Medaglie e Placchette
Alessandra Doratti
A una scadenza importante della carriera o della vita era naturale che
arrivasse per il professore, il notabile, l'imprenditore di successo il
momento della medaglia. Gliela offrivano in un elegante astuccio:
riconoscimento molto ambito, piccolo monumento personale da conservare e
lasciare agli eredi. Prodotta di solito in numero limitato di esemplari,
la medaglia glorificava una persona ben precisa; ma le sue composizioni
allegoriche e la retorica della dedica santificavano anche il lavoro,
l'industria e il progresso.
Non per nulla correvano gli anni fra Otto e Novecento, anni fatidici per
l'affermazione delle nuove filosofie di lavoro e di vita. Alle medaglie
"personali" se ne affiancavano altre non meno "importanti" a ricordo o
celebrazione di un viaggio, un'esposizione, un traforo, una ricorrenza,
un'invenzione... E da queste ancora più emanava lo spirito dei tempi: un
taglio ottimistico, trionfalistico che di quell'epoca così
contraddittoria individuava e imponeva i soli lati positivi.
Propaganda? Visto il numero (in genere limitato) di esemplari prodotti,
non si direbbe. Piuttosto l'espressione di un autocompiacimento, la
consacrazione formale di un successo che, nei fatti, la borghesia aveva
ormai largamente consolidato. A un pubblico più vasto erano destinate le
medaglie "miracolose" a soggetto sacro, le militari, quelle di
appartenenza alla società di mutuo soccorso o ai gruppi sportivi. Una
produzione carica di fascino e di impagabili testimonianze storiche, ma
decisamente "minore" rispetto alla medaglia d'élite: quella per il
notabile, l'esposizione, il cinquecentenario, il traforo che, grazie
alla perfetta esecuzione e all'impronta dell'artista, rivendicava
l'eredità della grande tradizione medaglistica italiana ed europea.
Quando la "battitura" sostituisce la fusione è produzione di serie
Figlia del
Quattrocento, la medaglia aveva interpretato al meglio il rinascimentale
amore per il bello e l'ansia di porre l'individuo al centro
dell'attenzione; non riconoscimento di meriti, non ricordo di
avvenimenti, le prime medaglie furono strumenti di promozione personale.
Ordinate all'artista dal principe, dal signorotto che intendeva
valorizzare la propria immagine, circolavano poi negli ambienti "che
contavano", fra amici e nemici: divulgando l'effigie, le virtù, la
potenza, le imprese del committente. "Mezzi", "media" si direbbe oggi, e
strumenti di autopromozione restarono a lungo, estendendo i loro servizi
anche a notabili minori, letterati, artisti, filosofi noti e meno noti
che miravano a contare di più nei cenacoli, nelle corti. Ma anche a
ottenere un'assicurazione contro l'oblio, uno scampolo tangibile di
eternità. La moda si estese, apparvero i collezionisti e per essi
nacquero nuove medaglie: commemorative di avvenimenti, personaggi,
dinastie; ordinate spesso in serie anche lunghissime.
Fino al Settecento la tecnica corrente era stata quella della fusione:
un metodo che prevedeva molti interventi manuali per ognuno degli
esemplari prodotti, i quali decadevano presto di qualità man mano che il
modello originale si deteriorava. Più semplice ed economico il processo
di coniazione usato per le monete, ma la sua tecnologia rimase a lungo
immatura. Col sistema della "battitura" e i primi tentativi di
bilanciere a vite, il risultato, più che sufficiente per il denaro, era
deludente per un prodotto sofisticato quale la medaglia: che richiedeva
finiture più accurate, maggiori dimensioni e la possibilità di rilievi
anche molto forti.
Ma a forza di tentativi le difficoltà vennero superate: a metà
Settecento forme perfezionate di bilanciere permettevano già ottimi
risultati; cinquant'anni dopo, la medaglia fusa era ormai un evento
eccezionale. Un bel progresso: si risparmiavano tempo, denaro, e fatica,
senza che la qualità ne soffrisse, almeno in apparenza; in realtà
qualcosa era cambiato, anche se gli effetti non si sarebbero manifestati
immediatamente. L'artefice della medaglia fusa era in grado di seguirne
la produzione dalla prima idea fino al prodotto finito; per coniare,
invece, era necessario uno stampo in acciaio, e questo usciva dalle mani
di un professionista: l'incisore.
