Mario Martini
Walter Abrami
Mario Martini fra coscienza della verit?e coscienza dell'errore.
Ho conosciuto Mario Martini in una squallida, fumosa bettola di Cavana. Mariano Cerne e Augusto Abrami con i quali mi trovavo, l'avevano stanato da una galleria d'arte periferica e convinto a seguirci. Sembrava indispensabile ai due pittori, per gustare fino in fondo la vita, coinvolgere nel loro peregrinare donne sgangherate e amici astemi. In gruppo era imperativo sconfiggere la solitudine, liberarsi dal peso della colpa di aver bevuto qualche bicchiere di troppo, fugare i ricordi amari e dimenticare il tempo che spesso passa inglorioso (ahim?) per i talenti. Tali, entrambi immodestamente si consideravano Cerne e Abrami soprattutto quando saliva il tasso alcolico nelle loro vene! Il comune desiderio era quello di esaltarsi in compagnia di un?umanitè ai margini della società abbandonarsi anche in polemiche discussioni d'arte e smarrirsi nell'imprevedibilit? L'improvvisazione era il loro credo: spesso anche nel guadagnarsi da vivere. E nella creazione estemporanea di una burla, Cerne e Abrami avevano davvero pochi rivali? L'ispirazione era di routine e se ai due si aggiungeva Franceschini, lo sballo poteva durare una settimana intera! Il rientro a casa era un?possibilit?remota? A sessantè anni erano ancora ragazzini dispettosi e quel giorno, dopo l'inaugurazione di una personale di Emanuele Scalchi, avevano individuato in Mario Martini il soggetto ideale per il loro svago notturno. Tra puttane e ubriachi io e Martini scambiammo le nostre prime parole. A distanza di più di venti anni gli insegnamenti dei filosofi di strada si assaporano in altro modo e sono ancora convinto che la notte riserva sempre stupefacenti sorprese se la compagnia ?variopinta. I due bohemien rimorchiarono Martini perchè lo conoscevano bene e lo consideravano, seppur - intendiamoci - totalmente diverso, uno di loro. In fondo lo stimavano e apprezzavano la sua schiettezza e soprattutto i suoi lavori. Erano consapevoli, pur brilli, che per molte persone tra le quali Mario appunto ? un misantropo o poco via - era un'impresa ciclopica, un affanno interminabile tra tentativi e presunti insuccessi ?semplicemente vivere! Perch?dunque non fargli provare l'ebbrezza della loro vita? La foto che ho in mente di quell'osteria, è ancora indimenticabile: Abrami versava il vino clinto nei bicchieri (e nella miglior delle ipotesi sulle scarpe degli avventori), Cerne che aveva in testa un largo basco di lana coloratissima, teneva gli occhi lucidi fissi in quelli piccoli e scuri di Martini. Aveva in mano il solito carboncino e un foglio bianco di cm 50 x 70 e recitava in piedi, su una sedia traballante, i versi di Costantino Kavafis dinanzi ad un pubblico avvinazzato:
? Se per Itaca volgi il tuo viaggio, fa voti che ti sia lunga la via, e colma di vicende e conoscenze. Non temere i Lestrigoni e i Ciclopi.?
Rivolto enfaticamente il braccio sinistro verso l'incredulo Martini, così declamava:
?O Poseidone incollerito: mai troverai tali mostri sulla via, se resta il tuo pensiero alto, e squisita ?l'emozione che ti tocca il cuore e il corpo. N?Lestrigoni o Ciclopi n?Poseidone asprigno incontrerai, se non li rechi dentro, nel tuo cuore, se non li drizza il cuore innanzi a te.?
