quella corrente che dominava
il panorama artistico veneziano della fine dell’Ottocento.
La morte improvvisa di Giacomo
Favretto il 12 giugno 1887 segna indirettamente la fine della carriera
artistica di Domenico Miotti. Commercianti d’arte senza scrupoli a
caccia di opere di Favretto, notando le affinità tematiche e stilistiche
tra Favretto e Miotti, commissionano quadri a Miotti solamente per poi
farli ritoccare e rivenderli come opere inedite di Favretto.
Quando l’artista si rende conto che i
suoi quadri una volta usciti dallo studio sparivano dalla circolazione
perché contraffatti, per non subire ulteriormente questa umiliazione,
decide di dipingere solo per se stesso.
Si ritira quindi con la sua famiglia
in un’umile soffitta in campo S. Polo dove muore di stenti nel 1916
facendo promettere alle sue donne di conservare le sue opere.
Proprio queste opere , presenti ora
in varie collezioni private e per la prima volta studiate e schedate
nella monografia, costituiscono per il momento l’unico corpus di
dipinti conosciuti di Domenico Miotti.
Antonella Bellin