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Le Corbusier -
La leçon de Rome versus la leçon de Venise
Alberto Spinazzi
Benché possa sembrare
paradossale, Utopia che non è in nessun luogo, è comunque innanzitutto
uno spazio.
Françoise Choay
La laguna è un esempio
di geografia volontaria: di delicato equilibrio tra naturale e
artificiale trasformato, corretto, sorvegliato per secoli; i principi di
insediamento di Venezia e delle isole della laguna vi dipendono
completamente. (…) Anche tutto questo è un insegnamento importante per
l'architettura della nuova modernità.
Vittorio Gregotti
L’opera di Le Corbusier
necessita, sempre di più, di una rilettura critica che riprenda a
trattarne le grandi tematiche progettuali, il rapporto con le città,
la matematizzazione poetica più che razionale, dello spazio dell’uomo e
il grande valore, si direbbe assoluto, attribuito all’individuo stesso
come elemento determinante l’ambiente urbano e abitativo. A tal
proposito sembra che nella più recente letteratura critica dedicata a Le
Corbusier si tema una presunta accusa di poca scientificità se ci
si arrischia a “generalizzare”, nel senso più buono e sincero del
termine, le sue ricerche. Rischiare d’andare al di là del singolo e
spesso inutile dato documentario appare infatti come indice di poca
specializzazione. A nostro avviso gli archivi del sapere risiedono in
uno spazio che non è sempre fisico, ma ha tuttavia ration-d’etre
nel momento in cui si cerca di ricondurre alcune idee o interpretazioni,
a volte anche lecite forzature, a una logica coerente, pur se non sempre
giustificabile e dimostrabile dal punto di vista scientifico. A mio
avviso, si può anche forzare la storia e cercare delle relazioni, anche
dal valore retroattivo, addirittura in ciò che può non apparire chiaro a
una prima ortodossa lettura. La storia dell’architettura ha ormai
acquisito tutti gli strumenti da utilizzare per diverse analisi di un
medesimo tema, ed è arrivato forse il momento di tenere insieme tutti
questi approcci, ovviando in tal modo alla velocità con cui la
disciplina si è forse troppo evoluta, da Bruno Zevi all’ultimo Tafuri,
attraverso tutte le esperienze delle avanguardie operative degli anni
Settanta.
Affrontare, quindi, il rapporto tra due grossi modelli della città
occidentale, Roma e Venezia, nelle impressioni che ne trae Le Corbusier
si rivela un ottimo esercizio per mettere alla prova alcune relazioni
tra gli appunti e le idee del maestro e in qualche modo reinserirsi
sulla scia stessa suggerita dai capisaldi stessi del movimento moderno,
ben esplicata da Zevi quando sostiene che nostro compito è:
dimostrare che la
vitalità del linguaggio architettonico moderno fonde con l’impegno di
forgiare una versione moderna, futuribile e comunque incentivatrice,
delle fasi storiche che ci precedono. Di fronte ad esse risultano
assurde sia la passività imitatrice dei revivals che l’indifferenza
rinunciataria di alcune avanguardie. La rivoluzione storiografica è una
componente ineliminabile di quella architettonica.
Si cercherà quindi di far reagire insieme
(per usare una metafora cara ad Erwin Panosky) diverse letture utopiche
o antiutopiche della città di Venezia. La domanda che deve emergere
dall’intero lavoro è la possibilità di una continua utopizzazione
architettonica ed urbanistica, e quindi sociale, della realtà lagunare.
La riflessione non deve esimersi dal inquadrare il destino di tale
spontanea teoria e effettiva realizzazione urbana, che paradossalmente
troverà la sua apoteosi nel momento dell’evolversi della civiltà
macchinistica, tanto da influenzare perfino alcuni progetti per la rete
stradale di New York negli anni venti del Novecento.
Non è questa pura retroattività della storia? E Le Corbusier non
s’inserisce quindi in un contesto generale, piuttosto che in uno slancio
di geniale intenzione, quando riprende la leçon de Venise per
concepire il piano d’Anversa, pubblicato nella Villa Radieuse?
A partire dai primi anni
venti e dalla redazione dell’Esprit Nouveau, Le Corbusier sposta
la sua attenzione dall’analisi dei grandi spazi urbani al ruolo
dell’individuo nella nuova società. In Urbanisme scrive:
l’homme marche droit
parce qu’il a un but: il sait où il va. Il a décidé d’aller quelque part
et il y marche droit.
