GRANDE GUERRA
(1915-1918)
Le origini remote
II
TERRE IRREDENTE
Trieste e i suoi
cinque secoli di resistenza — Il Comune quattrocentesco — Hermet e
Venezian — Roma nel Trentino — I principati di Trento e Bressanone —
Bronzetti — L'Istria latina — I vessilli di San Marco — I volontari
istriani — Gli irredenti per l'indipendenza d'Italia — L'epigrafe di
Attilio Hortis — Un mostruoso conglomerato amministrativo — Gorizia
baluardo d'italianità — Ascoli e il suo maestro — Dalmazia romana e
veneta — Fatidiche parole di Tommaseo — Fiume
e i magiari.
____________________
Se il nome di Trieste
è cinto di così fulgida aureola, una ragione sola basta a spiegarlo: per
cinquecento anni Trieste fu oppressa dall'Austria e per cinquecento anni
essa resistette, facendo stupire il mondo con la inestinguibile fiamma
del suo sentimento.
La romana Tergeste fu parte cospicua della decima regione d'Italia; il
regime medioevale di Trieste fu mirabile esempio di Comune italico; il
dominio austriaco a Trieste non fu instaurato che per atto
d'usurpazione. I triestini di tutti i tempi — nota Attilio Tamaro in un
mirabile quadro dell'italianità di Trieste — lottarono tenacemente, con
passione ed anche con eroismo contro l'Austria per impedire ogni
turbamento della loro indipendenza municipale.
Niccolò Tommaseo
I triestini avevano accettato la nuova condizione, come scrisse uno
storico antico, « per vivere in pace e conservare la cara libertà »: non
poterono avere la pace, ma vollero difendere la libertà. E le ribellioni
contro i tentativi di soperchierie fatti dagli austriaci a danno del
Comune incominciarono tosto. Già nel 1364 avvennela prima ribellione
contro il nuovo ordine di cose. La repressione fu feroce: molti
cittadini furono appiccati.
Ma l'idealità rivelata da quella prima ribellione rischiarò con la sua
fulgida luce tutto il Quattrocento. Questo secolo è il più ignoto della
storia triestina edè il più superbo: il Comune di Trieste, il Comune
della piccola città di poche migliaia di abitanti, rivivendo lo spirito
gagliardo e animoso degli antichi Comuni italici, dando mirabile prova
di quell'amore della libertà che fu caratteristica di tutte le
repubbliche del Quattrocento, assurse a vera grandezza lottando per
mantenere intatta la sua indipendenza. Nel 1468 Trieste s'sollevò e
cacciò gli austriaci: che tornarono e allagarono di sangue la città. Ma
Trieste restò italiana. Nel secolo successivo la cancelleria imperiale
prese a mandarle atti scritti in tedesco: e Trieste respingeva gli atti
e rispondeva d'ignorare quella lingua. La cancelleria insisteva: e
Trieste rimandava ancora le carte, dichiarando che essendo la città
entro i confini d'Italia, il suo idioma era l'italiano.
Quando alla fine del settecento fu soffocata nel sangue la Repubblica
Partenopea, primo episodio della rinascenza unitaria della nazione,
Trieste offrì vittime triestine alla causa della libertà italiana. Primi
martiri, — dice il Tamaro, — primi e sacri testimoni della nuova anima e
della volontà italiana di Trieste, che nel Risorgimento e nella lotta
nazionale si sono poi affermate con incessanti sacrifici, con
indistruttibile energia, con inconcussa e ardente fede italiana.
Un magnifico periodo di lotta per l'italianità si svolse a Trieste verso
il 1840, per impulso dato da un gruppo di intellettuali : Somma,
Dall'Ongaro, Gazzoletti, Besenghi degli Ughi, tutti poeti. Con essi fu,
giovanissimo, il prof. Zupelli, padre di quel Vittorio che doveva
divenire generale italiano e ministro della guerra. L'Austria represse,
importò slavi e tedeschi, falsò i censimenti, alterò il senso palese
delle leggi. Il sentimento nazionale sopravvisse e s'accentuò. Nuove
lotte si accesero: e in esse grandeggiò la figura austera di Francesco
Hermet, come più tardi l'italianità di Trieste doveva trovare quasi la
sua individuazione in Felice Venezian.
Le guerre per l'indipendenza italiana ebbero sempre combattenti
triestini: il loro numero è legione. E un volontario tributo di sangue
offerse alla sua Trieste colui che chiedeva all'avvenire la vendetta:
Guglielmo Oberdan.
Gli ultimi decenni di storia triestina si possono riassumere in quattro
parole: implacabile oppressione, incrollabile italianità.
Roma antica rimontò passo a passo la valle dell'Adige verso le
scaturigini: e cominciò per occupare Trento, già fiorente municipio. Poi
montò verso le gole dell' Isarco e s'affacciò al Brennero. Roma, —
scrive Ettore Tolomei, che insieme al fratello Ferruccio fu il geniale
illustratore dell'Alto Adige, — Roma, compiuta la conquista della
Penisola, per sette secoli mantiene sull'Adige il suo dominio.
