Un’incantatrice del Novecento
Leonor Fini (Buenos Aires 1908 - Parigi 1996)
Walter Abrami
Ho sempre pensato che il lembo di terra più adatto a raccogliere le spoglia di Leonor Fini avrebbe potuto essere la Recoleta di Buenos Aires anziché uno dei decorosi cimiteri parigini di Pére Lachaise o Montmartre o Montparnasse? In fondo non so dov’è sia stata sepolta. Perché proprio la Recoleta dove tra i ricchi faccendieri argentini e i militari è sepolta anche Evita Peron? Perché questo camposanto è molto argentino, ed è una sorta di misurato teatro a cielo aperto, nel teatro della città. E ci sono labirinti di stretti corridoi affiancati da sepolcri e da monumenti. Nelle tombe di famiglia, talvolta semiaperte, ossa e teschi che fanno bella mostra di sé. Vetri rotti, mazzi enormi di fiori secchi e pizzi ingialliti completano le macabre prospettive. Tutto ciò sarebbe piaciuto all’artista, avrebbe ispirato la sua anima. Inoltre, di lì a presso, distanti un niente dal memorabile, imponente cancello di ferro battuto della Recoleta, si possono trovare negozi di ogni tipo, discoteche, lussuosi alberghi, ristoranti e caffè di buona frequentazione.. Si possono anche incontrare gli esponenti più rappresentativi di tutti i vizi capitali. E ci sono i gatti e i cani che nei giorni di mercato respirano fumi di mariujana. Anche questo sarebbe piaciuto a Leonor. Era sempre opportuno per l’artista che gli animali stessero bene. Fu la scrittrice Ketty Daneo a farmi conoscere meglio alcuni aspetti di Leonor Fini più di un trentennio fa. Dalle nostre conversazioni desunsi ragionevolmente il carattere della pittrice e ne ebbi conferma da in seguito altre fonti. La Fini fu una donna forte e vulnerabile allo stesso tempo e fu attratta dal soprannaturale, dal mistero e dall’inesplicabile come altre signore appartenenti alla borghesia triestina del primo Novecento. Non so quando Ketty e Leonor si conobbero, quanto si fossero frequentate né dove, ma l’ intrigante immagine della Fini pubblicata in queste pagine mi è stata regalata proprio da Ketty qualche mese prima della sua scomparsa. Conservava la fotografia nel cofanetto della sua corrispondenza assieme ad altri minuscoli oggetti a lei cari ed ora sono io a salvare l’immagine e a guardarla di tanto in tanto: appassionato fotografo da sempre, mi piace la determinazione disinvolta della pittrice davanti all’obbiettivo. In effetti, l’esibizionismo della Fini durò tutta la vita. Amò raccontarsi attraverso le immagini e si travestì spesso usando abiti sontuosi o abbigliamenti provocanti:
“Quando ero bambina detestavo farmi fotografare. Fuggivo. Mi coprivo il viso. Poco a poco ho trovato interessante avere un viso, conferma della mia esistenza. Dagli specchi sono passata alle fotografie. Ma non amo le istantanee, niente è più falso del naturale stereotipato. E’ la posa che è rivelatrice, e io sono curiosa e divertita di vedere la mia molteplicità affermata da queste immagini. Mi si dice: Avresti dovuto fare l’attrice. No: solo l’inevitabile teatralità della vita mi interessa”.
