Agli inizi del XX secolo il Beethoven di Balestrieri fu
sorprendentemente uno dei dipinti più noti e di maggior successo;
Balestrieri, dopo alcuni precedenti tentativi tra i quali l’opera
intitolata Aspettando la gloria d’impronta morelliana, lo dipinse
lentamente, faticosamente e compiutamente come ora ci appare, all’età di
ventotto anni: quando la sua tela di notevoli dimensioni (cm. 202 x
420!) ottenne il massimo riconoscimento all’Esposizione Internazionale
di Parigi del 1900, probabilmente fu primo il pittore a sorprendersi
della medaglia d’oro assegnatagli dalla giuria.
L’incantevole paesaggio del parco Terrosi e della Val dell’Oro col Monte
Cetona sullo sfondo che giovanissimo aveva lasciato e anche le vicine
Chiusi e Siena, erano ormai un bel ricordo.
Tuttavia, nella Francia che egli aveva sognato e che amava nonostante le
sofferenze trascorse nei primi anni del suo arrivo, non gli fu
risparmiata qualche fastidiosa recensione: tra gli altri Leon Benedicté,
critico della Gazzette des Beaux Arts, forse intuendo il lavoro
ossessivo del Balestrieri per finire il dipinto, gli rimproverò "troppo
studio, troppa costruzione".
Non fu l’unico a disapprovarlo poiché anche qualche collega invidioso
ritenne eccessivo il premio.
Certo è, in ogni caso, che l’opera piacque complessivamente per
l’originalità del soggetto; purtroppo il Governo Italiano non la comprò
in Francia durante o immediatamente dopo l’Esposizione (acquisto
auspicato dall’artista!), tuttavia un astuto editore tedesco acquisì il
diritto di riprodurla.
Le successive incisioni realizzate dallo stampatore la divulgarono
ulteriormente in Europa.
Nel 1901 il Beethoven fu esposto alla IV Biennale veneziana e in
seguito l’artista vendette l’opera per 5000 lire al Museo Revoltella di
Trieste dove rimase.
Molti colleghi, soprattutto dilettanti, copiarono il fortunato dipinto
fin dalle sue prime apparizioni ed ancor oggi è abbastanza facile
trovare nelle soffitte, nelle cantine o sulle pareti di dimore triestine
copie non firmate.
L’autore, che aveva concesso ingenuamente i diritti di riprodurre il
Beethoven all’editore tedesco per una cifra irrisoria, non poté
concederli ad altri ed ebbe una lunga corrispondenza con il curatorio
del museo triestino affinché fossero impedite altre copie di qualsiasi
genere.
Cosa che in realtà non avvenne!
Nel 1902 Balestrieri si dedicò allo studio dell’incisione poiché con
questa tecnica, altri avevano copiato - a suo avviso in modo pessimo -
il Beethoven.
Compì lavori in puntasecca, all’acquaforte e all’acquatinta fino a
scoprire un metodo abbastanza originale attraverso il quale abbinava
bulino e pennelli.
Sembrò tutelarsi ancor più quando eseguì con le proprie mani
un’incisione riaffrontando il soggetto pittorico premiato: evitò così
fastidiosi, ulteriori, possibili equivoci.
Fino al 1914 realizzò parecchie altre incisioni: affrontò temi diversi
Il bacio, Il monte di pietà, Il gelo, In viaggio, Boulevard Pereire,
alcuni soggetti religiosi ed altri letterari Carlotta e Werther,
Tristano e Isotta, Parsifal, Scena del Tannhäuser.
Non vanno infine dimenticati i lavori eseguiti in Bretagna Preghiera,
Leggenda, Naufragio che anticipano alcuni felici temi dello
sventurato Gino Rossi (Venezia 1884 – Sant’Artemio di Treviso
1947). Tra i suoi editori (stampatori) vi furono tra, Carl Lebeau di
Heidelberg, Dietrich e C. di Bruxelles, George Petit, Robert Arnot,
Hautecoeur di Parigi.
