I Maestri
dell'Ottocento veneto
Alessandra Doratti
Ben poche date di avvenimenti politici hanno inciso così profondamente
anche nella storia dell'arte, come quella della fine della Repubblica di
Venezia (1797). Questa data, per Venezia, significa la fine di uno Stato
che aveva alle spalle circa un millennio di indipendenza e tutta una sua
particolare personalità e stile di vita.
In sostanza per Venezia era continuato il Rinascimento per altri due
secoli, quando invece in Italia e in Europa la situazione era già
radicalmente mutata e le signorie erano oramai scomparse; a Venezia
regnava ancora un'oligarchia di tipo medioevale, ora inadatta e
sorpassata.
L'arte però non venne contaminata da questo "tramonto" splendido e
lunghissimo, ma subì, nonostante tutto, un continuo ricambio di idee
diffuso in ogni strato sociale e mantenne una fervida vivacità popolare
nel teatro, nella musica, nella scultura, nell'architettura, nella
pittura e nel pensiero. Basta citare soltanto alcuni nomi nell'arco del
Settecento e ci si rende subito conto della grandezza e del simbolo di
tutta una civiltà artistica che regnava a Venezia in quel periodo
(Bellotto, Canaletto, Guardi, Tiepolo, ecc.). Anche negli oggetti più
semplici si poteva riscontrare un'eleganza e una raffinatezza tipica
dell'arte veneziana, che era inconfondibile.
Ai primi dell'Ottocento, con i nuovi governi venivano a imporsi nella
città uno sconosciuto razionalismo e una squallida povertà. Nel 1797 con
il Trattato di Campoformido, Napoleone cedette Venezia all'Austria e il
suo equilibrio crollò letteralmente, poiché il cambiamento fu brusco e
violento. L'arte dell'Ottocento a Venezia è legata alle vicende
politiche, sociali ed economiche che la città subì, anno per anno,
durante tutto il secolo nello stesso ambiente, tra gli stessi palazzi, i
campi, i canali, la laguna che avevano visto fiorire il rigoglio delle
epoche precedenti. Il suo cambiamento non è soltanto dovuto all'avvento
del neoclassicismo, dell'Accademia, ma è dovuto alla sua
interpretazione, in un particolare terreno immiserito dalle singolari
condizioni politiche, sociali ed economiche. La tradizione dei vedutisti
veneziani del Settecento non poteva essere troncata improvvisamente dai
princìpi neoclassici che ai primi dell'Ottocento diedero un indirizzo
fondamentale alla pittura. Quel rigore di ricerca scientifica esaltato
da Carlevaris, Bellotto, Marieschi e soprattutto da Canaletto ha una sua
continuità ai primi dell'Ottocento; non è più così rigorosamente freddo
e perfetto ma si pervade di un vento tiepido, di un'interpretazione
romantica che dà origine a quella tipica vena di poesia che diverrà più
vivace e autentica nel realismo popolare e borghese di fine secolo.
L'artista che sta nel
mezzo tra Settecento e Ottocento è Giuseppe Bernardino Bison (1762-1844)
che studiò all'Accademia di Venezia quando questa aveva ancora la sede
presso San Marco. Il temperamento artistico del friulano Bison si forma
alla scuola di Giandomenico Tiepolo e a quella di Francesco Guardi, come
hanno dimostrato con certezza numerosi suoi disegni esposti in una
mostra tenutasi nella città di Udine nel lontano 1963. Secondo la
richiesta del tempo, il Bison decorava ad affresco una serie di palazzi,
ville e castelli nelle città e nelle province di Padova, Treviso, Udine,
Zara e Trieste. L'impostazione delle figure e del paesaggio rievoca i
modelli più noti del Settecento veneziano: oltre ai Tiepolo, Guardi e
Canaletto egli si rifà anche a Marco Ricci, Giuseppe Zais e Antonio
Diziani. Ma nella brillante fecondità della sua mano si vede che il
pittore non crede per nulla all'immenso teatro che viene riproponendo:
vi predomina, anzi, un sentimento di ironia che lo distacca sempre più
dal Settecento e dall'Accademia neoclassica dei primi Ottocento. Il
pittore giunge così a un estroso eclettismo, alle sue "vedute
fantastiche" a tempera che appartengono già all'arte romantica. Bison è
un provinciale vissuto nomade in terra veneta che guarda prima alla
Venezia settecentesca senza rimpianti e poi a quella neoclassica da
lontano, seguendo il corso della sua fantasia che dalle scene alla
Guardi lo condurrà ad alcuni dei primi e più importanti paesaggi
romantici del nostro Ottocento.