Con Ketty Daneo m’incontravo spesso o in un caffè del centro o nelle sale d’arte triestine o in un circolo culturale: erano queste le occasioni per fare una chiacchierata sugli argomenti di comune interesse che non si discostavano troppo dalle mostre d’arte, dalla letteratura e dalla poesia. Quando in seguito ad un viaggio che feci a Buenos Aires nel 1978 parlammo per la prima volta della Fini, a Ketty brillarono gli occhi e approfondimmo l’argomento. Non fu certamente l’unica donna ad essere ammaliata dalla stravagante artista e a provare per lei una sincera ammirazione. Leonor infatti aveva uno strana commistione di dolcezza, di mistero, di sensualità erotica, di attenzione e disattenzione in spazi limitati. Aveva soprattutto fulmineità e imprevedibilità felina tanto da piacere sia alle donne che agli uomini che la frequentarono. Per citare un esempio, la scrittrice Elsa Morante che conobbe Leonor sul finire degli anni Quaranta così scrisse:
“Mi sono imbattuta in Leonor Fini girando per mercatini, attratta dall’immagine di gatti da lei dipinti su piatti di ceramica. Solo successivamente ho conosciuto le sue opere magiche e misteriose, capace di evocarmi mondi inquietanti ma stranamente familiari, come vissuti e poi sospesi negli stati della mente. Le sue figure femminili un po’ fate e un po’ streghe, senza età, sono rispecchiamenti magici delle mie diverse identità e i suoi gatti enigmatici sono parte di me che vivono l’avventura di labirinti interiori misteriosi dove i sogni si confondono con gli incubi. Da allora l’ho cercata, affascinata dalla teatralità studiata della sua immagine stregonesca, enigmatica ed evanescente come il sorriso del gatto del Cheshire. E come un gatto lei è sfuggita a codici e classificazioni, regina di un mondo interiore mai a fondo svelato, e, come il gatto di Alice, è comparsa e poi scomparsa dagli scenari dell’arte che ne hanno lentamente sbiadito il profilo di protagonista, per la trascuratezza da sempre riservata alle donne artiste. Ricomparirà di certo, misteriosamente, perché, si sa, le streghe non muoiono mai.”
Leonor nacque nella Capitale Federale Argentina da Malvina Braun originaria di Trieste e da Erminio Fini. I nonni paterni, napoletani, si erano stabiliti come la maggior parte degli emigrati alla fine del secolo scorso nella zona portuale di Buenos Aires. Tuttavia i genitori della Fini si conobbero nella città giuliana forse a poca distanza “da quel palazzo con statue umide e fognature deficienti dove un gentiluomo dal viso istoriato da una cicatrice africana – il capitano Richard Francis Burton, console inglese – intraprese una famosa traduzione del Quintab alif laila ua laila libro che anche i rumì chiamano delle Mille e una Notte”. Non sappiamo come i suoceri fecero fortuna oltreoceano ma Erminio, figura tirannica, possedeva e conduceva un’hacienda. Lì si fece raggiungere da Malvina ma dopo il primo anno burrascoso di vita coniugale, i due si separarono e la donna tornò a Trieste con la bambina. L’infanzia della Fini non fu serena: il padre tentò di ricongiungersi a lei più di una volta usando metodi sudamericani (rapimento commissionato e uno tentato forse da lui stesso) e sua madre visse nella paura di perdere la figlia. Comunque Leonor passò la gioventù in un ambiente borghese e colto senza mai ricongiungersi al padre. Si formò capricciosa, irriverente e ribelle al punto da essere estromessa dalla scuola, ma nello stesso tempo si rivelò intelligente, originale e curiosa. Anche cinica?
“A dodici anni ero attratta dai morti. Andavo all’obitorio dell’ospedale di Trieste dove c’era una sala di esposizione con morti sontuosamente vestiti e addobbati. Più tardi smisi di osservare i morti, ma continuai sempre ad ammirare la perfezione degli scheletri”.