C’è stato chi, sul piano dell’intuizione critica e dell’ipotetico
confronto, ha voluto paragonare l’iter e il successo di Balestrieri a
quello del romanziere francese Henry Murger ( Parigi 1822 – 1861)
affermando che i dipinti del nostro non sono altro che il riflesso
d’alcuni brillanti spunti dello scrittore che testimoniano l’insorgere
del mito di un’epoca.
Entrambi furono d’estrazione sociale assai modesta (il padre di
Balestrieri fu muratore, quello di Murger portiere), ebbero un percorso
iniziale difficile e conquistarono la notorietà: entrambi sono oggi
pressoché dimenticati e inesorabilmente superati.
Nelle Scene della vita di bohème (leziose e squilibrate nella
composizione e adattate per il teatro da T. Barrière), pubblicate tra il
1847 e il 1849, Murger ottenne un grande successo presso il pubblico
borghese, specialmente femminile, per le sue cadenze sentimentali perché
no, accattivanti e disincantate. Se le Scene di giovinezza del
1851 non gli assicurarono l’agiatezza economica, contribuirono a
garantirgli la collaborazione con la stampa più importante.
Lo stesso, più o meno, accadde a Balestrieri dopo il clamore suscitato
dal suo Beethoven a Parigi!
Anche in altre opere di Murger la pittoresca fauna umana del Quartiere
Latino, di Pigalle o di Montmartre "non solo non è analizzata (e
demistificata) secondo le indicazioni teoriche che la coeva scuola
realista viene fornendo, ma addirittura diventa argomento di maniera,
prodotto destinato al consumo del pubblico borghese".
Ne tenne conto il pittore di Cetona quando tratteggiò le figure di un
gruppo di bohémiens raccolti nel misero, ma affascinante studio di un
pittore (uno di loro?) accanto a due musicisti che suonano
rispettivamente il pianoforte e il violino?
Dipinto di "poetica suggestione" e di drammaticità latente che oscurò in
parte il quadro di Giovanni Segantini che gli era appeso vicino, nel
padiglione italiano.
Opera, quella di Balestrieri, capace di interpretare più di altre un
momento generalizzato del gusto e del costume in una comune, romantica,
situazione parigina di malinconica modernità; revival di pagine già
"maledettamente" scritte, pure interpretate musicalmente, verso la fine
del secolo da Giacomo Puccini e rese dense di significati anche dai
pennelli intrisi di colore di Balestrieri.
Dopo l’insuccesso della prima rappresentazione al Teatro Regio di Torino
il primo febbraio del 1896, la musica di Puccini entusiasmò e l’opera
mantiene ancor oggi tutta la sua freschezza.
Puccini introdusse nella Bohème una quantità d’innovazioni: vi
affermò anche il diritto di drammatizzare la vita quotidiana così come
fece il Balestrieri nella sua gran tela.
Puccini trattò i problemi in apparenza più semplici contro lo sfondo di
un sentimento esistenziale tragico, così come il pittore lo lascia
intuire nell’uomo seduto, disperato, reclino con la testa tra le mani
che sembra non ascoltare affatto la musica!
Eppure quella musica si sente e l’archetto del violinista, illuminato,
vibra!
Anche l’unica giovane dipinta nel quadro, semidistesa e abbandonata
obliquamente sul letto, riconduce a Mimì.
Languida nello sguardo, appoggia il capo sulla spalla del compagno, ma
guarda lontano, quasi persa nell’effetto del laudano.
I passaggi pittorici sono volutamente e sapientemente cadenzati: a
sinistra la luminosa veste e il rosso della lunga gonna della giovane
c’introducono nella penombra frontale che finisce drammaticamente nel
buio di destra.
In modo più palese essi sono evidenziati dallo stacco deciso creato con
una frattura di colori tra il miserevole pavimento ad assi di legno e i
margini dello stesso.
Pause dunque tra un dramma e quello successivo, intervalli di colore tra
una figura ed un’altra che accentuano la solitudine di ognuno dei
rappresentati e la loro "metafisica" stanchezza.
