Giovanni Attinà

 

Massimo Stanzione, pittore

 

 

 

Massimo Stanzione, Certosa di San Martino, affreschi

 

Sulla vita di Massimo Stanzione le notizie non sono molte, sono poco precise e qualche volta contraddittorie: non pochi critici e storici dell’arte ne hanno scritto, ma, quel che si sa, è in massima parte, raccontato in una sua biografia - peraltro ritenuta poco attendibile -, scritta da Bernardo De Dominici, pittore e soprattutto storico dell’arte vissuto a Napoli nel XVIII sec. (1685/1759).

In questo breve ritratto, poiché non sono un critico d’arte  né un esperto per giudicare dei suoi dipinti, mi limiterò al racconto della sua vita, soprattutto in relazione all’epoca storica e all’ambiente in cui egli visse, e ad alcune mie impressioni personali sul personaggio, così come viene fuori da quanto ho potuto leggere e dai dipinti che ho visto.

L’opera più completa è risultata essere quella di Sebastian Schutze e Thomas C. Willette, edita da Electa Napoli del 1992. Altre notizie sono state tratte da vari autori e scritti storico-artistici.  

 

Massimo Stanzione, Riposo nella fuga in Egitto

 

Massimo Stanzione nacque nel 1585, a Orta di Atella – altri dicono a Frattamaggiore -, un piccolo centro agricolo vicino Napoli, da, come dice il De Dominici, " .. onestissimi Genitori ".

Atella – di cui sono oggi visibili alcuni ruderi - era una antica città osco-sannitica, conquistata poi, neanche a dirlo, dai Romani: era famosa per le "fabulae Atellane", commedie farsesche e licenziose, recitate nella lingua della antica popolazione indigena, e poi, ovviamente, in latino, con maschere e personaggi fissi, come Maccus, cui si fa risalire Pulcinella.

Nell’anno in cui nacque Massimo, Napoli, da capitale del più grande Stato della penisola, era ridotta, da circa ottanta anni, a semplice capoluogo di una provincia di quell’impero spagnolo – che andava dall’Europa alle Americhe - sul quale, come si dirà poi, "non tramonta mai il sole".

Su tutta l’Italia meridionale e sulla Sicilia, era calato il silenzio, era stata innalzata quella che Antonio Ghirelli,  nella sua "Storia di Napoli", chiama "la muraglia spagnola", una  cortina al cui interno, se da un lato fu assicurata la pace, dall’altro tutto era immobile e controllato dai funzionari spagnoli, con "..il più arbitrario esercizio del potere, una prassi fiscale particolarmente esosa nei confronti dei poveri, l’organizzazione giudiziaria più lenta e farraginosa del mondo".

Erano epoche di grandi mutamenti e fermenti politici, religiosi, sociali: dalla Riforma luterana alle guerre di religione tra cattolici e protestanti, dall’invenzione della stampa alla guerra dei trenta anni, dalle carestie e le epidemie alla crisi economica e demografica e alla recessione che coinvolsero tutti gli stati europei per tutto il sec. XVII.

Nel campo scientifico e filosofico, fu l’epoca di Renè Descartes (1596-1650), meglio conosciuto come Cartesio, Giovanni Keplero, matematico e astronomo (1571-1630), Galileo Galilei (1564-1642); nel campo musicale era l’epoca di Bach e Vivaldi.

In Italia, a Roma era papa Gregorio XV, Alessandro Ludovisi, fino al 1623 e successivamente Urbano VIII, Maffeo Barberini;  i Savoia si barcamenavano in Piemonte tra le potenze dominanti,  e in Toscana la dinastia dei Medici volgeva al tramonto; Venezia rimaneva l’unico Stato ancora in grado di reggere bene; era l’epoca di Giordano Bruno (1548-1600), e, a Napoli,  di Masaniello(1620-1647).

Napoli, malgrado tutto, stava crescendo e uscendo dal guscio del centro antico; già, nella metà del XVI sec., il vicerè Pedro di Toledo aveva avviato grandi lavori di urbanizzazione oltre le mura: ancora oggi è famosa la strada che porta il suo nome e i quartieri spagnoli, detti cosi perchè erano gli acquartieramenti delle truppe spagnole, di stanza in città.

La famiglia degli Stanzione doveva avere un buon livello sociale,  economico e anche culturale se è vero che, oltre a educarlo nelle virtù cristiane, "ebbero a cuore di farlo istruire nelle lettere umane".