Fu abile, vigile osservatrice e incominciò a disegnare molto presto manifestando un talento precoce: schizzò soprattutto facce di donne su album e cartoni e si divertì realizzando collage. A 17 anni espose per la prima volta in una mostra collettiva a Trieste; in quell’occasione le venne pure commissionato un dipinto. Di lì a poco organizzò la sua prima personale a Milano dove andò a vivere per un certo periodo. A Trieste frequentò Umberto Saba, i coetanei o giù di lì Arturo Nathan e Gianni Brumatti e Roberto Bazlen con il quale ebbe intesa particolare. Si interessò di psicanalisi e lesse Freud. Nella sua casa passarono anche Svevo e Joice amici di famiglia. A Milano studiò alcuni grandi maestri del passato, i manieristi lombardi e quelli fiorentini. Fu attirata dagli affreschi di Luini della Villa Palucca, ammirò le opere di Piero della Francesca, di Paolo Uccello, di Pontormo, di Signorelli, Beccafumi, Bronzino. Fu orgogliosa autodidatta: “Non ho mai frequentato le scuole d’arte. Ho imparato guardando i dipinti che mi attiravano. Prima di saper dipingere, sempre che questo si possa imparare, bisogna saper vedere.” Gli esordi furono accademici e del resto Trieste, che pur vantava artisti di buon livello, non poteva diventare il suo mondo. L’unico legame costante che ebbe anche in seguito con la città furono i gatti…più delle persone! Ciò che più infastidisce gli appassionati d’arte della mia generazione è che niente di suo arricchisca le collezioni pubbliche locali. Quando mi capitò casualmente tra le mani una copiosa, generalmente concisa corrispondenza con alcuni dei suoi rari interlocutori cittadini cercai immediatamente tra i foglietti un disegno o qualche nota o riferimento o notizia utile: niente di tutto questo! Nei fogli piuttosto ordinati che ho passato in rassegna, Leonor chiedeva esclusivamente informazioni di questo o quel felino, del loro stato di salute, del colore del loro pelo, delle particolarità caratteriali…e poco altro. Conosceva i nomi di molti gatti randagi così come le erano stati riportati in qualche lettera e si ricordava di loro anche dopo molto tempo. I saluti al ricevente della sua missiva, erano una formalità. Oggi sappiamo che l’archivio cartaceo della Fini ordinato dal suo erede e carissimo amico, il pittore Richard Overstreet, è vastissimo e fortunatamente raccoglie molte testimonianze preziose. Ben altro rispetto quello che io vidi… Nel 1931 Leonor approdò a Parigi dove la sua formazione e sensibilità l’avvicinarono ai surrealisti con i quali espose più volte. Ma dai surrealisti si tenne a debita distanza. Rifiutò l’invito di Andrè Breton di aderire al movimento per restare indipendente: “Sono cresciuta in un ambiente intellettuale e ho avuto assai presto ‘occasione di irritarmi sia per i pregiudizi delle avanguardie che per quelli della borghesia”. Tuttavia la pittrice fu presente alla prima Fantastic Art, Dada e Surrealism al Moma di New York e alla mostra del mobile surrealista con gli amici Dalì, Ernst, Giacometti e Meret Oppenheim. Patrick Waldberg nella sua monografia su Max Ernst così descrive l’artista:
“Alta, dal portamento superbo, con i capelli e gli occhi di un nero bluastro, ecco come appariva Leonor Fini, attirando nella sua scia l’ignaro passante strappato al proprio torpore. Max Ernst amava in lei la furia italiana, l’eleganza scandalosa, il senso della festa e anche questa passione per l’equivoco, per i turbamenti provocati a seconda del capriccio”.
A Parigi la sua carriera procede tra gli onori, incontra persone illustri come Man Ray, Georges Bataille e stringe amicizia con il fotografo Henri Cartier-Bresson. Sviluppa temi molto personali dipingendo con stile incisivo donne in movimento, nude o drappeggiate di tessuti leggeri come Le iniziali. Nel panorama internazionale è figura controversa. Realismo magico è stata considerata la miglior definizione della pittura della Fini. Jean Cocteau lo definì realismo irreale aggiungendo che tutto il soprannaturale è per lei naturale. Dipinge metamorfosi bizzarre e dipinti quali La camera aperta, Rituale, Passeggiata. Sono famose le sue figure immobili di dormienti con gli occhi serrati e le labbra appena aperte (Le Dormeuses) e le sue