Isolamento di uomini-automi, figure riassorbite dall’atmosfera tenebrosa
e triste che si collocano in uno spazio in parte definito, fiori del
male che si proiettano e anticipano la nausea universale, non
esclusivamente parigina.
All’ombra della Torre Eiffel, Balestrieri era giunto da Napoli dove
aveva frequentato la scuola privata di Gioacchino Toma; fu forse
influenzato da Domenico Morelli che nel 1901-1902 ricordò
affettuosamente in un acquerello e qualche anno dopo nel dipinto ad olio
intitolato Le ultime ore di Morelli (1905).
Nella capitale l’artista italiano aveva fatto la fame, aveva subito le
prime vere delusioni (non fu accolto al Salon nel 1897) e solo in un
secondo momento aveva lavorato per L’Illustration, Le Soleil du
Dimanche, Petit Journal e Figaro Illustré disegnando vignette
ed altro.
E da Parigi, dopo il successo, Balestrieri se ne tornò in Italia.
Le numerose richieste di bozzetti, di studi, di disegni da parte di
collezionisti, musicisti, circoli vari e associazioni, gli crearono non
pochi guadagni, ma certo anche qualche comprensibile fastidio.
Nel 1906 Balestrieri fu eletto alla presidenza della Società degli
Artisti Italiani a Parigi.
Negli anni seguenti egli espose costantemente nei Salon parigini, in
Germania, in Belgio in Spagna, in Inghilterra, in numerose altre mostre
internazionali (anche in Sud America a Buenos Aires) e partecipò alle
Biennali veneziane del 1907 e 1909 senza mai superare quel primo,
singolare, illusorio momento di gloria duratura.
In Francia realizzò Il monte di Pietà, Brasserie à Montmartre, Il
violinista del Beethoven, Davanti al caffè all’aperto, I lavori della
metropolitana, Il 14 luglio a Parigi, Andando a teatro, Paesaggio nei
dintorni di Parigi, Piazza della Madeleine, Veduta della Senna,
Suonatore d’organo in Bretagna, Lavandaia e Giardino.
Soprattutto il primo quadro di questo rapido elenco, desolante e
angoscioso nel tema trattato dal pittore, è soggetto tra i meglio
interpretati e riusciti e sebbene lo studio prospettico sia in esso più
accentuato, sebbene il contrasto chiaroscurale rimandi al Beethoven
non ebbe, alfine, il medesimo successo.
In qualche altro dipinto, ne è esempio la Toletta della bambola, egli
guardò al pittore Armando Spadini e, come il fiorentino, elaborò un
luminoso naturalismo impressionistico.
Tornato frettolosamente in Italia prima del conflitto mondiale, andò a
Napoli dove ebbe un incarico presso l’Istituto di Industrie Artistiche;
gli anni della guerra, le mutate condizioni, la nuova attività lo
distolsero dal cavalletto.
Nel 1923 strinse amicizia con Plinio Nomellini, allievo del Fattori che
approdò al divisionismo prediligendo temi politici e con Enrico
Prampolini pittore, scultore, scenografo e teorico dell’arte.
Fu quest’ultimo, uno dei protagonisti del futurismo in Italia, ad
influenzarlo non poco. I tre si recarono spesso nella meravigliosa Capri
degli anni Venti per discutere non solo di arte, ma anche dei Sindacati
pittori e ancora…della Marcia su Roma.
Nel decennio seguente Balestrieri vi ritornò spesso da solo per
dipingere Rocce, Una strada, Paesaggio e diversi altri scorci
mediterranei.
Nel dicembre del 1925 tenne una mostra personale alla Galleria Pesaro di
Milano dove furono esposti 86 quadri, tra i quali alcune novità
futuriste e 26 incisioni.
Il collega Carlo Carrà apprezzò il suo rinnovato entusiasmo e anche una
parte della critica militante riconobbe il suo sforzo di cambiare. Sensazioni musicali, L’officina, Penetrazione, Lotta tra spirito e
materia e Dinamismo di linee, forme e colori segnano la sorprendente
svolta del cinquantatreenne pittore.
