L'arazzo
Alessandra Doratti
Cinque secoli prima che l'incorruttibile Robespierre la rinobilitasse
nascendovi nel 1758, la città franco-fiamminga di Arras era già così
famosa per le sue tapisseries, che i mercanti e gli amatori
italiani furono costretti a inventare, a orecchio, il nome draps
d'Arras, panni d'arazzo o arazzi. Benché approssimativo, quel nome
sottolineava la relativa novità dell' oggetto. In effetti le
tapisseries de lice, che attraverso l'intreccio di migliaia di fili
parevano simulare perfino i più rari pezzi di pittura, conservando però
anche inimitabili qualità tessili, avevano il loro cuore d'eccellenza
nelle Fiandre e a Parigi, e non avevano proprio nulla in comune con le
magnifiche stoffe di Firenze o con i meravigliosi tappeti d'Oriente. Si
trattava di tessuti istoriati con caratteristiche tecniche e figurative
del tutto particolari e diverse dai normali tessuti per stoffe, dai
ricami, dai tappeti....
Considerate anche le loro abituali dimensioni, erano veri "muri
tessili". In Renania, dove già da tempo erano apparsi in forme più
dimesse, perfino nella remota Norvegia, erano infatti genericamente
detti "Wandteppiche": alla lettera, tappeti parietali. E inizialmente
erano davvero usati per bloccare spifferi, insonorizzare ambienti,
addolcire i più crudi riflessi di luce entro le nude architetture delle
dimore signorili, nei refettori e nelle sale capitolari.
Poi, in breve, erano diventati dei veri status symbol dei potenti
d'ogni grado e rango. Visto anche il loro costo. Al punto che, come
mobili e deperibili affreschi (oppure come colossali bandes dessinées,
fumetti insomma, ma d'autore, con tanto di cartigli esplicativi dei
significati religiosi o profani o celebrativi delle varie scene
tessute), venivano dispiegati nelle piazze e per le vie cittadine in
occasioni di grandi cerimonie. E addirittura ornavano l'interno di
magnifici e provvisori padiglioni principeschi in un campo che
s'apprestava alla caccia e alla battaglia.
Fra parentesi, proprio quest'uso frequente e ostentativo degli arazzi
vale a spiegare, assai più che la loro deperibilità all'azione degli
agenti atmosferici, il fatto che un alto numero di capolavori sia andato
perduto.
Andarono perduti, perché più esposti, specialmente i godibilissimi
arazzi "profani" d'argomento cortese, cavalleresco, fiabesco,
mitologico, dell'illustrazione della realtà di ogni giorno; quelli che
dovevano certo costituire tutti insieme "una sorta di ininterrotto,
grandioso cielo illustrativo della letteratura e della cultura
dell'epoca.
La reverenza quasi sempre e il caso, alcune volte, insieme al minor uso
superfluo, valsero a salvare fra i capolavori più antichi soprattutto
quelli di soggetto religioso. Ma l' arte dell' arazzo si sviluppo'
anzitutto nell'ambito della "profana" cultura pre-rinascimentale, poi
sbocciò nel fasto delle corti sei-settecentesche. E fiorì per i
finanziamenti ed il gusto di gran signori di borsa larghissima.
Un arazzo di qualità è sempre un'impresa collettiva di pazienti
specialisti, e adeguatamente remunerati. C'era, c'è, il pittore di fama
che produce il petit patron, con le indicazioni essenziali dei
contorni delle figure, del bordo di un'immagine, del termine di una o
più "passate" di fili di colore, in modo che l' arazzerie potesse
lavorare con sicurezza. In questo è aiutato dal maître licier,
1'arazziere responsabile dell'opera, che la firmava. Quindi, una
piccola, sceltissima schiera di tessitori lavorava contemporaneamente
l'immensa ragnatela dell'ordito, con lente, precise, cava-occhi passate
di navetta trainante i fili della trama.
Inoltre il costo dei materiali. Generalmente, pregiata lana inglese
lavorata acconciamente dapprima ad Arras, poi nei laboratori delle
manifatture più prestigiose. Spesso anche canapa (per l'ordito), lino e
seta: pregiata quella lombarda grezza, che però era filata a Lione e
veniva perciò detta soie de Lyon. Talora persino fili esilissimi
di argento e oro. E la pittura. Fin verso il '300 i colori pieni
variavano da una mezza dozzina a una ventina. Nella manifattura reale di
Gobelins, dopo il regolamento imposto dal ministro Colbert, i colori
usati furono 120. Un secolo più tardi e fino alla seconda metà del '700,
si arrivò alla follia di 36.000 colori, ripartiti in un migliaio di
gamme di 36 toni differenti. Una salutare reazione a tanta fantasia
verme nel secolo XIX, quando la "realizazzione" portò a stabilire un
circolo cromatico (del Chevreuil) di soli 14.400 toni.
Un'arte collettiva che con materiali d'eccellenza coordina l'azione di
artisti e maestri in campi diversi: come a tutt'altro proposito scrisse
Leonardo, anche qui "il genio è una lunga pazienza". Un'arte lenta,
dunque. Oggi un esperto arazziere che lavori su telai di concezione
tradizionale, ma di precisione moderna, arriva a produrre da uno a sei
metri quadrati di arazzo .... in un anno di lavoro. L'ordinazione e
l'acquisto di una grande serie (i sette arazzi della famosissima
"Apocalisse" detta d'Angers hanno ciascuno una lunghezza di venti
metri), diventa dunque un investimento ingente.