L’agiatezza della famiglia permise a Massimo di non avere nessuna necessità materiale: fino a 18 anni, così riporta il solito De Dominici, egli "solea passarsela con alcuni giovani suoi compagni suonando vari istromenti".

Fu lo stesso pittore che anni dopo, nel 1621, in una supplica rivolta a papa Gregorio XV, a definirsi  "…nato nobilmente e ricco di beni patrimoniali…". 

E’ facile dedurre che, almeno fino a quella età, nel 1603, i suoi interessi non avevano nulla a che vedere con la pittura, e probabilmente neanche, a mio parere, con altri settori.

Agli inizi del XVII sec., a Napoli, prolificavano gli edifici religiosi e gli edifici nobiliari, era proibito costruire fuori dalle mura cittadine,  diminuivano gli spazi verdi e la popolazione inurbata aumentava con gravi problemi igienico-sanitari e di ordine pubblico: nel 1606, la città contava nove quartieri urbani e sette borghi, con una popolazione che, secondo gli studiosi, era superiore ai 300.000 abitanti.

In Europa, nel campo artistico, si avviava il barocco, che sarebbe esploso poi, alla metà del secolo, con la sua esuberanza e i suoi effetti grandiosi; era quello che aspettavano le grandi monarchie, la Chiesa, e in generale chi voleva esprimere tutto il proprio potere,  con tutto il fasto possibile.

Alla scuola di Caravaggio (1571-1610), che lasciò una sua presenza artistica anche a Napoli, si ispiravano un po’ tutti, Josefe de Ribera (1591-1652), detto lo Spagnoletto, Battistello Caracciolo, il pittore bolognese Guido Reni (1575-1642) e altri, mentre apparivano i grandi maestri del periodo, Rubens (1577-1640), Rembrandt (1606-1669), Velasquez (1599-1660), che fu di passaggio anche a Napoli.

Secondo il De Dominici,- ma è solo un aneddoto considerato non vero dalla maggior parte degli storici e dei critici -, la svolta di Massimo Stanzione verso la pittura sarebbe avvenuta in seguito al consiglio di un pittore, chiamato in casa dalla famiglia, per fare il ritratto di un congiunto morto.

Vero o falso che sia l’episodio, Massimo, siamo circa nel 1604/05, divenne allievo della scuola  di Fabrizio Santafede, pittore napoletano di vent'anni più anziano: nella sua bottega, Massimo esegui soprattutto piccoli ritratti.

Si trasferì  a Roma, probabilmente nel 1606/1607, le date dovrebbero essere queste dal momento che si racconta che non riuscì ad incontrare il Caravaggio, scappato dall’Urbe proprio nel 1606.

A Roma seguì la scuola di Battistello Caracciolo (1578-1635), e conobbe altri artisti europei di impronta  caravaggesca, come Simon Vouet (1590-1649), francese poco più giovane di lui, e l’olandese Gerard von Honthorst (1590-1656). Conobbe anche Guido Reni (1575-1642), artista bolognese, considerato uno dei maggiori dell’epoca, di cui Stanzione subi l’influenza, tanto che qualche critico successivamente lo definirà, tra l’altro, il Guido Reni partenopeo.

Se facciamo un po’ di calcoli, egli cominciò tardi: a 18 anni egli era a casa a dedicarsi alla musica, cioè nel 1603, poi aveva frequentato la scuola di Santafede, e successivamente si era recato a Roma, dove comunque non era fisso, ma si comportava come oggi farebbe un pendolare tra Roma e Napoli, recandosi dove c’erano lavori che gli venivano commissionati.

Non si sa bene quando sposò Virginia Zizzola (o Zizola), ma si sa che ebbe  il primo figlio nel 1615 e il più giovane, di sette figli, Lorenzo, nel 1639.

In questo periodo, Massimo eseguiva ritratti di personaggi dell’epoca e dipinti per le chiese: secondo studiosi dell’arte, era retribuito pochissimo, e ciò farebbe pensare a un artista non ancora pienamente affermato.

 

Massimo Stanzione, Madonna con Bambino

 

 

Ambizioso e deciso ad affermarsi in fretta, forse perché aveva iniziato in ritardo, a Roma si diede da fare per conoscere gente, entrando in rapporti con l’aristocrazia locale, con artisti e letterati e con persone che comunque, per soldi e per posizione sociale, potevano favorirlo.