Nel decennio 1830-40
venne a mancare, per un fenomeno di impoverimento della cultura, la
vivacità della grande pittura romantica che porta in Europa i nomi di
Turner, Constable, Géricault, Delacroix e Corot. Imperano la scultura e
il classicismo del Canova. La stagione più intensa della pittura
veneziana dell'Ottocento si inizia con Federico Zandomeneghi e Guglielmo
Ciardi. Incomincia un atto di ribellione. Nel 1860 Zandomeneghi, figlio
e nipote di illustri professori dell'Accademia, invia ai genitori una
lettera tutta traboccante di sentimento patriottico e parte volontario
in Sicilia al richiamo di Garibaldi.
Dopo la rivoluzione del 1848-49, a Venezia si erano un po' mosse le idee
anche in pittura a seguito dell'arrivo dalla Lombardia e dalla Toscana
di Cabianca, Abbati, Cremona, Signorini e Vito d'Ancona. Zandomeneghi
presenta agli amici di Firenze il giovane Guglielmo Ciardi che nel 1868,
nell'euforia della liberazione, intraprende un viaggio di un anno per
conoscere a fondo la pittura italiana.
Il suo maestro, Domenico Bresolin (1813-1899), aveva avuto il merito di
rinnegare il consueto paesaggio elaborato sugli schemi tradizionali e di
portare i suoi allievi a dipingere all'aria aperta, ispirandosi
direttamente alla natura.
Guglielmo Ciardi
(1842-1917) va a Firenze e dipinge insieme a Telemaco Signorini,
partecipa alle discussioni dei macchiaioli al Caffé Michelangelo, si
incontra a Roma con Nino Costa; si reca a Napoli e stringe amicizia con
Morelli e Palizzi, viene a conoscenza dell'opera di Antonio Fontanesi.
Il viaggio dunque si conclude con una conoscenza diretta di Guglielmo
Ciardi della migliore pittura italiana del tempo. I rapporti fra i vari
pittori italiani si fanno infatti in questo periodo intensi, stretti,
profondi e quanto mai proficui risultano i reciproci influssi.
Da un'antica linfa ritorna sotto un altro aspetto nella pittura
veneziana dell'ultimo Ottocento il lieto carattere distintivo del bel
colore con un timbro nuovo e vivace, che non discende dagli azzurri
velati di leggera malinconia dei cieli dell'Arcadia oppure dall'eleganza
di un costume inebriante com'era quello del Settecento, ma da una forza
popolare tutta scoperta, franca e perfino ingenua nella sua schiettezza.
Il Canale della Giudecca è uno dei quadri più famosi di Guglielmo
Ciardi: un'inquadratura ferma ed estatica della luce di Venezia, ove
sulla linea lontana dell'orizzonte il profilo delle case diviene irreale
nell'ingrandirsi dello spazio, che si illumina sullo specchio lucido
dell'acqua e si esalta nello splendore del cielo. La dilatazione dello
spazio suggerisce un superamento di quello fisico, verso una conquista
mentale della luce, come creazione di fantasia espressa con una
nitidezza che è unica nella nostra pittura dell'Ottocento.
