Ordine ed equilibrio nelle tempere di Marino Sormani

 

Marino Sormani (Trieste 1926 - 1995)

 

 

Walter Abrami

 

 

 

 

Marino, io e tra noi il fumo diafano, fluttuante, spiraliforme, evanescente e con lui maledettamente "vendicativo" di due sigarette accese: la sua di marca francese, la mia più lunga e sottile.

Tra le dita della stessa mano, sotto il cielo plumbeo o talvolta stellato.

“Sozza abitudine” l’ha definita Zeno nella sveviana Coscienza.

Ci siamo trovati spesso così l’artista ed io, entrambi in piedi davanti le ampie vetrate luccicanti di una galleria d’arte, qualche foglia gialla, secca, rumorosa sotto le suole delle scarpe, la cenere delle sigarette sospesa, in bilico.

Vagamente illuminati da un lampione appeso e oscillante sui cavi alti paralleli alla via, nel freddo inverno o, ricordo, nel tepore di una sera di primavera.

Sempre verso le diciannove, sempre di sabato, giornata abituale di tante inaugurazioni artistiche, di passate manifestazioni.

Tempo dimenticato in fretta, occasioni d’incontro e di scambio d’opinioni con i pittori più noti del Friuli Venezia Giulia, affossate inesorabilmente dai repentini cambiamenti di gusto, da un disinteresse del pubblico alimentato dalla confusione e dagli incerti valori commerciali oltre che da nuove mode: strano che alcuni "esperti" attuali, non si vedevano affatto il sabato sera…

M’incontravo con Marino in via Marconi a pochi passi dal Giardino Pubblico o nel "ghetto ebraico" presso la bottega di Mario Bravin, quella di qualche modesto rigattiere o del libraio Misan; quando l’esposizione era più importante, nei pressi di Palazzo Costanzi o in Piazza dell’Unità: all’orizzonte il mare e la luce violacea del cielo.

Il "Revoltella" era malauguratamente chiuso; vicissitudini vollero che Sormani divenisse in seguito uno dei membri del Curatorio…strano per un competente vero!

Altroché Direttrice, sigla d’identificazione bibliografica, progetti vari, computer, mostre tematiche e personali di richiamo, conferenze, decantati artisti americani e …balle di varia misura confezionate con volonterosa, brava manovalanza.

Conobbi Sormani agli inizi degli anni Ottanta: accadde in occasione di un affollatissimo vernissage di una mostra personale del suo caro amico Livio Rosignano.

Qualcuno mi aveva indicato l’artista che desideravo conoscere e mi avvicinai: Marino se ne stava distratto sul marciapiede, quel suo lungo ciuffo spiovente sulla fronte che la mano di tanto in tanto spostava lateralmente liberando dall’ ”ingombro” il sopracciglio destro.

I suoi dipinti mi erano già noti e li apprezzavo molto; la sigaretta fu un’esigenza, forse un pretesto inconsapevole…

Marino in quell’autunno mi ricordò qualche attore americano degli anni Cinquanta che mi era piaciuto da ragazzo sul grande schermo del "Fenice": indossava una giacca di tessuto spinato e sotto una maglia, forse una "dolcevita" leggera.

Mi colpì la sua gentilezza e l’eleganza dei modi, ma dopo aver scambiato qualche frase con lui, dopo alcune osservazioni pertinenti i quadri ammirati, ebbi la sensazione, se non di averlo disturbato, di averlo costretto, suo malgrado, ad abbandonare un proprio pensiero.

Chissà, forse stava ripercorrendo un momento della sua vita trascorso con Livio in via Solferino a Milano o nello studio di via Giulia che avevano diviso con Oreste Dequel prima del sopraggiungere di Ireneo Ravalico e di Vincenzo Cianciolo.

Probabilmente pensava alle frivolezze di qualche complimento inutile al quale un pittore introverso come lui, sarebbe stato ancora una volta obbligato, di lì a poco, con qualcuno dei presenti.

Convenevoli ai quali mal si adattava e che non gli piacevano.

Un lungo silenzio seguì quelle sue parole incisive, secche; anche la conversazione “sintetica” di Sormani, senza fronzoli o vocaboli superflui, ricordava spesso l’ espressività ordinata, ma tagliente e diretta del suo fare pittura.

Sono sue queste parole:

 

Credo in certi principi. L’ordine è quello con la O grande. Sono quadrato, severo con me stesso. Ma entro certi limiti, a volte devo assolvermi. Lavoro tutto il giorno. La mia tecnica richiede tempo. Non sono un pittore di getto, il mio impegno è minuzioso” (“Il Meridiano”, 24/11/1983).

 

Le sue tempere realizzate su tavola in una quindicina d’anni (1960/1975) e meglio riuscite - quelle monocrome o monocordi eseguite sulle superfici di compensato adeguatamente preparato con il gesso e graffiato con la lana d’alluminio - sono le più rappresentative perché raccontano il paesaggio invernale.

Non poteva essere diversamente perché la grafia logica essenziale di un albero, di una dolina, di una vite spoglia era ciò che il suo istinto coglieva ed egli trovò soprattutto nei mesi che vanno da dicembre a marzo le soluzioni artistiche a lui più confacenti.

Rese così in pittura, artista di gusto raffinato, trasognate e metafisiche modeste case, umili ma razionali agglomerati suggeriti ai muratori dalla miseria.

I contadini sloveni o i proprietari italiani d’appezzamenti di territorio invece, quelli delle infinite diatribe politiche sui tavoli delle osmize o in alcune maleodoranti bettole rionali e di periferia davanti al solito bicchiere di vino, proprio quelli, Marino non li dipinse mai.

E fece bene!

I recinti dei piccoli poderi, (ma anche i vigneti, gli steccati e i radi alberi) viceversa, sono frequentissimi nei suoi dipinti; le mura divisorie, simboli inamovibili di piccole o vaste proprietà agresti e di “potere” contadino, nei quadri di Sormani sono ridimensionate e “purificate”; le strutture di pietre pazientemente incise sono abbassate progressivamente in maniera obliqua e sono ridotte in fine ad un solo blocco, rettangolare, squadrato.

Le piante di vite e gli alberi dipinti sono note poetiche per gli intrecci dei virgulti, per i rami contorti e ancor più per il delicatissimo effetto di trasparenza ottenuto dalla tempera all’uovo.

In rare occasioni il pittore osservò e colse in pittura Giocatori di bocce (con un taglio originale che riprendeva solo le braccia, le gambe, le scarpe e ovviamente le sfere e il pallino), ma si limitò a quelli o a qualche pescatore che ripara le reti su un molo o accanto a un carro, a una barca rovesciata, a una bicicletta, ad alcune cassette vuote.

Durante il devastante terremoto del Friuli che impressionò tutta la popolazione della Regione, Sormani si commosse e dipinse un muro semidistrutto e sotto, in una strada, presso le macerie, due uomini pronti per andarsene con accanto le loro valige…

Anni dopo Marino disse in un’intervista:

 

Non sento il bisogno della figura. Penso che l’uomo si può rappresentare anche attraverso una porta socchiusa, una tazzina di caffè sul tavolo, un giornale che attende di essere letto. E’ sufficiente, per me, lasciar parlare gli oggetti”. (“Il Meridiano”, 24/11/1983)

 

Uomo di parole schiette, essenziali dunque, Sormani mantenne le caratteristiche della gente un po’ rude, del Carso.

 

 

Walter Abrami