Martini ascoltava e storceva la bocca in un sorriso indecifrabile: divertito? tragico? altrettanto canzonatorio? In quell'atteggiamento singolare poteva essere, il soggetto ideale di Leo Kanner, Melanie Klein, Margaret Mahler, Frances Tustin o Donald Meltzr o di Fellini! Cerne (servendosi dei versi del poeta che teneva scritti su un foglietto unto e spiaccicato nella tasca sgualcita di una larga giacca a quadroni) rinforzava l'idea personale che il desiderio di conoscere, di esperire la vita nelle sue molteplici sfaccettature, puòsconfiggere ogni paura e puòdare all'uomo il coraggio di osare, andare avanti, percorrere anche i cammini più insidiosi, sempre che il suo pensiero voli alto, sia cio?sostenuto da un ideale, da un credo che mantenga viva la capacit?di emozionarsi e di appassionarsi. Quanti tra i borghesi - pensava - lo sanno fare? Cerne, in poche parole, esortava Martini a non vedere nemici dappertutto essendo questi realmente spaventosi e temibili solo se li si reca dentro di s?e si consente al cuore rizzarli dentro, ad ogni passo del proprio cammino. I pericoli più temibili per l'uomo, (in questo Cerne era in perfetta sintonia con Kavafis) sono infatti, le angosce che lo macerano, pronti a tradursi in oggetti e situazioni spaventose ad ogni soffio di vento. E? questa la condizione fobica che vede la persona insidiata continuamente dai fantasmi che essa crea. E chi più di Mario Martini ha creato autoritratti fobici che richiamano l'idea terrificante dell'angoscia se non della morte in un possibile, improvviso agguato? Cos?egli mi dice: ?Ho realizzato opere di varia tecnica raffiguranti volti. Prevalentemente il mio, quasi una mistica pietà Sono anche pulsazioni ossessive di perenne denuncia per un mondo circostante estraneo ed indifferente; i volti sono graffiati nel tratto greve del carboncino e, in immagini estreme, si dissolvono parzialmente, quasi a simboleggiare una manicheistica proiezione dell'esistenza verso il futuro ignoto. La produzione di questi soggetti manifesta una lacerante concentrazione introspettiva? Per certo l'espressione afferrata prescinde a momenti dalle sembianze per affondare impietosamente, come la lama di un bisturi, nei segreti della psiche. Per Martini non ha importanza che l'evento paventato abbia scarsissime probabilità di attuarsi in relazione alle circostanze del momento, ma ?la possibilit? in s? in quanto possibilit? che richiama l'idea di quell'evento e rende incombente il pericolo che esso accada. Tutto questo e molto altro ancora conoscevano Cerne e Abrami di Mario e sapevano in fondo che non solo era umile, bravo e discreto, ma per giunta affidabile, disponibile, generoso e innocuo. Talvolta lo fuorviavano dalle sue modalitè comportamentali, dai suoi interessi e attività ristretti, ripetitivi e stereotipati nel rituale del vino. E se a qualcuno in osteria nasceva l'idea di procedere con un vertiginoso e collettivo Capitan Paff, l'integrazione sociale tra Martini e il prossimo era completa! Negli Ottanta Mario Martini viveva una sorta di tragica luna di miele con la sua città Durante i vernissage, dei tardi pomeriggi di sabato, entrava improvvisamente nelle gallerie d'arte e si mescolava tra il pubblico con il passo sicuro di chi conosce i luoghi a memoria. Era sempre solo. Evitava la gente ciarliera e raramente si dimostrava perplesso di fronte alle opere che osservava attentamente. Amava i bambini e se ne trovava qualcuno in sala, allungava la sua magra mano per fargli una carezza sul capo. Quasi a dirgli dolcemente: ?Guarda attorno: qui impari qualcosa che la televisione non insegna!?. Scambiava qualche parola con i conoscenti, con un collega, con un estimatore e non parlava mai di s?e delle proprie opere. In fondo a casa ne aveva decine e decine, ma poco gli importava mostrare le sue tecniche miste, i suoi disegni a china, le sue incisioni e tanto meno esporli o venderli! In genere, la frammentaria conversazione con lui era scomoda e difficile. Martini non aveva coerenza argomentativa e blaterava, spiaccicava dalle labbra sottili e lievemente inclinate su un lato, qualche frase poco comprensibile. Spesso, parlando con lui, non si capiva n?il filo conduttore del discorso n?il suo imprevedibile punto d'arrivo. I suoi discorsi non si limitavano sempre e solo alla pittura locale: se non erudito era tuttavia ben informato e conosceva particolarmente bene soprattutto le tecniche incisorie. Gioiva se tra i presenti c?era qualcuno che parlava di morsure, graniture, maniera nera o mezzatinta, vernici molli o metodi d'incisione. L'ho visto più volte parlare con il compianto dottor Stubel o con l'amico filatelico Armando Bassa. Se nè andava dalle mostre con velocit?furtiva e salvo gli intoppi che di tanto in tanto potevano deviarlo, come quelli indicati, spariva! Spesso si perdeva in qualche angolo remoto prima di tornare a casa. L'su un molo o in una via a fondo cieco o sotto un semaforo lampeggiante i suoi piccoli occhi sempre vigili, mobili in quel volto asimmetrico tormentato, fissavano il vuoto. Non ?dato sapere cosa catturasse il suo pensiero. Durante la settimana si recava alla scuola dell'Acquaforte, spazio non istituzionale, dove si esprimeva con le mani: l'unica cosa, forse, che sapeva fare con