Il Presepe napoletano
Alessandra Doratti
Sebbene il presepe sia tradizione quasi universale, è difficile
separarlo da Napoli, da quella città che lo ha portato a diventare fatto
di vita, di costume, elevandolo, attraverso la genialità dei suoi
realizzatori, a dignità d'arte. Infatti i "pastori", cioè le figure del
presepe napoletano, rappresentano una tra le più felici creazioni
artistiche, famose per la loro originalità.
Il presepe o presepio è termine latino che indica la greppia, la
mangiatoia; come è noto da secoli si riferisce alla rappresentazione
storica della nascita e dell'adorazione di Gesù Bambino a Betlemme,
realizzata mediante figure ricavate da materiale di vario genere,
soprattutto terracotta, e inserite in un paesaggio di gusto
naturalistico. L'iconografia di questo genere va ricercata nei testi
biblici e negli apocrifi del Nuovo Testamento. Gli stessi magi, che sono
tre solo in una tradizione posteriore, e i pastori recatisi ad adorare
Gesù corrispondo alle indicazioni dei Vangeli apocrifi e di quelli
canonici.
Il primo fu opera di
San Francesco
La tradizione vuole che il primo presepe sia stato realizzato da S.
Francesco, che nella notte di Natale del 1223 fece celebrare nella
grotta di Greccio, presso Assisi, la santa messa davanti a una
mangiatoia con ai lati un bue e un asino.
Negli anni successivi e proprio a Napoli, grazie all'ordine francescano
protetto dai regnanti angioini, si diffonde l'usanza di festeggiare la
ricorrenza. Tra la fine del Duecento e l'inizio del Trecento il vescovo
di Amalfi, Andrea d'Alagno, fa costruire nel Duomo una grotta tutta
affrescata, con le figure presepiali della Madonna, S. Giuseppe e il
Bambino, con il bue e l'asino, e anche con qualche immagine del
committente. Ma è nella chiesa di S. Chiara che viene realizzato, sempre
nel Duecento, il più antico presepe napoletano, donato, secondo le
antiche fonti, dalla regina Sancia. Una scultura della "Madonna
giacente" è l'unica superstite di quel complesso e si trova ora al museo
di S. Martino.
Altro presepe monumentale stabile fu quello del 1280 in S. Maria
Maggiore a Roma, dovuto ad Arnolfo di Cambio e parzialmente conservato.
Le caratteristiche di monumentalità e stabilità sono presenti nei
presepi che si sono realizzati nei vari centri europei maggiori e minori
nel Quattrocento e nel Cinquecento, quando era già in uso l'impiego di
molte figure e di ampie cornici paesaggistiche. Celebri presepi
monumentali e stabili sono le creazioni di Giovanni e Pietro Alemanno in
S. Giovanni a Carbonara, ancora a Napoli.
La Chiesa favorì la diffusione del presepe, che oltre ad essere ritenuto
un veicolo di fede, limitava le rappresentazioni teatrali popolari di
argomento sacro. Pertanto, accanto alla produzione di presepi stabili
con grandi sculture, si andò diffondendo l'abitudine di costruire anche
nelle chiese, e quindi nelle case nobili e borghesi, presepi con figure
di dimensioni più piccole.
Bello e barocco
quello napoletano
Gli scultori napoletani diedero vita a un vero e proprio genere che nel
gusto barocco e tardo–barocco, prima ancora di approdare alla grazia
rococò che connota le più pregevoli creazioni, seppe aggiungere
inimitabili elementi paesaggistici. Celebre nel Cinquecento il presepe
eseguito dal bergamasco Pietro Belverte per il Cappellone del Crocifisso
in S. Domenico Maggiore di Napoli: i pezzi erano 28 e l'altezza, a
giudicare dalle due figure superstiti, di circa 140 cm. L'influsso del
Belverte, che si portava dalla terra d'origine l'amore per 1' arte
plastica, fu assai grande. Nei complessi lignei di S. Giovanni a
Carbonara e di S. Domenico Maggiore, i pastori non sono ancora giunti
alla grotta per adorare Gesù: a Napoli questa introduzione iconografica
si deve a Giovanni da Nola che inserisce per la prima volta un pastore
adorante nel famoso "Retablo di S. Eustachio" in S. Maria La Nova. Del
massimo scultore notano resta nella collezione De Ciccio a Capodimonte
la "Madonna in adorazione di Gesù Bambino", un "pezzo" di un altro
presepe. Il più famoso, tuttavia, è quello di S. Maria del Parto a
Mergellina, del 1520 circa, nel quale lo stesso Giovanni da Nola, rotti
ormai gli indugi, propone un gruppo di pastori che entra nella grotta.
Questo presepe commissionato dal poeta Jacopo Sannazzaro viene ricordato
per l'alta qualità artistica delle figure, fatta conoscere subito oltre
i confini del regno: lo storico napoletano Pietro Summonte lo descrive
in una lettera del 1524 al nobile veneziano Marcantonio Michiel.
