|
||
Giovanni Attinà
Itinerari - parte seconda
...e la nostra Partenope non è né povera di abitanti suoi propri, né è priva di forestieri …..il suo clima è temperato, con tiepidi inverni e fresche estati, un mare tranquillo la lambisce con le sue languide onde. Regna in questa zona una pace serena, l’ozio di una vita di riposo e la quiete non subiscono turbamenti e si dormono lunghi sonni. ...e che dire dei magnifici panorami e delle bellezze di questi luoghi, dei templi e delle piazze adorne d’innumerevoli colonne e della duplice costruzione dei nostri teatri, quello all’aperto e quello chiuso, e dei giochi quinquennali che gareggiano con quelli Capitolini ? Papinio Stazio : “ Silvae “
Dopo aver attraversato Porta Alba, mi ero fermato, nel mio precedente itinerario, davanti alle mura greche della città antica. Esse sono situate in uno scavo di pochi metri rispetto all’attuale livello stradale, sotto la statua di Vincenzo Bellini , nella omonima piazza. Per fortuna sono state recintate, e salvate dai circostanti segni della modernità: traffico, auto, motorini, cartelloni pubblicitari, bar e locali, tavolini e ombrelloni, persone indaffarate e indifferenti, mangiano e bevono, e che non hanno coscienza del territorio in cui vivono. Si narra che su queste mura, e dove oggi c’è il giardinetto, c’era, alla fine del XV sec. “un bellissimo luogo coperto, per giocare alla racchetta e al pallone “. Evidentemente l ‘area era stata coperta, un po’ per opera della natura, terremoti, depositi alluvionali e altro, e molto per interventi umani, con la eliminazione della parte superiore delle mura e l‘utilizzazione del materiale asportato per la nuova murazione , eseguita ai tempi del regno angioino, e per la costruzione di nuovi edifici . Ma, non tutti i mali vengono per nuocere: il fatto che le mura siano state nascoste e ricoperte per secoli, ha contribuito, a mio parere, a salvarle almeno in parte, dalla completa distruzione. Gli avanzi che qui vedo, non sono, secondo l’opinione corrente degli studiosi, quelle della prima fondazione, ma del primo ampliamento effettuato nella città, intorno al IV sec. a.C., probabilmente poco prima della conquista romana. Esse si prolungavano a nord lungo l’attuale via Costantinopoli, giravano a destra lungo la via Foria e deviavano a via S. Giovanni a Carbonara verso la zona di Forcella, dove ci sono tracce ancora visibili; da qui scendevano verso la spiaggia che all’epoca si stendeva lungo la strada detta il Rettifilo, risalivano il dislivello di via Mezzocannone, e, lungo la direttrice di P.za S. Domenico e via S. Sebastiano, si ricongiungevano a piazza Bellini. L’origine greca della città – che si conserva nel nome stesso - è testimoniata da Strabone, storico latino del I° secolo d.c. : “Dopo Dicearchia (l’attuale Pozzuoli) viene Napoli, città dei Cumani; in seguito vi si stabilirono anche Calcidesi, alcuni Pitecusani (abitanti di Ischia) e Ateniesi e fu per questo motivo chiamata Neapolis, città nuova. A Neapolis vivono secondo lo stile greco…….”.
Provo a immaginare gli avvenimenti dell’epoca. Nel V° secolo a.C. , forse intorno al 470, navi, con a bordo fuorusciti, in contrasto con il governo della vicina città di Cuma, penetrate nel golfo attraverso il canale tra le isole di Procida e Ischia e la terraferma, superato l’isolotto di Megaride, lì dove oggi sorge il Castel dell’Ovo, avvistarono oltre le spiagge, un altopiano che, con lieve pendenza di pochi metri, dal mare risaliva verso l’entroterra. Approdati sulla spiaggia, i nuovi arrivati verificarono che dalle colline circostanti – quelle del Vomero e di Capodimonte secondo la descrizione fatta da C. De Seta – “ scendevano a valle corsi d’acqua a carattere torrentizio che defluivano poi in due direzioni, una verso oriente, lungo l’attuale via Foria, e l ‘altra verso occidente sfociando nella zona della attuale piazza Municipio “. I coloni, ai quali si aggiunsero altri profughi provenienti dall’interno, decisero che quello era il posto giusto: un promontorio sul mare necessario per la difesa e per l’acropoli, la vicinanza e la facilità di accesso alle acque, quella salata, per le navi e il commercio, e quella dolce, per la vita delle persone, degli animali e per l’agricoltura. La chiamarono Neapolis, la nuova città. A dire degli storici, la città era stata preceduta da un piccolo insediamento del VII sec., ma probabilmente risalente a una prima colonizzazione achea del IX sec., chiamato Parthenope, mitico nome di una sirena, posto più a occidente, sul monte Echia, identificabile oggi con la zona a monte della Piazza del Plebiscito. Per rafforzare le esistenti difese naturali, furono erette alte mura, a doppia cortina, con mura trasversali di collegamento, e intervallate da torri ; fu utilizzato il materiale disponibile in loco, cioè pietra vulcanica e in particolare il tufo duro giallo, tagliato a parallelepipedi e murato a secco . Una difesa potente che non consentì a nessuno di superarle con la forza, ne ai Romani né ad altri, che dovettero conquistare la città con altri sistemi.
