La Natura Morta

 

Alessandra Doratti

 

 

 

 

La natura morta nasce in Europa alla fine del' 500 e trae origine dai disegni degli erbari tardomenioevali.
In una frase celebre e densa di significati, Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, sosteneva che vi è «tanta manifattura», cioè tanta abilità, nel fare un quadro di fiori come nel farne uno di figure. È un concetto semplice derivante dall'esperienza diretta del pittore, ma che per lunghissimo tempo la storia dell'arte ha rifiutato. E ancora l'abate Luigi Lanzi, scrivendo alla fine del Settecento una memorabile storia della pittura in Italia, definiva la natura come un «genere d'inferior pittura», raccogliendo e consacrando sull'argomento una lunghissima tradizione negativa che aveva avuto il proprio apice nel Seicento, nella figura di un critico come il classicista Giovan Pietro Bellori, non a caso acerrimo nemico del Caravaggio. Il rifiuto del carattere e della valenza autonoma della natura morta nasce infatti da un equivoco umanistico, quello cioè che la pittura sia – o debba essere – come la poesia. Il motto di Orazio ut pictura poesis ha per lungo tempo sorretto e convalidato una supremazia basata sui valori narrativi dei dipinti contrapposti alla loro qualità di "manifattura", di attuazione pittorica nel senso stretto.

 

 

Le origini


La natura morta è fenomeno assolutamente originale della mentalità europea fra Manierismo e Barocco. Si afferma un interesse per il soggetto inanimato non più periferico e complementare alla figura umana, ma centrale ed esauriente. Gli ingredienti che determinano l'affermarsi di tale genere in Europa, alla fine del Cinquecento, e in diversi centri, da Roma a Milano, ad Anversa e Haarlem, a Siviglia come a Francoforte (capitali, ma anche città–stato mercantili) sembrano essere troppo compositi e intrecciati per poter accettare graduatorie di merito o priorità nazionalistica. Un primo riferimento è da fare ad una non interrotta tradizione della cultura mediterranea classica, nel rappresentare il mondo esterno all'uomo in una coerente unità. Questa unità a partire dalla cultura ellenistica, si mantiene costante nei diversi "rinascimenti" che la tradizione italiana conosce. Questo elemento porta all'isolamento della scena, recuperata nella sua qualità di quadro - finestra omogeneamente concepito alla possibilità concettuale ma anche materiale di considerare il soggetto inanimato non più come corredo alla figura umana, ma come autonomo protagonista. I documenti d'esordio della natura morta italiana li troviamo nella letteratura e nella pittura stessa, soprattutto nei particolari di arredo degli affreschi di Taddeo Gaddi (1290 -1366) e nelle tarsie quattrocentesche.
La seconda radice della natura morta è costituita invece dall'esperienza nordica, da un realismo e da un'attenzione al particolare che già furono espressi nelle rappresentazioni delle storie sacre e nei ritratti, nel paesaggio costruito da una quantità di livelli della scena e storie particolari descritte con una precisione calligrafica. Il vaso di gigli che campeggia in primo piano in isolamento spaziale rispetto al contesto, o l'armadio dello studio del santo ricolmo di libri costituiscono i diretti antecedenti della natura morta. A questa estrapolazione degli oggetti, alla cancellazione della figura umana dalla scena, ha senz'altro contribuito la ventata iconoclastica abbattutasi sui paesi tedeschi ad opera delle frange estremiste della Riforma protestante. L'ipotesi di una radice nordica della natura morta trova conferma nell'osservazione scientifica empirica della metà del Cinquecento ad opera dei botanici quali Gessner e Fuchs, che rende necessario rinnovare l'iconografia tradizionale degli erbari tardo medioevali per un icona più adeguata e rispondente all'osservazione diretta. Nasce una mentalità enciclopedica; anche in Italia fra il Cinquecento e il Seicento vi è l'opera scientifica del bolognese Ulisse Aldrovandi e l'illustrazione scientifica di Jacopo Ligozzi e Giovanna Garzoni, fino alle grandi esposizioni di frutti e ortaggi di Bartolomeo Bimbi, creati per Cosimo III dÈ Medici. Scriveva infatti Francesco Saverio Baldinucci che in quei quadri «tu vedresti tutte le sorti di fiori che possono immaginarsi, tutte le diverse specie d'uve, e nostrali e forestiere, sì come ogni sorta di susine, fichi, coll'aggiunta di diversi agrumi, stravaganti o per la loro forma o per la grandezza loro». Documentazione dunque, ma anche visione estetica notevole da parte dei pittori che nel loro genere furono senz'altro dei grandi maestri. Un fertile campo di immagini è legato al tema dell'abbondanza dei cibi e conseguentemente della ricchezza, dell'opulenza. Un altro tra i soggetti più rappresentati è invece il fiore: simbolo della rinascita del ciclo stagionale in ambiente classico, ornamento effimero dell'acconciatura femminile, simbolo del linguaggio amoroso, veste e addobbo dell'architettura.