Fino a tempi recenti gli eruditi battagliarono a colpi di citazioni,
scoperte e definizioni tecniche per stabilire le origini. Considerati
sodalizi intellettuali si incrinarono perché non si riusciva a stabilire
se i telai verticali, citati da Omero, avevano o non avevano i licci
regolamentari. Finalmente si giunse a un razionale convincimento. In
termini generali, l'arazzeria ha avuto nascite distinte e si è
sviluppata in forme autonome nell'ambito ciascuna della propria civiltà
natale. In senso tecnico quella dell'arazzo è un'arte occidentale, e
neppure tanto antica.
L'esemplare più venerando è il cosiddetto "panno di S. Gedeone"
proveniente dal coro dell'omonima chiesa di Colonia e risalente
all'inizio del secolo XIX. Ma, a parte altri esempi tedeschi di
dimensioni ridotte e opere geometrizzanti prodotte in Norvegia, il
penodo romanico non produsse, o almeno non ha tramandato fino a noi, una
gran copia di capolavori.
L'arazzo cominciò la sua stagione
L'arazzo cominciò a esplodere insieme al gotico, in Francia e nelle
Fiandre. L"Etablissement des métiers de Paris" (1258), puntigliosa
rassegna regolamentatrice delle più varie attività produttive, cita
anche una tapisserie à lice (liccio), raccomandando giustamente
di non praticarla con la luce artificiale e interdicendola alle donne
perché troppo faticosa.
L'arazzo cominciò la sua stagione d'oro con le munifiche ordinazioni di
Carlo V di Francia e dei suoi fastosi fratelli, Luigi d'Angiò, Giovanni
di Berry, Filippo l'Ardito, e grazie alle "firme", allora più
prestigiose in Europa, degli arazzieri Nicolas Bataille, Jacques
Dourdin, Pierre de Beaumetz. La guerra dei Cent'Anni e la caduta in mano
inglese di Parigi (1415) segnarono il declino dell'arazzeria parigina
prima maniera.
Il primato passò ad Arras, e di qui, come si è detto, cominciò ad
espandersi in ogni corte europea la smania dell'arazzo, promossa dalle
ordinazioni della contessa Mahaut d' Artois e subito dopo da due veri
"big" del collezionismo: la famiglia reale di Francia e quella ducale di
Borgogna. Per il duca Filippo l'Ardito ad Arras si tessè una delle opere
più monumentali, oggi purtroppo perduta, la "Battaglia di Roesebecke",
che misurava 56 "aune" di lunghezza. Un'aura corrisponde a metri 1,18.
Il declino della casa di Borgogna, seguito alla morte di Carlo il
Temerario (1477), offuscò anche il prestigio di Arras, mentre già
cresceva quello della città di Tournai, sulla fiamminga Schelda.
A cominciare dalla fine del '400 si affermò il marchio di un altro dei
più famosi centri arazzieri: Bruxelles, dove nel 1515 furono eseguiti i
famosi arazzi papali degli Atti degli Apostoli sui cartoni di Raffaello.
L'ingresso del naturalismo-classicismo rinascimentale italiano in parte
snaturò l'originaria qualità artistica dell'arazzo indirizzandola verso
la ricerca di valori pittorici a scapito di quelli più propriamente
tessili.
Contemporaneamente si affermavano, ciascuna con il suo marchio D.O.C.,
come una galassia industriosa, Oudenarde, Anversa, Bruges, riprendeva
vigore la tradizione francese con una scuola-laboratorio voluta da re
Francesco I al castello di Fontainebleau, e un atelier voluto a Parigi
da re Enrico II presso l'Ospedale della Trinità, allo scopo di occupare
i trovatelli là ospitati.
Il prestigio assoluto della Francia fu consacrato nel '600 soprattutto
altraverso l'istituzione delle manifatture reali, quasi una
nazionalizzazione, si direbbe oggi, effettuata (come già in Inghilterra
nel 1619 con la manifattura di Mortlake) per frenare l'emorragia di
enormi capitali investiti in arazzi acquistati all'estero, e anzi per
attirarne di freschi con l'eccellenza della produzione. Nel 1622 Colbert
acquistò per ordine e conto del Re Sole, Luigi XIV, ateliers attivi in
Faubourg Saint-Marcel, edifici e terreni appartenuti alla dinastia dei
tintori Gobelins e vi fondò una "manufacture de meubles de la Couronne",
che per i patiti dell'arazzo sarebbe diventata semplicemente la
prestigiosa "Manufacture de Gobelins": prestigiosa al punto che ancor
oggi in Francia e in gran parte del mondo gobelin è sinonimo di
"tapisserie, Wandteppiche", arazzo.
Dopo lo splendido boom del tardo '600 e del '700, da un canto l'epoca
rivoluzionaria e dall'altro i costi sempre più proibitivi fecero
declinare alquanto l'arazzeria. O almeno ne mutarono l'orientamento. A
portata del gusto e del nuovo ceto emergente, quello borghese:
dimensioni più umane delle opere, soggetti domestici adatti a interni
ricchi ma non regali, ripresa dei valori squisitamente tessili come
ritorsione contro l'invadenza del "pittorico". A parte il doloroso
problema dei costi, insomma, si andava lentamente verso quella che per
alcuni è la "rinascita" novecentesca dell'arazzo, riscoperto nella
pienezza della sua dignità: come è stato detto un'arte ex-regale rinata
come "arte totale"..
Alessandra Doratti