È l’uomo, il singolo, il destinatario
principale delle riflessioni architettoniche ed urbanistiche moderne. Le
Corbusier si presenta così non come il teorico della società
macchinistica, come è spesso stato interpretato, ma come colui che
al contrario profetizza un uso strettamente strumentale della
macchina da parte dell’uomo. Nei primi anni venti, quando concepisce
Vers une architecture e Urbanisme, il protagonista
letterale della sua teoria non è l’uomo generico, ma il pedone, colui
che, come si è visto, cammina dritto perché sa dove andare e a tal fine
usa i propri insiti mezzi, mentre la bestia, l’asino, che avrebbe quasi
le stesse possibilità fisiche è costretto a zigzagare nel caos. La
macchina e quindi la città e l’abitazione devono essere asservite a
questo scopo. E’ fondamentale, a mio avviso, aver chiaro questo spunto,
non dissimile nell’intenzioni dall’irredentismo futurista. L’ordine
serve l’uomo, il caos lo nega.
Venezia, infine, è il modello
di una nuova gerarchia urbana moderna. Roma, la città storica per
eccellenza, ne è la negazione e smuove in Le Corbusier una profonda
polemica anti-rinascimentale. Ancora nel 1934 Venezia viene descritta
come:
cette
ville qui, à cause
de son plan d’eau, représente l’outillage le plus formel, la fonction la
plus exacte, la vérité la plus indiscutable – cette ville qui, dans une
unité unique au monde, en 1934 encore (à cause du plan d’eau) est
l’image entière, intégrale des actes hiérarchisés d’une société
Il vero nucleo della polemica risiede nell’antinomia implicita tra la
realtà urbana lagunare e quella romana. La capitale italiana era ancora,
nei primi anni del ‘900, la meta prediletta del Grand Tour e
Janneret la prende a pretesto per scagliarsi contro un mito
dell’architettura di tutti i tempi, demolendone, forse con un eccesso di
snobismo, tutto il fascino. Sembra che, prima del fallimento dell’Esprit
Nouveau, Le Corbusier avesse in mente di preparare proprio un
articolo dal titolo La leçon de Venise da giustapporre alla
Leçon de Rome, ripubblicato in Vers une Architecture.
Per Janneret Roma ha molte caratteristiche delle sue amate città
mediterranee, senza averne però le forme e l’armonia. E’
un ambiente pittoresco, un grande bazar:
La lumière y est si belle
qu’elle ratifie tout. Rome est un bazar où l’on vend de tout. Tous les
ustensiles de la vie d’un peuple y sont demeurés, le jouet de l’enfance,
les armes du guerrier, les défroques des autels, le bidet des Borgia, et
les panaches des aventuriers. Dans Rome les laideurs sont légion.
Agli occhi del giovane progettista, ciò
che nella cultura postmoderna diventerà icona, il caos, che nella
spontanea giustapposizione romana di diverse atmosfere spazio –
temporali regna sovrano, appare al contrario laido, sporco ed inutile.
Antirazionale, antiurbano. Per chi viene da studi prima ruskiniani e poi
sittiani, Roma è un Europa non più tale! Se riflettiamo su ciò che la
capitale diventerà per gli intellettuali del dopoguerra, per registi
come Pasolini o Fellini, o per architetti come Aldo Rossi e Robert
Venturi,
possiamo riconoscere una netta caratteristica, dovuta evidentemente a
una mentalità diversa ma decisamente confrontabile da un punto di
fenomenologico teso a ridimensionare i confini storico temporali di
qualsivoglia attitudine intellettuale. Roma si configura, a nostro
avviso, come una spontanea città per parti. Niente di più lontano
quindi da ciò che andava cercando Le Corbusier nei primi anni venti,
quando neanche l’infausta volontà dell’urbanistica fascista aveva ancora
tentato di rettificare la viabilità della capitale.
Se in Vers une architecture
l’acropoli ateniese è la realizzazione prettamente progettuale
dell’emergenza per eccellenza, Venise est formée par son plan d’eau
e trattiene una venustas e un’euritmia insita nella sua stessa
natura geologica. L’incontro tra la storia progettata e la storia non
progettata segna questo particolare momento dell’attività di Le
Corbusier ed il mondo greco è perennemente pietra di paragone:
Si
l’on sorge au Grec, on pense que le Romain avait un mauvais goût, le
romain – romain, le Jules II et le Victor – Emmanuel.