Ma fu vero desiderio di rinnovarsi o scontata adesione politica?
Se veramente convinto dal neo-nato movimento, il pittore avrebbe potuto
condividerne gli ideali già a Parigi, ben prima di far ritorno in
Italia!
Tuttavia Balestrieri si convinse che "un uomo che impersona tutti gli
entusiasmi della stirpe, attua in politica l’idea futurista".
Nacque da questi principi il Ritratto di Mussolini esposto prima
a Napoli e poi alla XV Biennale veneziana, ma il pittore, quello degli
esordi, quello che piacque soprattutto al pubblico, nell’intimo non si
allontanò da quel suo primo sentire e si lasciò influenzare, se non
proprio travolgere dalla "moda".
Pur nel 1929 eseguì l’Autoritratto in piedi nel quale si
preoccupo' sia della propria immagine (si notino la cravatta, la
pettinatura e i baffi assai curati) che dell’ambiente di lavoro ormai
molto differente da quello scapigliato degli anni francesi.
Autoritratto diverso da uno simile nel quale il suo aspetto è più
naturale e dimesso e nel quale si ritrae in pantofole.
La partecipazione alla Biennale del 1930 segnò il definitivo declino ed
Antonio Maraini, il segretario delle esposizioni veneziane che in quegli
anni era una delle principali autorità nazionali, stroncò le eventuali
speranze future dell’artista.
Oso dire che neanche i suoi possenti Treni, lanciati in corsa sulle
rotaie, mantengono quella vitale ed umile energia degli esordi.
Il pittore tornò sui suoi passi e riabbracciò la pittura figurativa
lasciandoci ancora qualche pagina di buona pittura come alcuni suoi
autoritratti, qualche piccolo paesaggio della collina di
Camaldoli o del Golfo di Pozzuoli.
Per realizzare alcuni dipinti si servì di fotografie e ritrasse qualche
conoscente e qualche committente, in verità sempre più raro.
Dopo la morte della moglie anche Napoli dovette sembrargli grigia; tornò
per qualche breve periodo a Parigi, soggiornò a Roma e raggiunse infine
Cetona.
Continuò a cercare angoli pittorici tra i suoi ricordi giovanili e
dipinse Cetona vista dalla terrazza della scuola, Bosco fitto, Il
cipresso e le vicine campagne dove querce ed ulivi dovettero
sembrargli i fantasmi del passato.
I tempi erano notevolmente cambiati ed egli faticava a trovare gli
spunti di una volta.
Forse è ora più interessante di altri, almeno nel soggetto che fu una
novità, la tela del 1954 intitolata Alla televisione nella quale
dipinse i numerosi avventori di un locale pubblico davanti lo schermo
dell’apparecchio posto in alto nella sala. Soggetto che piacque in
quegli anni Cinquanta anche al pittore triestino Livio Rosignano.
Nel 1965 la Casa d’Aste Geri mise in vendita in diverse tornate più di
quattrocento opere dell’artista (disegni, dipinti ad olio, acquerelli,
stampe a colori) provenienti soprattutto dallo studio di Cetona.
I dati testimoniano solo in parte la sua operosità: Balestrieri fu
sicuramente un pittore onesto, un disegnatore capace, ma come molti
altri del resto! Osservando alcune sue figure tratteggiate a matita,
ricordo più di altri alcuni soggetti di Enrico Fonda che rispetto al
pittore di Cetona, mi si consenta, ebbe una maggior sensibilità
coloristica e fu assai più sfortunato.
Solo due anni fa la Fondazione Lionello Balestrieri (che nella sua città
natale conserva presso l’archivio della Biblioteca comunale vari
documenti, corrispondenza, articoli, ecc.) è riuscita a ricordarlo
degnamente: è stata pubblicata con alcuni contributi una confusa
monografia ed è stata realizzata una mostra che da Cetona è poi giunta
orgogliosamente e meritatamente a Firenze.
Furono forse queste due rassegne l’ultimo definitivo saluto al pittore:
e che egli ne gioisca, come una rondine, in cielo. Rondine davvero
sperduta!