Il taglio dei paesaggi di campagna trevigiana (dove il Ciardi risiede
gran parte dell'anno) è largo e spazioso e si fonda su due toni che sono
dominanti nella sua tavolozza, i verdi e gli azzurri. I verdi dei prati
in tutte le gamme, con una osservazione diretta, sono modulati in una
amplissima prospettiva che si fonde nel trascolorare delle luci del
cielo. Se idealmente accostiamo i migliori paesaggi italiani di
quest'epoca, quelli di Fattori, Signorini, Dalbono, Costa, Fontanesi, ad
esempio, notiamo per rapporto i caratteri di Guglielmo Ciardi: nessun
principio teorico né di pittura a macchia come nei macchiaioli, né di
sfumato romantico come in Fontanesi; ma un'immagine che si caratterizza
per la trasparenza del colore, che tende per vitalità propria ad
allargare sempre più il campo visivo con la partecipazione di uno stato
d'animo limpido e teso. Guglielmo Ciardi stesso non riuscirà, più tardi,
a mantenere questa nitidezza di impianto, che tende a spostare il punto
di fuga verso una lontananza più pensata che vista. Dobbiamo segnare per
lui una parabola discendente (se così si può dire) dopo una spettacolosa
serie di opere della giovinezza, forse a motivo delle troppe tentazioni
che aveva un pittore in quel tempo a Venezia.
Federico Zandomeneghi fu il primo a ribellarsi alla vecchia aria di
provincia, che pesava sotto il dominio austriaco. Entrato in stretto
contatto con gli artisti fiorentini, dimostra subito di aver appreso la
lezione in profondità e di saperla tramutare in una pittura tersa e
cristallina.
Nel 1874 l'artista si reca a Parigi per soggiornarvi qualche settimana e
invece vi rimane per quarantatré anni, fino alla morte. Appena giunto
lì, la sua tavolozza di veneziano, chiara e luminosa, si colora
dell'ammirazione per le nuove esperienze dell'arte francese, nei
paesaggi colti dall'alto al basso, in una visione già tutta
impressionistica, specie nei toni caldi. Questi sono gli anni più belli
di Zandomeneghi in cui la nuova esperienza stimola le sue innate qualità
e ne esalta la parte migliore sotto l'influsso degli amici Degas e
Renoir. L'amicizia con Degas era nata nel 1878; Zandomeneghi, nonostante
i difficili caratteri e le piccole liti, coltivò questa amicizia per
tutta la vita. Già dal '78 l'artista aveva rinunciato, pur con molto
rimpianto, alla decisione di ritornare a Venezia: voleva tornarci da
"artista arrivato" e riconosciuto nel suo valore.
Non ebbe a godere mai di quella soddisfazione e non fu compreso neppure
quando Vittorio Pica, nel 1914, insistette per presentare le sue opere
in una sala della Biennale. A differenza di Boldini, Zandomeneghi appare
discreto anche nei rapporti con il bel mondo di Parigi.
L'artista veneziano cerca nuovi soggetti, onde allargare la tematica dei
suoi quadri: coglie i bambini che giocano tra le aiuole nei giardini
pubblici, oppure un gruppo di fanciulle che cantano intorno alla mamma
seduta al pianoforte, da consumato pittore impressionista. Ma l'abuso
del pastello farà sentire a volte la stanchezza della maniera.
Il taglio di Zandomeneghi è spesso originale: ad esempio le figure sono
colte alle spalle in un momento di conversazione, sul profilo dello
schienale del divano, e sullo sfondo della tappezzeria vi sono toni
morbidi di pastello, oppure sono riprese mentre sono immerse in un dolce
e trasognato abbandono. Egli sa far sprigionare dalla figura, portata in
primo piano, un calore confidenziale, di intimità, sa sorprendere un
improvviso momento di espressione, come in alcuni ritratti, spesso con
affettuosa comunicazione umana.
La pittura veneziana della fine dell'Ottocento vanta una fioritura non
comune di artisti e con il sorgere della prima Biennale nel 1895 si
aprono le porte dell'arte moderna che pone nuovamente Venezia e l'arte
italiana in stretto rapporto con le correnti artistiche allora più in
vista.
Alessandra Doratti