Rome antique s’écrasait dans des murs toujours trop étroits; une ville
n’est pas belle qui s’entasse. Rome renaissance eut des élans pompeux,
disséminé aux quatre coins de la ville. Rome Victor – Emmanuel
collectionne, étiquète, conserve et installe sa vie moderne dans les
corridors de le musée et se proclame « domaine » par le monument
commémoratif à Victor – Emmanuel Ier, au centre de la ville, entre le
Capitol et le forum …quarante ans de travail, quelque chose de plus
grand que tout, et en marbre blanc!
Décidément, tous s’entasse trop dans Rome.
Come ha giustamente considerato Tafuri in Teoria e storia
dell’architettura, comparando in modo forse un po’ forzato
l’antistoricismo di Wright a quello di Le Corbusier, la rilettura dei
tessuti storici da parte del maestro svizzero deve necessariamente
partire da un’eliminazione di ciò che ne impedisce la chiarezza urbana e
l’uso dei medesimi secondo le esigenze della vita moderna. La città
storica rischia infatti di non adattarsi alle nuove modalità del vivere
e di essere confinata e bloccata dalle città
nuove, luoghi del mutevole, del non rappresentativo, in luoghi deputati
dei valori di permanenza, di rappresentazione.
In realtà Janneret intende qualcosa di ben diverso: i modelli del
passato possono considerarsi ancora tali soltanto se gli si accorda un
significato figurativo, certamente non riproponibile, ma che possa
segnalare all’architetto e all’urbanista contemporaneo la necessità
di tradurre in sistema linguistico coerente, le confuse anche se vitali
indicazioni, offerte dal labile mondo di oggetti non rappresentativi e
rapidamente consumabili della realtà tecnologica.
Continuando con la lettura di
Vers une architetture, dopo la Leçon de Rome, si trova un
capitolo dal significativo titolo L’illusione della pianta. Un
paragrafo, accompagnato da schizzi di Villa Adriana e da scorci di
Pompei, tratta degli elementi architettonici degli spazi interni:
On
dispose de mur droits, d’un sol qui s’étend, de trous qui sont des
passages d’homme ou de lumière, porte ou fenêtres. Le trous éclairent ou
font noir, rendent gai ou triste. Les murs sont éclatants de lumière, ou
en pénombre ou en ombre, rendent gai, serein ou triste.
Risulta sconcertante leggere un descrizione di modello d’interno che
presenta elementi architettonici (luce, sole, buchi) che fanno in
qualche modo parte degli esterni veneziani. Che Le Corbusier legga
inconsciamente Venezia come un grande spazio a metà strada tra l’interno
e l’esterno? La struttura di calli e canali alternata a campi rende
Venezia un spazio infinito, senza soluzioni di continuità, dove le
sensazioni più fondamentali della vita umana, come la felicità o la
tristezza, sono condizionate dagli scorci della città? Si desidera ora
far ricorso a un interessante spunto proposto da Zevi per la città
medievale in generale, assai felice per una definizione urbana di
Venezia. Il critico romano sostiene che nella città gotica vige la legge
non scritta dell’elenco che ha intrinseche capacità correttive
nell’ambito di un impianto narrativo. La scomposizione rinascimentale
richiede invece una normativa, un modulo. Zevi insiste ancora nella
sua polemica anticlassicista:
Il concetto di elenco presuppone la
diversità, ma non è affatto scontato che un insieme di diversità diano
luogo ad un elenco architettonico adeguato. Roma, appunto, non lo è e
non potrà mai diventarlo, è un pastiche di stili, sui quali il
Rinascimento tenta senza fortuna di mettere mano. La diversità deve
essere ordinata, deve avere un chiaro scopo unitario. Chi ha
visto in Le Corbusier il profeta del Razionalismo architettonico non si
è mai soffermato sull’importanza invece nel suo pensiero di un concetto
così conservatore come quello di ordine. Si ritorni a Vers une
architecture:
Villa Adriana è una rovina, ma è una
rovina ordinata, dove lo spazio trova l’uomo e viceversa. L’ordine
non ha bisogno delle griglie o dei palazzi fiorentini per essere tale,
ma deve assolutamente appartenere a chi ne fruisce, al piéton nel
caso di Venezia, città elenco per antonomasia, dove tutto è diverso ma
concorre alla definizione di un ordine spontaneo.
Alberto Spinazzi
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