I grandi mobilieri del Settecento
Alessandra Doratti
Nel Settecento in Italia sono molti gli
ebanisti con nomi di origine straniera, ma non mancano le opere dovute
ad artisti italiani che oggi sono considerate autentici capolavori:
intagliatori di perizia straordinaria sono al lavoro in tutta la
penisola.
Se si può trarre diletto e forse una qualche istruzione nel parlare di
stili, di forme e di concetti artistici, non dovrebbe essere mai lecito
dimenticare che le opere d'arte in genere, e i mobili in particolare,
sono innanzitutto oggetti, cose fisiche. In quanto tali, dunque, è pure
necessario esaminarli: non a caso uno dei grandi ingegni dell'antichità,
Giulio Cesare, diceva che l'uomo è per metà anima e per metà animale e
che mai si doveva rinunciare a nessuna delle due qualità. In altri
termini: il fiore della poesia si nutre dell'humus della prosa. Come
sono fatti, dunque, quali sono le tecniche impiegate per la costruzione
dei mobili nel Settecento?
Gli italiani non furono allora ebanisti provetti: non staremo qui a
chiederci i motivi di questo dato di fatto dovuto probabilmente ad una
incapacità mediterranea per la meticolosa attenzione artigianale,
indispensabile a questo genere di fatica. Per ebanista infatti si
intende chi fa lavori in ebano, o anche in altro legno prezioso, per
mobili di pregio, il che implica la sistemazione, su una carcassa di
legno comune, di impiallacciature e talvolta di intarsi in rare essenze.
I rivestimenti dei più fastosi ambienti pubblici
Pazienza e accuratezza, quindi, che però non sono sempre state estranee
alla tradizione italiana: uno dei titoli di gloria dell'arte
rinascimentale sono le mirabili tarsie che ornano i cori di cattedrali o
di cappelle di grandi famiglie, gli studioli privati di famosi
personaggi come il duca d'Urbino, le porte o i rivestimenti di fastosi
ambienti pubblici come le sale di Palazzo Vecchio a Firenze o le Logge
di Raffaello a Roma. Ma col passare del '500 la tarsia si fa via via più
rara a misura che un nuovo senso architettonico sembra imporre regole
alla mobilia, un senso architettonico in cui alla tarsia (essenzialmente
pittorica) è consentito soltanto un ruolo marginale. Per quegli edifici
in miniatura che sono gli stipi è davvero più consona una superficie
perfettamente lucida sulla quale spiccheranno abbellimenti in altri
materiali.
Che gli italiani non siano quasi mai grandi ebanisti (ma ci saranno
luminose eccezioni) non implica che nell'intera penisola non si
facessero lavori di quel genere di eccelsa qualità, anche se per lo più
erano dovuti ad artefici nordici come il tedesco Giacomo Herman, attivo
nella Roma dei Papi barocchi, o il fiammingo Leonardo van der Vinne,
capo di una delle botteghe appartenute al granduca di Toscana. Anche nel
'700 i nomi di origine straniera sono i più frequenti: ancora un Ermans
Giovanni, lavora per il cardinale Chigi a Roma; certi Henzler alla corte
di Carlo di Borbone. Ma accanto a questi forestieri si hanno notizie
precise di diversi italiani: Andrea Mimmi è fornitore dello stesso
porporato di cui sopra, i Magnolfi sono colleghi degli Henzler a Firenze
e Gaspare Donnini, fiorentino, è il principale ebanista di Carlo III a
Napoli. Di altri nulla sappiamo: nomi senza opere, opere senza nomi.
Monsieur de Lalande, che fu in Italia tra il 1765 e il 1766 scrisse sei
volumetti accattivanti sul suo lungo periplo, rammenta: "di tutte le
arti meccaniche quella in cui i genovesi si sono maggiormente distinti è
l'ebanisteria: fanno infatti in questo campo delle opere assai delicate,
molto solide e del miglior gusto". Però nessun ebanista genovese sarà da
lui menzionato. E lo stesso destino tocca a quello che è il maggior
artefice italiano del secolo nel campo delle arti meccaniche, Pietro
Piffetti.
Monsieur Lalande e il
Piffetti definito "mediocre"
Quando Lalande visita il palazzo reale di Torino, eccolo attraversare
"una piccola stanza in forma di oratorio, rivestita di legni odorissimi
con intarsi di madreperla graffita. La disposizione generale di queste
incrostazioni è bella, ma le figure e gli arabeschi sono incisi
mediocremente". Non menziona l'autore di queste "mediocrità", il
Piffetti appunto, che era ancora in attività.