Nel 1617, l’intreccio di amicizie e una sia pur piccola notorietà gli valsero la pubblica definizione di "Massimo pittore" da parte del compaesano Giovan Battista Basile, che gli dedicò un madrigale e un’ode, elogiandolo per alcuni suoi dipinti.

 

 

G. B. Basile (1566 o 1575-1632), letterato e scrittore, è rimasto più famoso per "lu cunto de li cunti", ovvero il racconto dei racconti, una raccolta di fiabe popolari scritte in dialetto napoletano dell’epoca.

Egli scrisse anche odi e madrigali, composizioni poetiche di tipo celebrativo – spesso accompagnate anche da musica e cantate -, che venivano dedicate a autorità o a persone di rilievo, con le quali l’autore intratteneva rapporti personali e, in qualche caso, riceveva anche stipendi o incarichi.

Massimo, forte di questa notorietà, era alla ricerca di ricche commissioni, che potevano essergli affidate solo da chi deteneva potere e denaro, cioè autorità politiche, enti ecclesiastici, o la  ricca borghesia.

Un bel cambiamento, se pensiamo a come si racconta che era  pochi anni prima, "nato nobile e in una famiglia ricca di beni patrimoniali" e dedito solo a suonar "istromenti".

Alla sua ambizione mancavano solo segni espliciti di distinzione sociale, ma anche per questo le sue amicizie si rivelarono utili.

Nel 1621, e più tardi, nel 1627, da due Papi, Gregorio XV e Urbano VIII, Massimo ottenne il titolo di "eques" – cavaliere -, dell’ordine cavalleresco dello Speron d’oro e poi dell’Ordine di Cristo.

Egli tenne molto a questa forma di prestigio esteriore, che pubblicizzò  firmando i suoi quadri – MS EQUES o EQ MAX –, e la usò abilmente per procacciarsi molti incarichi, e anche per contrapporsi al suo grande antagonista Josefe de Ribera, che firmava i suoi quadri come lo Spagnoletto o anche Valenzianus.

 

Massimo Stanzione, Suonatore di chitarra

 

E’ dal 1630, però, che Massimo Stanzione, con il suo ritorno a Napoli, iniziò una grande attività artistica e  impose il suo stile, diventando l’artista più richiesto dalla Chiesa, dalla nobiltà e dalla ricca borghesia.

Erano quelli i committenti giusti, - per il Gesù nuovo dove affrescò la volta dell’altare maggiore, si dice che intascò 1400 ducati d’oro -; per loro eseguiva lavori al cavalletto e ritratti grandi e piccoli per arricchire le proprie case, dipinti di argomento sacro o profano e tele di argomento religioso.

Per la committenza ecclesiastica, si dedicò anche alla tecnica dell’affresco, con buoni risultati quando lavorò  al Gesù nuovo, a S. Paolo maggiore e alla Certosa di S. Martino.

 

Napoli, Certosa di San Martino

 

Nel 1635/37 lavorò nel Duomo di Pozzuoli con Artemisia Gentileschi (1593-1653), conosciuta ai tempi del soggiorno romano, che lo raggiunse poi a Napoli, nel 1630.

Nata a Roma nel 1593, Artemisia, figlia del pittore toscano Orazio, aveva dimostrato presto un talento artistico precoce, frequentando la bottega del padre.

Fu protagonista di un processo per stupro intentato da lei stessa - fatto inconcepibile per l’epoca - contro  Agostino Tassi , un altro pittore.

 

Artemisia visse poi a Firenze, dove conobbe anche Galileo Galilei, poi di nuovo a Roma intorno al 1618/20, incontrando tra gli altri Stanzione, con il quale stabili un forte rapporto di amicizia e di comuni interessi artistici. Dopo un breve periodo di permanenza a Venezia, andò quindi a Napoli nel 1630 e qui morì nel 1653.

 

 

Massimo Stanzione, Decollazione di San Giovanni Battista, 1634 ca. Madrid, Museo del Prado

 

 

Nel 1639/40  Stanzione ottenne l’incarico di affrescare le pareti sopra l’altare maggiore della chiesa del Gesù nuovo, dopo che un incendio aveva distrutto le precedenti pitture esistenti.

In questa occasione dipinse la vita di Maria in dodici episodi, dalla nascita alla annunciazione e fino alla beatificazione aiutato, come si racconta, da P. Magnati, gesuita e responsabile della chiesa come consulente e guida spirituale.