Si stendevano al di là dell'arco alpino le immense Provincie
dell'impero, ma dentro la sacra cinta posava in pace la sacra Italia.
È certo che fin dai primi secoli Roma tenne al Brennero un presidio
stabile. Ciò comprova che tra la difesa della regione italica cisalpina
e la conservazione delle transalpine Provincie Roma fece natural
divario, fissato al Brennero il termine sacro. Roma conserva memorie di
quella sua terra lontana. Sorge presso una delle sue porte l'arco
trionfale di Druso, il conquistatore del Brennero. Nel Medio Evo le
regioni trentine seguirono le vicende delle altre terre italiche. Anche
sull'Adige sorsero i Comuni, uguali agli altri della penisola. Dopo il
mille si costituirono i principati di Trento e di Bressanone: e durarono
otto secoli. Vassalli dell'Impero, come il resto d'Italia, erano però
annoverati tra i feudi d'Italia. Sull'esempio di Nicolò Cusano, ch'è
sepolto a Roma, non pochi di quei principi resistettero fieramente
all'usurpazione straniera.
Nei maggiori centri mai si spense la memoria degl'istituti civili di
romana origine: vi si riscontrano anche nel medio evo copiosi elementi
di diritto romano.
Nell'Oltradige l'elemento italiano non solo si mantenne vivo, ma,
fieramente restio alle prepotenze dei feudatari tedeschi, tramò contr'essi
la celebre congiura di Caldaro.
La pertinenza del Trentino e dell'Alto Adige all'Italia fu sempre
considerata come una verità assiomatica.
Dante ricorda l'Alpe che serra Lamagna sovra Tiralli, sopra il
castello, cioè, e contea di Tirolo, là dove appunto sono le Alpi Venoste
e Passirie, arco della grande catena spartimari. I confini alpestri del
bel paese cantò il Petrarca nei famosi versi. Le cronache
italiane del tempo comprendono in Italia e Trento e Merano. Le antiche
Carte italiane ascrivono alla regione veneta il bacino dell'Adige
intiero. I dispacci degli ambasciatori veneti del 1500, parlando dei
monti fra l'Inn
e l'Adige, dicono : « il confine d'Italia ». Le insegne di S. Marco, —
narra il Tolomei, — s'affacciarono alla Posteria; gli straldiori
veneziani spinsero le loro scorrerie fino in Marebbe. Venezia era al
sommo della sua potenza, della sua gloria; il fascino leggendario del
suo nome s'imponeva di valle in valle all'intera regione atesina, che
per ogni forma di vita civile dipendeva dalla gloriosa Dominante. Giunta
la Repubblica coi suoi confini al di sopra di Rovereto e d'Ampezzo, essa
mirava evidentemente alla signoria di Trento e di Bolzano....
Il tenace sforzo di quella secolare ascesa andò perduto nella storica
giornata di Galliano. La rotta del Sanseverino davanti a Trento segnò la
fine della espansione veneta, pose un termine ai progressi della
Repubblica in Val d'Adige. Da allora gli Asburgo, che il Botta giudicò
dinastia di briganti, ebbero la mano libera per l'usurpazione violenta.
Profittarono essi delle angustie di Venezia nell'intento di assidersi
sulle Alpi e quindi tenere in pugno la Penisola.
Un istituto importante del medio evo atesino furono le zecche di Merano
e di Bressanone.
Il Re d'Italia, nel
suo monumentale Corpus nummorum italicorum, ha compreso queste
due zecche storiche dell'Alto Adige, tenendo a limite d'Italia la
dorsale alpina. Passano i secoli. La rinnovata forza latina corre
vittoriosa sulle terre trentine con gli eserciti di Bonaparte. E il
Trentino viene aggregato al Regno d'Italia. Caduto Napoleone, il
Trentino cadde in mano all'Austria, e contro l'Austria si svolse quella
fiera resistenza, che onora la fibra e la coscienza nazionale della
popolazione trentina. La resistenza era diretta a fronteggiare: sempre
rinnovati tentativi di germanizzazione....
La prima arma dell'Austria, la più formidabile, quella di cui sempre
usò, fu l'annessione forzata, innaturale del Trentino alla provincia
tedesca del Tirolo; la sottomissione cioè di una popolazione italiana di
trecentottantamila anime ad una tedesca di oltre mezzo milione.
Con la annessione al Tirolo, — scrive l'on. Battisti, il valoroso
deputato di Trento, — il governo austriaco non riuscì a piegare il
paese; riuscì invece a impoverirlo. I frutti dell'annessione furono
questi : il Tirolo è ora ricco di ferrovie, di strade, di pubbliche
istituzioni, ed » sulla via di un fiorente sviluppo economico; il
Trentino, vittima di una brutale maggioranza tedesca, ha pagato le spese
per gli oppressori; ed è rimasto dissanguato. L'anima trentina
resistette. Le galere austriache dì Innsbruck, di Stein e S. Poelten
presso Vienna, di Kufstein, di Przemysl, hanno per un secolo intero
ospitato sempre gli uomini più combattivi e più generosi del Trentino.
