Lo stile impero
Alessandra Doratti
Il gusto napoleonico del primo ottocento
La fine dell'Ancien Régime, che coincide in Italia col tramonto del
'700, non segna come in Francia l'inizio di un'epoca di nuova
creatività. Le nazioni della penisola sono infatti esauste dopo lotte
intestine e continui aneliti libertari che inseguono le orme della
Rivoluzione francese. Ma la libertà raggiunta in Francia imporrà
all'Italia un vero e proprio giogo che deluderà lo spirito dei patrioti.
I primi quindici anni del secolo vedono infatti affermarsi minuscoli
imperi retti direttamente dai congiunti di Napoleone e indirettamente
dalla burocrazia e dalla corte parigina.
Ogni palazzo viene arredato in modo che riecheggi, se non addirittura
copi, quanto si fa nelle regge francesi. In taluni casi si va oltre: per
stanze destinate agli eventuali soggiorni della famiglia imperiale si
inviano mobili e suppellettili dalla Francia.
Nelle corti italiane
arrivano gli arredi direttamente da Parigi
Così, per fare un esempio, quando si pensa a ridecorare l'antica dimora
dei Papi al Quirinale (detto allora Palazzo di Monte Cavallo) non solo
si impiega un vero e proprio esercito di artefici e artigiani italiani
ma da Parigi giungono interi finimenti di preziosi arredi. In un caso
questi mobili vengono tolti dal gabinetto di lavoro dell'Imperatore al
Palazzo delle Tuileries: sono opere di Thomire, di Jacob, arazzi della
Savonnerie, che non fanno in tempo ad essere di nuovo sistemati a Roma -
eravamo nel 1813 - e vengono poi traslocati a Napoli pochi mesi dopo da
Murat. E a Napoli e a Caserta si trovano ancora oggi, essendo serviti
poi al Borbone, una volta raschiate le fatidiche N e le sempiterne api
imperiali. Questi mobili francesi furono copiati ed imitati dagli
ebanisti e dagli intagliatori italiani.
Forse il contributo più originale dei mobilieri italiani dell'epoca
Impero è quello del fiorentino Giovanni Socci. Egli è autore certo di
una serie di "segreterie meccaniche" (come venivano dette allora),
destinate alla corte toscana. Mobili a trasformazione particolarmente
ingegnosi, vantano proporzioni impeccabili, esecuzione accurata e grande
intelligenza funzionale. La più bella di queste segreterie si trova oggi
a Fontainebleau, ma fu probabilmente approntata verso il 1807.
L'impiallacciatura è di mogano piallato e con le venature disposte
verticalmente su schiette specchiature convesse; il solo ornamento è
affidato a casti cigli dorati mentre il piano d'appoggio è rivestito di
una rara pietra dura, la cosiddetti nefritica d'Egitto. Il Socci fa in
modo che il suo mobile si chiuda ermeticamente, quasi come un uovo, per
poi aprirsi per mezzo di curiosi congegni: il piano si sdoppia e slitta
per svelare l'occorrente per scrivere e uno dei lati convessi del corpo
centrale indietreggia e diventa sedile. L'aspetto esterno dell'arredo è
piuttosto singolare: memore seppur vagamente, di certe ideazioni degli
architetti visionari dell'Illuminismo, e più specificatamente dei mobili
spogli degli ebanisti del tardo Luigi XVI e del Direttorio, sembra
preludere di colpo alla secca eleganza dell'Ars Déco. Sono pochi però i
mobili italiani che raggiungono una così alta invenzione e questo è
comunque il solo lavoro del Socci che possa paragonarsi vantaggiosamente
a quanto si faceva allora in Europa.
Con la Restaurazione e l'inizio di quello che potremmo definire l'impero
della borghesia, si hanno in Italia due correnti parallele, e, si
direbbe, quasi antitetiche. Da una parte lo stile Impero non sembra
subire mutazione alcuna e continua a produrre mobili impiallacciati in
mogano, con rifiniture in bronzo dorato (o in legno dorato) ubbidendo
sempre ai dettami di una linea dritta e della più rigorosa simmetria.
Dall'altro canto fa capo una sensibilità più dolciastra, più leggera,
più femminea in cui le sagome Impero vengono messe al forno. L'anima
resta rigida ma i contorni incominciano a sciogliersi, la curva ad
insinuarsi, i legni a schiarirsi, i bronzi a scomparire. Talvolta
l'insieme, si direbbe, resta Impero mentre ogni singolo particolare
volge ad una nuova sensibilità che tradisce il rigore mitologico e
classicistico della nuova architettura.