Mura greche in piazza Bellini.
Lasciata la piazza Bellini, superato il vicino Conservatorio di musica, con un salto nel tempo di circa sedici secoli, trovo sulla destra la chiesa di S. Pietro a Maiella, costruita alla fine del XIII sec. , da Carlo II d’Angiò. Non è possibile qui raccontare tutta la vicenda che condusse gli Angiò dalla Francia a Napoli; basta ricordare che essi erano arrivati in città intorno al 1260, chiamati dal Partito dei Guelfi e dal Papa, che voleva a tutti i costi distruggere i discendenti dell’imperatore Federico II, capo della fazione ghibellina e suo acerrimo nemico. Il legame tra il Papa e gli Angioini, fece sì che la città, pur favorita come capitale del regno al posto di Palermo, si riempisse di conventi e chiese, di frati e monache tutti gli ordini religiosi e che fosse introdotta l’Inquisizione. L’unica costruzione “civile “ degna di nota di quel periodo rimane il Castel Nuovo, c.d. Maschio Angioino, costruito extra moenia, oltre la zona portuale. La frenesia di edificare chiese e monasteri, e anche l’aumento della popolazione inurbata nella nuova capitale, portò a sfruttare tutti gli spazi ancora disponibili entro le mura, distruggendo campi, orti e giardini, torri e porte di accesso, buttando giù antiche costruzioni e depredandone materiali e arredi: secondo una cronaca dell’epoca, il Re “ vedendo la città de Napoli esser popolosa, se deliberò levare li giardini li quali assai ce n’erano in Napoli e tutti li fè edificare et fè la porta che hoggi se chiama reale “. Nessun rispetto per il passato della città e per gli spazi verdi, tranne che, per fortuna, per l’antico tracciato viario sul quale ancora oggi camminiamo. Da quell’epoca in poi, tutto il centro storico è pieno di chiese, grandi e piccole – circa un centinaio - , alcune che io non ricordo di aver mai visitato perché chiuse, a danno di abitazioni civili che, per rispettare il tracciato viario e le gli stessi edifici religiosi, crebbero solo in altezza. Secondo alcuni studiosi, c’era, proprio in quella zona dove poi sorse la chiesa, una porta denominata Donnorso, ovvero secondo un atto del 1038, “Porta Nova que dicitur de Domino Urso tata “, che si apriva sul decumano maggiore, la via Tribunali. La porta, che possiamo considerare l’antenata di port’Alba, fu abbattuta e fece posto alla chiesa con annesso convento. La chiesa fu intitolata a S. Pietro a Maiella in onore di Pietro da Morrone, già eremita sulla Maiella e poi eletto papa con il nome di Celestino V, colui che, per dirla con Dante, fece “ per viltade il gran rifiuto “. Opera gotica dell’architetto reale Pipino da Barletta, a sesto acuto, di forma quadrata con tre cappelle a destra e due a sinistra.
S. Pietro a Maiella
Diffusasi nella Francia settentrionale, l’arte gotica, in particolare l’architettura, si affermò ben presto in tutta Europa: essa giunse a Napoli e nel Sud, proprio con i francesi Angiò, i quali portarono con sé e invitarono artisti francesi a lavorare nei loro possedimenti meridionali, ben presto seguiti e imitati da colleghi italiani e locali. Nella città il gotico si espresse soprattutto nelle opere sacre, come possiamo ancora vedere nelle chiese di S. Chiara, San Domenico Maggiore, nella Cattedrale, in S. Lorenzo Maggiore e appunto S. Pietro a Maiella. Modificata e ingrandita nel corso dei secoli, soprattutto nel ‘600 secondo lo stile barocco, la chiesa fu riportata nell’800 alla sua originaria linea gotica. Sulle navate vediamo avanzi di affreschi del ‘300, mentre, dopo una parziale ricostruzione avvenuta nei secoli successivi, tutti i dipinti visibili sia al soffitto sia nella navata e nella crociera sono di Mattia Preti, il pittore calabrese che aveva affrescato le porte di Napoli durante la peste del 1656, con episodi della vita di Celestino V. Si narra, a tale proposito, che, a causa di gelosie e malelingue, al Preti fu sospeso l’incarico di continuare nella sua opera, anche se altri artisti dell’epoca, come Luca Giordano e Andrea Vaccaro, interpellati in merito, attestarono la bellezza e la grandiosità dei dipinti. Mattia Preti, che aveva un carattere piuttosto sanguigno e impulsivo – ricordiamo che era scappato da Roma dopo che, in duello, aveva ammazzato un uomo che aveva criticato un suo quadro – si rifiutò di continuare e se ne andò a Malta. Qui, e solo molto tempo dopo, terminò altri quadri e li spedì a Napoli. Mi è stato cortesemente vietato, quì come in altre chiese, di scattare fotografie, per le quali occorre niente meno che il permesso della Sovrintendenza. Poi si dice che a Napoli non ci sono regole e che non vengono osservate! Quelle poche foto che pubblico, sono veramente state fatte di nascosto, approfittando della distrazioni