 

 

I soggetti


Il tema della tavola imbandita conosce la sua fortuna incontrastata a partire dall'esperienza pittorica del centro olandese di Haarlem, fin dal primo decennio del Seicento. Confluiscono qui molti pittori fiamminghi ed il loro arrivo è dovuto alla vitalità mercantile della classe borghese d' Olanda e quindi vi è anche una scuola pittorica con i medesimi criteri di un'impresa commerciale.
Il fiore è protagonista per eccellenza anche dal punto di vista simbolico: abbiamo accennato ad un suo uso "laico" come ornamento femminile o come codice simbolico della lingua galante, ma occorre richiamare un uso in campo religioso e nell'immaginario naturale del linguaggio biblico in genere. Altresì l'erba e il fiore conoscono una loro classificazione nell'indagine terapeutica.
Ma dall'Ottocento romantico in poi, l'apprezzamento della natura morta ha ripreso vigore, sino ai fasti odierni dell'antiquariato e dell'editoria (infatti sono stati creati molti e sontuosi volumi su questo argomento).
E anzi forse per effetto di pendolo, la natura morta come arte "senza qualità", come pittura delle cose materiali, prive di significato, è stata sottoposta negli ultimi tempi a fervori interpretativi che ne hanno snaturato il suo originario, caricando questo "genere" pittorico di significati acuti in larga parte non corrispondenti ai messaggi originari delle opere. Messaggi che sono, nella quasi totalità sostanzialmente formali, e cioè basati sul carattere di ricostruzione mimeticamente sapiente dei modelli naturali. La "vita silente" di questi quadri – still life painting è appunto l'equivalente anglossasone dell'italiano "natura morta" – si impadronisce del pittore che è costretto a restituirla, raddoppiandola sulla tela.
Se tutti gli eventi artistici sono atti di creazione, quello della natura morta consiste nella creazione di una seconda natura, che attraverso l'opera del pittore acquista una dignità pari a quella del modello. In un epoca come quella contemporanea, ossessionata dalla trionfalizzazione dell'ovvio, attraverso le catene di produzione visiva che dominano la nostra civiltà di consumatori, il ritorno alla natura morta può significare anche il desiderio di recupero di un mondo delle forme che coincida con il mondo della vita: abolendo quasi l'atto stesso della pittura, come in un celebre passo dei fratelli Goncourt sulle nature morte di Jean Baptiste Siméon Chardin: «Ogni frutto ha il sapore del suo colore, la peluria della sua pelle, la polpa della sua carne; sembra caduto dall'albero nella tela». La mimesi come essere: è forse questo il tema di fondo, il filo sottile che lega tra di loro le opere di questo genere.
Gli oggetti che popolano questi quadri ci parlano di un mondo parallelo al nostro, vivo come il nostro, di uno specchio silenzioso con il quale è però possibile dialogare..

 

 

 

Alessandra Doratti