 

Massimo Stanzione, San Gennaro guarisce un'ossessa. Napoli, Duomo

 

In città, intanto, stava crescendo una nuova generazione di pittori,  bravi con il pennello e altrettanto con la spada, che diedero vita anche alla "Compagnia della morte", con il velleitario obiettivo di uccider tutti gli Spagnoli: Aniello Falcone (1600-1665), Mattia Preti (1613-1699), Micco Spadaro (1609-1675), Salvatore Rosa (1615-1673), il più ribelle di tutti, anche poeta e teatrante, che si dice partecipasse attivamente alla rivolta di Masaniello, un bel gruppo di giovani inaffidabili e ribelli all’Autorità, e poi ancora, Luca Giordano (1631-1705) e Francesco Solimena  (1657-1747).

 

Massimo Stanzione, Giuditta con la testa di Oloferne. New York, Metropolitan Museum

 

Malgrado questa fioritura di artisti, anche la città e tutto il regno subivano la crisi generale che attanagliava l’Europa, guerre, carestie, pestilenze, terremoti, eruzioni vulcaniche.

I vari vicerè che si susseguivano si comportavano né più né meno come i colleghi che governavano la Lombardia, la Sicilia o le colonie americane, spogliando implacabilmente il territorio di tutte le risorse possibili, sia quelle umane sia quelle economiche, dazi e gabelle che favorivano solo l’aristocrazia cittadina il clero e il popolo "grasso", a danno di poveri, - venne ad esempio emessa una gabella sulla frutta in piena carestia -, assoluto disprezzo dei sudditi, processi e torture da parte della Inquisizione, prelievo forzato di uomini per i fronti delle guerre europee.

Sono le condizioni che porteranno alla sollevazione popolare guidata da Masaniello, che esplose a luglio del 1647.

Assalti ai soldati spagnoli e alla aristocrazia cittadina, battaglie per le strade, morti, feriti, chi poteva scappava dalla città, la rivolta si espandeva in tutto il regno, ma tutto si risolverà in pochi giorni, con l’assassinio a tradimento di Masaniello, il 16 luglio 1647.

 

Massimo Stanzione, Morte di Cleopatra, 1640 ca. San Pietroburgo, Hermitage Museum

 

Massimo Stanzione, per la sua provenienza da una famiglia agiata e perfettamente inserita nel sistema, per la sua mentalità e il suo modo di essere,  non poteva sicuramente schierarsi a fianco degli insorti: benvoluto e ricercato dalla buona società e dal clero, non era molto popolare tra i lazzari e il popolino in rivolta.

Egli perciò continuò ad accettare incarichi e denaro e a dipingere, dedicando il suo tempo, in quel periodo, alla Certosa di S. Martino.

Fondata nel XIV sec come monastero dei certosini, e ristrutturata proprio in quel periodo, al suo interno lavorò il meglio degli artisti del 600 napoletano, scultori e architetti come Cosimo Fanzago e pittori come Josepe de Ribera, ma anche Battistello Caracciolo, Simon Vouet  e i giovani Luca Giordano, Francesco Solimena e Mattia Preti.

Massimo aveva già lavorato a una "Pietà" per i monaci della Certosa, successivamente eseguì una "Deposizione" sopra il portale, e nella cappella di destra una "Madonna col bambino".

Nella volta eseguì affreschi raffiguranti "Discesa al Limbo" e "Virtù cardinali",  sulla parete dell’abside "L’ultima cena", e nella sala capitolare "Natività".

Dopo il 1650, in epoca ormai barocca, produsse ancora molte tele per i privati e per alcune pale d’altare.

Morì, secondo alcuni, per la peste del 1656, secondo altri nel 1658.

Egli è stato considerato il dominatore incontrastato della scena artistica a Napoli, l’inventore di una pittura sacra dalle dimensioni domestiche e rassicuranti, di un linguaggio domestico calmo e pacato in contrasto con la esasperata drammaticità del suo antagonista, Giuseppe de Ribera, qualche critico (R. Causa (1923-1984), sovrintendente per i beni culturali della Campania), lo definì l’incontrastato esponente del più autentico ‘600 napoletano.

Sue opere si ritrovano a Buenos Aires, alla Trafalgar Galleries di Londra, e a S. Francisco, in molte collezioni private,  ma i suoi dipinti e affreschi più noti sono nella Certosa di S. Martino, nel museo nazionale di Capodimonte, nel Palazzo reale di Napoli, sulle volte della chiesa del Gesù Nuovo.

 

                           

 

 

Giovanni Attinà