dei gentili custodi. Il campanile di S. Pietro a Maiella, probabilmente opera dello stesso architetto, alto 42 metri, è costruito in tufo e pietra di piperno, a quattro ordini: i primi tre a pianta quadrata, il quarto è esagonale ed è sormontato da una cuspide costruita, si pensa, successivamente, intorno al 1500. Una immagine di come era la murazione della città, e della quantità esagerata di edifici religiosi racchiusi nel centro storico della città, viene fornita dalla Tavola Strozzi. Si chiama così un olio su tavola di 82 x 245 cm, rinvenuto nel 1901, a palazzo Strozzi, a Firenze; essa rappresenta il rientro trionfale in porto, della flotta di re Ferrante d’Aragona dopo la vittoria nella battaglia navale verificatasi al largo di Ischia nel 1465, contro il pretendente al trono Giovanni d’Angiò. La tavola, la cui paternità è dubbia - sembra attribuibile a Francesco Rosselli, pittore e cartografo fiorentino vissuto a cavallo tra il XV e XVI sec., ma si è fatto addirittura il nome di Leonardo da Vinci - , è datata 1472. Essa ci offre una interessante, per quanto un po’ deformata, immagine della città e del panorama urbano dell’epoca: le mura lungo la spiaggia, e la particolare imponenza dei complessi religiosi di S. Chiara, di S. Lorenzo, del Duomo sulla collina, e le mura lungo la spiaggia. In primo piano, sulla sinistra, il Castel nuovo, detto Maschio Angioino, che è sostanzialmente così come lo vediamo oggi.
Tavola Strozzi, particolare.
Superato l‘antico largo Miraglia, che io ricordo da bambino grande e silenzioso ma che oggi è sconvolto da parcheggi selvaggi di auto e scooter e ignorata la fatiscente cittadella universitaria del policlinico “vecchio“, a sinistra sale la via del Sole, l’antico vicus solis, del quale è rimasto solo il nome: non posso non fermarmi e guardarla con una certa emozione: ci sono nato lì, sulla salita, a destra, in un casermone, e lì ho trascorso i primi anni della vita. Il lettore mi perdonerà se qualche volta mi lascio andare ad accenni personali, ma tutta questa zona è piena di memorie e tracce familiari. A destra scende la via detta calata San Severo, dove a suo tempo nei primi anni ‘50, in un vecchio palazzo nobiliare, che credo fosse quello della famiglia che dà il nome alla strada, in enormi stanzoni, su vecchi banchi di legno, frequentai la scuola elementare “ V. COLONNA”, sparita oggi , come tante altre cose. Una breve fermata all’angolo di via Nilo, devo farla: in quel palazzo colorato di rosso, un edificio sicuramente risalente al XV° o XVI° sec. con un grande cortile interno, all’ultimo piano, in due grandi stanzoni, ho abitato da ragazzino con la famiglia, prima di fare, come molti, il balzo sulla zona collinare, al Vomero. Il nome della strada può anche stupire, ma ci ricorda che quella zona, ai tempi dell’impero romano, era la regio alexandrina o nilensis, perché abitata soprattutto da immigrati da Alessandria d’Egitto. Tralasciando altri percorsi, mi affretto per via Tribunali, che continua dritta, tagliando in due la città fino a Castel Capuano, storica sede della magistratura e a porta Capuana, per arrivare al centro della città, nell’ agorà, per dirla alla greca, ovvero al Foro, detta alla maniera di Roma. Camminiamo veramente su 2500 anni di storia: qui camminavano, ciondolavano, parlavano, svolgevano i commerci, abitavano, insomma vivevano, tutti quelli che ci hanno preceduto, fino ai coloni fondatori. I miscugli di varie epoche e di stili architettonici che incontro su questo itinerario ci restituiscono una immagine unica e documentata di tutte le epoche della città; basta guardare gli edifici religiosi come il campanile della Pietrasanta, costruita sul tempio di Diana, in stile romanico, ma nel quale sono incastrati frammenti di epoca romana, oppure le altre chiese che si incontrano sul cammino e lo stesso Duomo, nel quale si ritrovano colonne della epoca romana prelevate da costruzioni precedenti.
Campanile Pietrasanta.
Gli edifici privati, le abitazioni, furono costruite sopra gli antichi isolati – le “ insulae “ romane – rispettandone anche le angolazioni con le strade, incorporando i resti delle mura, dei templi ed delle domus, come fondamenta. Nei sottoscala di alcuni palazzi, nelle botteghe e nei “ bassi “, basta aprire una botola o scendere pochi gradini per ritrovarsi indietro di 2000 anni, basta scrostare un intonaco per rivedere un affresco. Io stesso ho visitato, scendendo per una botola di un “ basso “, i resti del teatro dove si era esibito l’imperatore Nerone, mentre sulla via detta dell’Anticaglia è visibile, e ci si passa sotto, un muro di contenimento di due edifici, ma che altro non è che una parte della platea del teatro all’aperto.
|