Uno stile Impero più ammiccante a dotte meditazioni archeologiche, è
quello proposto dall'ornamentista veneziano Giuseppe Borsato
(1771-1849): nella sua opera ornamentale del 1831 si vedono progetti per
arredi di vario tipo, sempre eleganti, ma non per questo meno
professionali. La sua versione dell'antichità non è davvero molto
estrosa: egli trascrive e annota scrupolosamente, ma aggiunge scarse
novità al vecchio. Si è persa la chiave poetica dei grandi lirici
settecenteschi (Piranesi) e non si riesce a togliere un'aura di prosaico
accademismo a cattedre e seggi romani tradotti in oscure essenze.
Assai più leggiadro è il repertorio di modelli del contemporaneo Pelagio
Palagi (1775-1860), bolognese, ma attivo nel campo dell'arredamento per
la corte dei Savoia a Torino. Artista più eterodosso e più colto,
proprio per questo riesce più convincente. Nei mobili in cui ricalca,
modificandola completamente, la lezione pittorica de vasi vascolari
greci, risulti grazioso, quasi ironico; in altri in cui si accosta ai
mobili in legni chiari intarsiati di bruni dello stile Carlo X, frivolo
ma sempre calibrato.
Se si guardano alcune fotografie dei mobili che illustrano questo
periodo si noterà che nell'Ottocento si continua assai spesso ad
utilizzare una tecnica fra le migliori dell'arte italiana, la tarsia.
Nel primo Ottocento infatti, la tarsia va in disuso nelle capitali più
aggiornate, Londra e Parigi, dove si prediligono semplici
impiallacciature roboanti di applicazioni e rifiniture dorate. In Italia
è vero, lo stile Impero impone un po' ovunque questi stessi principi di
gusto, ma nel contempo si continua ancora a favorire questo mirabile
retaggio.
Fino alla morte il maggiore intarsiatore italiano dell'epoca
neoclassica, Giuseppe Maggiolini, continua a fabbricare arredi ornati
coi suoi squisiti pannelli che indubbiamente avranno fatto un curioso
contrasto con mobili più sobri - francesi e italiani - della corte di
Eugenio Beauharnais. Ancora ai primi del secolo anche il più dotato
allievo del Maggiolini, il cremonese Giuseppe Maffezzoli, orna di
superbe tarsie mobili dalle sagome ponderose, incerte fra lo stile Luigi
XVI e quello più solenne dell'Impero. Dopo gli anni Venti si diffonde
nella penisola il gusto della Restaurazione (quello che oggi si dice
Carlo X) per i legni chiari, intarsiati con leggeri motivi vegetali o
geometrici di essenze più scure come il palissandro o l'amaranto: non
sono certo cose molto originali ma talvolta, come in quelle disegnate
dal Palagi di cui si è prima detto, l'effetto finale è assai gradevole.
Poco dopo si ritorna a favorire fondi cupi per le tarsie: ora però si fa
ricorso al passato (iniziano i revival che caratterizzano il tardo
Ottocento) e vedremo ricomparire mazzi di fiori, ghirlande, farfalle e
uccellini nei più svariati legni punteggiati di avorio e allietati
dall'iridescenza della madreperla. Forse i migliori artefici che si
dedicano a questo tipo di decorazione schiettamente seicentesca sono due
fiorentini, i fratelli Angiolo e Luigi Falcini, che contano fra i propri
clienti i più facoltosi esponenti della aristocrazia, come i Demidoff.
Soldi per la patria e a metà secolo l'arte resta povera
Si giunge così alla metà del secolo. Epoca non felice per l'arte in
Italia anche se oggi si cerca di evitare la drastica damnatio memoriae,
decisamente ingiusta, a cui l'intero periodo era stato sommariamente
condannato. Non tutto quello che allora si approntò è pessimo, per
quanto non si possa nascondere che forse nessuna opera d'arte figurativa
del pieno '800 ha il carisma sentimentale del Risorgimento o
l'inarrestabile forza sanguigna delle opere del Verdi.
Non era quello il momento di pensare ad arredi e decorazioni per quanto,
paradossalmente, pochi momenti videro più addobbi di quelli. Solo che la
porporina si sostituisce all'oro, le stoffe drappeggiate ai grandi
affreschi murali, la finzione alla verità. Fattori economici inutile
dirlo, giocano la loro parte: il Paese pensa ad altro ed esaurisce le
proprie finanze nelle lotte per l'indipendenza.
Sono pochi, è vero, i grandi ingegni e così gli interni italiani
sembrano traduzioni un po' provinciali di quelli francesi. La provincia
però ha un suo incanto, sebbene sia un piccolo incanto. Il gusto
Napoleone III non è apprezzabile se gli si tolgono piante, profumi e
cibi: quelle stanze sontuose - almeno in apparenza - sembravano fatte
apposta per la degustazione di vini, liquori e pietanze prelibate.
Fa ancora capolino, molto timidamente qua e là, qualche vaga memoria
dell'antichità, ma si tratta di una visione annebbiata o quantomeno
polverosa.
Alessandra Doratti