donne perdute in stanze vuote dove appare improvvisamente una visione di fuoco. Ma ritornano alla mente anche le sue donne immerse fino al mento in acque buie e le sue opere fatte di vertigine come le definì Ernst! Durante la Seconda Guerra Mondiale la Fini si trasferì a Montecarlo e poi venne in Italia. Visse a Roma. Frequentò Alberto Savinio che descrisse il suo vasto atelier sul tetto del Palazzo Altieri: “ Non si respira aria di lavoro in questo luogo. Le tele della Fini si mescolano ai mobili, agli oggetti e alle stoffe in questo salone senza soluzione di continuità, come se tele e oggetti e mobilio fossero alberi di una stessa foresta”. Fu un periodo sull’Isola del Giglio dove incominciò a realizzare una serie di tele raffiguranti donne sfingi-guardiane che regnano ambienti primitivi. Ma i suoi interessi si rivolsero anche agli scheletri e uno dei suoi temi prediletti fu quello del doppio che innesca una riflessione sull’identità. Lo scrittore polacco Costantin Jelenski che visse con lei, scrisse che la società immaginaria della Fini è dichiaratamente matriarcale nella misura in cui essa ricrea l’organizzazione spirituale delle società primitive, di natura, appunto matriarcale. Tuttavia, questo non vuole essere segno di un’ipotetica superiorità femminile, bensì dell’appartenenza naturale ad una cultura antichissima. La Fini fu spesso fraintesa a causa delle sue eccentricità: tranne il primo periodo parigino nel quale ebbe accanto a sé Andrè Pieyre de Mandiargues, visse con più di un uomo… Sono degli anni Cinquanta alcune sue opere di straordinaria bellezza come La pensierosa e L’avvolgimento del silenzio. Le Filatrici, invece, ripropongono il tema del doppio. Comparvero pure in quegli anni alcune importanti monografie su di lei: quella di Jean Genet è intitolata Lettre à Leonor Fini. L’artista si rifugiò due estati in Corsica: prese in affitto un vecchio monastero andato in rovina presso Nonza e lavorò alla serie delle Guardiane. Le sue mostre si susseguono: Torino, Roma, Milano, Zurigo, Ginevra, New York sono solo alcune delle sue tappe. Una mostra erotica delizia i cittadini laici di Lund… Nel 1965 la mostra a Knokke-le-Zoute riunisce quasi un centinaio di dipinti e altrettante opere grafiche di Leonor accanto alle retrospettive di Max Ernst e Magritte. Nel corso della sua vita la Fini illustrò numerose opere da quelle di André Pieyre de Mandiargues a quelle di Sade. Illustrò pure il celebre romanzo Histoire d’O di Pauline Réage, Aurelia di Gerard de Nerval e opere dei pittori maledetti Verlaine Baudelaire. Non trascurò di illustrare opere di Racine, Shakespeare, Balzac, Faulkner ed Edgar Allan Poe. Dal 1965 al 1967 dipinse la serie di treni: Viaggio, Il treno bianco, Vespero-express. Nei decenni seguenti continuò a dipingere luoghi sospesi tra l’immaginario e il reale: i suoi quadri sono popolati da figure sensuali e barocche, da gatti, maschere, conchiglie, ossa e teschi umani. Anche se maggiormente conosciuta per i suoi dipinti (numerosi pure i suoi ritratti), il genio artistico della Fini si manifestò anche nella creazione di ceramiche, di gioielli (rarissimi), costumi per il teatro (preparò anche i costumi per La vedova scaltra di Goldoni messa in scena nel 1953 da Giorgio Strehler al Piccolo Teatro di Milano), per l’opera per il balletto e per il cinema (disegnò costumi per la Anna Magnani che conobbe e frequentò a Roma). La famosa donna–gatto delle sontuose feste parigine del dopoguerra (così fu soprannominata Leonor a causa delle magnifiche maschere feline che lei stessa realizzava), ebbe tra i suoi ammiratori anche il celebre regista Federico Fellini. Ci vuol poco a capire il perché… Scrisse la pittrice:
“Ancora piccola ho scoperto, da un giorno all’altro, che mi attiravano le maschere e i costumi. Travestirsi è un modo per cambiare dimensione, specie e spazio. Significa sentirsi giganteschi, diventare vegetali, diventare animali, sino a sentirsi invulnerabili e fuori dal tempo, ritrovarsi, oscuramente, in riti dimenticati. Travestirsi è un atto di creatività. E’ una rappresentazione di sé e dei fantasmi che si portano in sé”.
Leonor morì a Parigi nel 1996.
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