Allievi diretti e continuatori del nolano furono Gerolamo D'Auria, e
Annibale Caccavello. Al fascino del presepe non seppe resistere neppure
S. Gaetano da Thiene, che ci intravide subito possibilità
didattico–morali e tentò, ma inutilmente, di comunicare un maggior
fervore religioso a quel mondo che rimase sostanzialmente laico nella
gioia di una rappresentazione più spettacolare possibile. Il primo
presepe dell'ordine teatiano fu realizzato nel 1534. La più antica
affermazione del prespe mobile si ebbe intorno al 1620, quando i pastori
"a tutto tondo" furono sostituiti da "manichini" coperti con vestiti di
stoffa. Ciò, come sostengono molti studiosi di questo specifico settore,
deriva dalla volontà e dal gusto di un secolo, il Seicento, che si
proponeva di colpire la fantasia, l'immaginazione dell'osservatore
attraverso la vivacità luministica, la ricchezza espressiva e fasto
dell'ambientazione scenografica. Fausto Nicolini, storiografo
napoletano, propone di assegnare ai gesuiti, anche in questo antagonisti
dei teatini, l'introduzione del presepe mobile a figure vestite. Ma la
verità storica è diversamente prospettata dagli studiosi più recenti: i
gesuiti vollero spiegare le finalità, che erano già quelle di S.
Gaetano, attraverso scene animate da figure con i costumi del tempo e in
consonanza con lo spirito di un'arte ricca e sfarzosa.
Che il presepe napoletano fin dalle sue origini non si sia imposto
finalità didascaliche sembra dimostrato da quello realizzato dagli
Scolopi nel 1627 nel quartiere della Duchesca. Il carattere di
spettacolo era accresciuto dai canti della novena, canti che si
trasformarono poi nelle "Cantate dei pastori", la più famosa delle
quali, ancora oggi eseguita, è di Domenico Giordano, nel 1730.
Alla stessa data appartengono quelle vedute prospettiche che
consentivano di rappresentare l'annuncio dell'Angelo e il viaggio dei
contadini verso la grotta in un ampio paesaggio popolato di case e
cascinali, di rupi e rovine, reperti archeologici evidenziati da effetti
di luci sapientemente ricavati da specchi nascosti, lamiere lucidate,
lampade opportunamente sistemate.
Forse è di questi anni, cioè dei primi decenni del Seicento,
l'introduzione iconografica della "Taverna" il luogo dove alla santa
coppia fu negata l'ospitalità. Lo spunto del racconto evangelico fu
trasformato e arricchito, e la taverna divenne elemento tra i più ricchi
d'interesse per l'ampia aggregazione scenografica che consentiva. Solo
la libera spregiudicatezza barocca e il suo amore per il naturale
potevano inserire questo elemento, che fu trasformato da
taverna–alloggio in taverna–osteria come se ne vedevano tante in una
città di mare e capitale di un vice-regno quale era Napoli allora.
Gli spettatori potevano ancora ammirare i broccati ricamati, le pietre
preziose, le collane di perle, le spille sui vestiti dei magi o delle
giovani cittadine o degli altri personaggi, in una scena che diventa
sempre più lo specchio di un mondo laico e popolare, di una ritualità
sempre più domestica e sempre meno sacra. Tutto ciò è a un tempo amore
per la teatralità, ma anche creazione di una dimensione fantastica in
cui popolo trasporta, su un piano spettacolare e favoloso, sia l'Oriente
dei magi e del loro colorato seguito, sia l'amore perle nuove mode delle
"turqueries" e delle "chinoiseries", di quelle curiosità che davano
smalto alla routine quotidiana della capitale. Un mondo composto e
vario: le figure, che verranno indicate come il giovane rè, il pastore
con la zampogna, la contadina, la "pacchiana", l'oste, il moro, il
vecchio con la gobba, il sultano, la nobil dama, sono realizzate tutte
in atteggiamenti connessi all' evento della Natività e sotto le spoglie
di individui che vanno ad adorare Gesù Bambino.
I maestri figurai del naturalismo
In queste creazioni Pietro Ceraso, che la tradizione vuole caposcuola
dei "figurari" in legno, seppe innestare nella plastica presepiale, su
una formazione classica, la vivacità popolare del naturalismo
partenopeo. Nel 1718 il presepe realizzato dal Ceraso a S. Chiara fu
sostituito per esigenze di moda e di cambiamento di gusto da quello che
possiamo considerare il primo vero presepe settecentesco, sia come
spirito e sia come collocazione temporale.
Una raffinata sensibilità già "rocaille" e una accentuata dimensione
profana sono i tratti più eloquenti del nuovo capolavoro. Le nuove
figure che vengono man mano ad inserirsi nel vecchio tronco sono spesso
il frutto dell'osservazione che l'artista rivolge alla realtà di tutti i
giorni, ai nuovi mestieri e alle nuove professioni, e testimoniano il
mutare dei tempi e il subentrare di differenti mode e istanze sociali.
Queste figure o "pastori", come si è ormai soliti chiamarle,
esprimeranno al meglio i loro caratteri, le loro pose, attraverso la
terracotta, nella quale le mani dei creatori seppero modellare e
imprimere quei tratti così tipici e osservati dal vero che ancora oggi
affascinano lo spettatore.
Alessandra Doratti