disinvoltura e vera maestria. La scuola intitolata a Carlo Sbis?non era n?studio del Maestro n?luogo di dibattito, bens? officina di una particolare forma espressiva, quella calcografica. L' Martini aveva una rete di amicizie, poteva esprimersi, osservare i risultati degli altri, proporre, suggerire aiutare i novizi. E? stato faber nella Scuola Libera di Trieste; l'poetica e linguaggio erano congiunti insieme nell'insegnamento come metodo e criterio di giudizio sulle opere prodotte in quell'ambito dagli allievi. In compagnia di Mirella Schott Sbis?moglie di Carlo, Martini ha senzè altro contribuito, a formare nuove leve d'artisti a livello non solo giuliano o regionale. Rendergli omaggio in queste pagine mi sembra cosa doverosa proprio perchè egli, a differenza d'altri artisti, non ha chiesto niente a nessuno, n?preteso, n? promesso. Sia la nostra testimonianza un riconoscimento alla sua dedizione e un segno di stima e di rispetto per ciè che egli ha lasciato. Cos?scriveva tempo addietro Giulio Montenero: ?Mario Martini resta un isolato. Non per il carattere affettuosamente disponibile alla collaborazione, al prestare il soccorso della sua - individuabile bravura tecnica ? anche ai principianti, ma per l'intima malinconia dello spirito. Un atteggiamento che coglie, direi inevitabilmente, la contraddizione del momento storico presente, fra lo slancio verso l'efficienza e la libert? la volont? d'essere se stessi, di realizzarsi, e la sazietàdi tutto il già visto e fatto, il bisogno di rifugiarsi fra antiche ombre amiche, ancorch? tragiche. Martini ?spinto ad agire in gran fretta, deve incidere la lastra come se a lui e a noi tutti fossero concessi soltanto pochi attimi d'esistenza, Martini ? malgrado le apparenze contrarie, un artefice spasmodicamente attaccato alla tradizione, perci?scava con il sogno nelle profondit?di uno spazio oscuro ed insondabile, sovrappone gli interventi del bulino, la finitura della puntasecca, sulle vaporose nubi dell'acquatinta e sulle raffinate trame dell'acquaforte. E ad ogni tecnica incisoria fa corrispondere unè adeguata inchiostratura, talvolta nei solchi, altrove sulle sporgenze granulose ottenute con trattamenti al carborundum. Gli accorgimenti esecutivi appaiono alla fine fusi e compenetrati sul foglio, mentre dai trapassi chiaroscurali fra positivo e negativo, fra tracce nette e quelle sfumate, viene fuori la complessit?di uno spazio ricchissimo d'emozioni. Sono segni paralleli che connotano coltri di pioggia e insabbiarsi d'orizzonti, segni che sono raccolti e unificati da una violenta sventagliata di fasci chiari dipartentesi da un angolo. Martini non puònon essere astratto. C??troppo da dire e non ?dato di dirlo rinchiudendosi nelle circostanze limitate di un soggetto veristico. Un punto nodale: le sue scostruzioni, l'inevitabile distruzione che viene dalla fede romantica, dal patos individualista, e che soltanto l'umbratile addensarsi delle sensazioni e dei ricordi frena nella sempre paventata vigilia di una totale e rovinosa caduta?. Ma come iniziò la carriera artistica di Martini? Classe 1923, fu avvicinato all'incisione da Angelo Filippucci che fu poi assunto all'Albertina di Vienna. Inizia così a raccontarsi Martini: ?Erano anni difficili. In un bombardamento del 1944 perdemmo tutto, eccetto i materassi e ci trovammo a vivere, sette donne ed io, da sinistrati.? Trascorrere le giornate, da solo maschio, con sette donne tra le pareti domestiche (nonna, mamma, tre zie e due sorelle) poteva garantire una gradevole sensazione di protezione, ma necessariamente anche il disagio di una troppo ingombrante presenza femminile. Il padre era morto nel 1945 quando già il giovane aveva incominciato a creare le sue opere da autodidatta. ?Fin da giovane ambivo rappresentarmi nell'astratto: movimenti, masse materiche, luci, colori e spessori. Li visualizzavo e realizzavo come fossero sostanze atte a costruire muri, pareti perimetrali, malte e cementi?. Le sue esposizioni, la sua partecipazione a rassegne e mostre sono state sempre scarse; generalmente Martini si ?presentato al giudizio del pubblico in esposizioni collettive con gli allievi della Scuola dell'Acquaforte. Volutamente (o forse inconsapevolmente) si ?tirato fuori dalla perenne tenzone dell'apparire per essere. Nell'acquaforte e nell'acquatinta dove si è cimentato infinite volte, dimenticata la costruzione degli schemi del mondo tangibile, si ?orientato nell'esperimento di esprimere emozioni solo con la forma e il colore. Anche per mezzo di queste tecniche egli è accostato all'informale alla fine degli anni Sessanta e anche in seguito ha dato libero sfogo all'immaginazione. Egli ?riuscito a creare gradevoli suggestioni pur mantenendosi intenzionalmente in un ermetismo quasi autistico. L'ultima novit?è che tra pochi giorni uscir?il catalogo (curato da Art?e stampato da Battello) della donazione delle opere grafiche del maestro fatta da un mecenate alla Triennale Europea dell'Incisione. Oggi la Triennale (che trova tra i suoi fondatori Giuseppe Zigaina), compie i venticinque anni e il tributo a Martini costituir?parte dei festeggiamenti. Le opere incisorie saranno esposte nel mese di gennaio 2007 presso i Musei di Udine.
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