Se l'incisore diventa
artista, lo scultore si ritira
Chi non sapeva incidere l'acciaio doveva accettare questa "presenza"
interposta fra sé e la sua opera; finì che fu lo stesso incisore a
diventare "artista", con risultati anche eccellenti; i grandi scultori,
però, si tennero lontani dalla medaglia. E questa perse molto del suo
smalto e della sua originalità: anche perché i tempi erano cambiati,
dopo la rivoluzione francese del 1789.
Del vecchio desiderio di autoglorificarsi si era persa traccia, se si
eccettua Napoleone; la spinta alla medaglia si era fatta generica, di
routine. Solo a fine Ottocento le nuove certezze della borghesia le
avrebbero ridato un ruolo definito, mentre un nuovo fatto tecnologico la
riavvicinava agli artisti. I progressi fatti dall'industria con i "torni
per copiare", primo passo per la fabbricazione in serie, avevano
"regalato" prima alle zecche poi ai fabbricanti di medaglie un
apparecchio che assommava le prestazioni del tornio a quelle del
pantografo, denominato "tornio a riduzione".
Con un procedimento non troppo complicato si riusciva a ricavare
meccanicamente il punzone d'acciaio per il conio dal modello ingrandito
della medaglia uscito dalle mani dell'artista: non c'erano più vistose
interposizioni fra questi e le sua opera, anche se la figura
dell'incisore non sarebbe sparita mai del tutto. Così, a fine Ottocento,
le medaglie tornarono all'antico splendore: lo spirito dell'epoca le
portava in primo piano, gli artisti si riavvicinavano, i fabbricanti non
si risparmiavano nel ricercare il massimo della qualità. A quelle usuali
si affiancò un tipo "anomalo" di medaglia che con una certa dose di
approssimazione è oggi conosciuta con il nome di "placchetta".
Placchette quadrate, con il liberty dilaga l'allegoria
Le placchette vere, nate nel Cinquecento, erano elementi decorativi fusi
o lavorati a sbalzo da applicare ad armi, mobili, abiti, cappelli,
libri; ma ebbero vita relativamente breve: alla fine del Seicento erano
utilizzate solo in campo religioso, poi il loro uso quasi si perse.
Avevano comunque una sola faccia modellata: l'altra, piatta, aderiva al
supporto. A fine Ottocento si tornò a parlare di placchette, ma erano il
più delle volte "medaglie non tonde", modellate sui due lati e prodotte
con le stesse finalità e funzioni di quelle tradizionali. Molti artisti
le preferivano perché la loro forma non vincolata al cerchio consentiva
una maggiore libertà espressiva: il che, in tempi di grande rinnovamento
artistico, aveva la sua importanza.
In tutta Europa furoreggiava un "nuovo stile" che esaltava le linee
flessuose, toglieva corpo ai volumi. Un mondo di visioni esternate e
destrutturate dove il fatto decorativo, il senso della composizione
grafica erano essenziali; ma in Italia il gusto di Londra, Parigi,
Vienna arrivò attenuato. Sotto la definizione di liberty, si formò uno
stile che sì accoglieva un certo gusto floreale, un certo senso di
leggerezza e flessuosità, ma non rinunciava ai canoni della tradizione,
all'Accademia, al senso plastico delle forme.
Per quanto riguarda le medaglie e placchette italiane non si può parlare
di uno stile definito, bensì di un panorama variegato: dall'Art Nouveau
abbastanza evidente di alcuni autori (specie nelle placchette) al solito
classicismo di altri, che alle nuove tendenze concessero ben poco. Nel
loro insieme i piccoli "monumenti da tasca" del liberty italiano
compongono un nutrito assortimento di allegoria, composizioni, scorci di
realtà e idealità, dediche, motivazioni, ritratti: più che sufficienti a
narrare gli slanci, le speranze, le mentalità e forse le angosce di una
generazione di italiani di spicco.
Alessandra Doratti