All'ebanisteria occorrono non solo legni esotici ma anche altri
materiali più peregrini. L'avorio, ad esempio, ottiene severi ma
eleganti contrasti se accostato all'ebano. Un tipo particolarmente
sofisticato di ebanisteria, così prezioso da sconfinare nel lavoro di
oreficeria, è quello dei tartarugari napoletani che rivestono piccoli
mobili di sottili lastre di tartaruga incisa e graffita d'oro, avorio e
madreperla (la stessa tecnica adoperata anche per cofanetti, pettini e
piccoli oggetti).
Il mobile di ebanisteria (comò, stipi, scrivanie, tavoli, rarissimamente
sedie) si completa sovente di supporti, guaine, applicazioni o veri e
propri abbellimenti in bronzo dorato; qualche volta, soprattutto a
Napoli e a Palermo vi sono anche incastonature di ottone, a mo' di
semplici cigli che delimitano le sagome e proteggono la serratura. Nei
mobili di destinazione aulica queste rifiniture diventano capolavori
della piccola plastica per alcuni dei quali sappiano i nomi degli
autori. A Firenze, lo scultore Giovanni Battista Foggini è responsabile,
tra Sei e Settecento, del disegno e dell'esecuzione di queste
squisitezze e, più tardi, in epoca rococò, altri artisti meno noti come
Romolo Bini eseguono bronzetti di questo tipo.
Il marchese estasiato
nelle botteghe del granduca
I mobili d'intaglio hanno sempre raggiunto eccelsi vertici qualitativi
in Italia. Già nel 1670 un figlio del famoso ministro di Luigi XVI,
Colbert, il marchese di Seigneley, si era estasiato durante la sua
visita a Firenze, nelle botteghe del granduca e si era soffermato ad
ammirare una corona di fiori intagliata "così bene eseguita che le
foglie non sembravano più spesse di quelle naturali". Oggi non ci sono
noti questi intagli, ma se si osservano le cornici attorno ad alcuni
dipinti di Palazzo Pitti si riscontrerà una straordinaria perizia
artigianale.
Intagliatori superbi furono all'opera non solo a Firenze ma un po'
ovunque in Italia: a Venezia, a Genova, a Roma e nello stesso Stato
della Chiesa. I mobili di tipo scultoreo sono, salvo qualche gloriosa
eccezione come quelli di Andrea Brustolon, in legni teneri o dolci e
dunque debbono essere dipinti, laccati o dorati per raggiungere
l'effetto ornamentale desiderato.
Questi procedimenti cambiano, come ogni cosa nella penisola, di capitale
in capitale: nel Meridione, ad esempio, c'è un particolare tipo di
doratura detto a mecca e che consiste nello stendere una vernice dorata
sulla superficie argentata in modo da ottenere qualche risparmio;
tuttavia nei mobili di corte il procedimento resta sempre quello più
costoso, per cui si utilizza la foglia d'oro. La lacca di origine
orientale ma adoperata a Venezia già nel Rinascimento godette grande
successo in tutta l'Europa, dall'Inghilterra, alla Spagna, ai Paesi
germanici. In Italia il suo impiego cambia di città in città anche se
fino a pochi decenni fa si riteneva che ogni opera di pregio dovesse
essere necessariamente veneziana. I luoghi comuni hanno sempre una
ragion d'essere: gli esempi veneziani del '700 raggiungono infatti un
livello qualitativo notevole dovuto alla meticolosa attenzione con cui
gli artigiani stendevano, mano dopo mano, l'amatissima vernice su una
superficie dipinta e scrupolosamente levigata.
Quei genovesi, parsimoniosi anche con la lacca...
Nei mobili laccati genovesi, invece, la decorazione dipinta è spesso più
sommaria e la lacca è data con fin troppa parsimonia; a Roma si
utilizzano spesso ornati a bassorilievo e i contrasti cromatici sono
piuttosto vivaci. Una soluzione decorativa molto originale fu adoperata
solo a Venezia: essa accostava la lacca a motivi sia orientali sia
occidentali con generose incastonature di madreperla. Questa felice
combinazione è rara persino in Oriente ma se ne conoscono esempi sia
cinesi sia giapponesi che dovettero essere noti in qualche modo alla
città. Nella stessa Venezia viene sovente adoperata la cosiddetta lacca
povera, tecnica meno costosa e raffinata che tenta di imitare - tramite
l'applicazione di figure e paesaggi stampati su carta, ritagliati,
coloriti e ricoperti di una vernice brillante - i più nobili ornati
sopra descritti.
Alessandra Doratti