Ma le condanne restarono senza effetto....
Nelle guerre del Risorgimento il Trentino diede all'Italia schiere
d'eroi : assai le avrebbe dato anche con uno solo, che si chiamava
Bronzetti! L'Istria è latina, come le più nobili regioni italiche.
Nessun' altra, per chiara discendenza da Roma e per fede tenuta nella
metropoli del mondo, può superare quanto legittimamente vanta la terra
istriana. Prima dell'era nostra, l'Istria faceva parte della decima
regione d'Italia; per 633 anni seguì fedelmente i destini di Roma. Poi
sotto la nominale signoria di Bisanzio, — ricorda Giuseppe Stefani, —
l'Istria organizzata in autonomie comunali, manda i suoi legionari a
Legnano, vede prigioniero nella battaglia di Salvore Ottone, figlio del
Barbarossa, e collegata a Venezia si batte contro Slavi, Avari, Unni e
Saraceni per difendere l' « honorem beati Marci absque jussu imperatoris
», Nel periodo di transizione feudale, tutti i sovrani germanici nei
loro trattati con Venezia annoverano gli istriani fra le genti italiche,
partecipi delle franchigie elargite ai tempi di Carlo Magno, mentre i
liberi Comuni istriani non riconoscono per loro legittimo signore il re
tedesco se non quando si cinge della corona d'Italia. I diplomi istriani
alla Cancelleria imperiale sono controfirmati dal cancelliere per gli
affari d'Italia. Nel secolo XIII il particolarismo comunale italiano
dell'Istria, per libera sottomissione, si fonde nella massima
organizzazione comunale italiana : Venezia. Da allora fino alla pace di
Campofonmio, Venezia domina l'Istria non con la forza delle armi, ma con
la suggestione della sua potenza, con la poesia dei suoi ardimenti, con
la saggezza della sua politica. E per 500 anni l'Istria dà alla
Repubblica la sua fedeltà più profonda, dà i legni dei suoi boschi per
le navi, le pietre delle sue cave per i palazzi, il sangue dei suoi
figli per la storia di quella che è veramente la Dominante. Quando
Venezia cade, chi piange ammainando dalle antenne i vessilli di S.
Marco, la gloria dogale che tramonta, non è la nobiltà veneziana, molle
ed indifferente, ma il popolo d'Istria, il popolo di Dalmazia. Poi viene
il dominio austriaco... La parentesi napoleonica assegna nel 1805
l'Istria ancora una volta alla sua Venezia, all'Italia; ma l'Austria,
dopo la riconquista, stacca l'Istria dalla Venezia : a nulla valgono le
proteste istriane. Amministrativamente separata, la penisola istriana
continua però moralmente ad essere unita alla sua antica signora; ed
ecco, quando Venezia, stretta d'assedio dalle truppe imperiali, sta per
cadere di fame, i marinai istriani violano il blocco e portano viveri ed
armi agli eroi della repubblica, ed ecco si battono per Venezia;
Marcantonio Borisi, che in una sortita da Mestre asporta al nemico pezzi
di artiglieria, e Alessandro Almerigotti, ferito a morte a Marghera, e
Alessandro Codina, morto di colera nella città assediata, e Giuseppe
Draghicchio e Giuseppe Rubinich e Pietro Scarboncich e Luigi Ritozzo,
tutti feriti, e Giovanni Bevilacqua, che sfida la morte una volta sotto
il forte Montedoro, tre volte a Campalto e oltre venti volte sulle
zattere, e Giovanni e Lodovico Almerigotti, che, dopo la resa, l'Austria
punisce incorporandoli nell'esercito imperiale. Questo fecero gli
istriani per l'Italia.
E intanto a Francoforte i deputati istriani Madonizza, De Franceschi,
Vidulich e Facchinetti protestano davanti alla Costituente tedesca
contro la minaccia di aggregare l'Istria alla Confederazione germanica,
contro gli eccessi delle truppe di Radetzky in Lombardia, contro il
rifiuto governativo di riconoscere l'italiano come lingua esclusiva
d'ufficio.
La reazione s'abbatte dopo il 1848 anche sull'Istria, che sogna e vuole
una patria, ma non le può togliere la sua profonda coscienza italiana.
Nel 1859 le donne dell'Istria inviano a Vittorio Emanuele la bandiera
del 37° reggimento e dicono : « Sono le donne dell'Istria le quali,
pegno di loro lagrime, vi mandano ed offrono questo stendardo, questo
labaro di certa salute, ricordando che l'Istria fu sempre italiana, da
quando Roma le affidava la guardia del varco più geloso d'Italia, fino
al giorno in cui ella sotterrò l'adorato stendardo di S. Marco ».
E nel '60, quando Garibaldi apre la sottoscrizione per un milione di
fucili, i popolani dell'Istria mandano, scusandosi di non poter dare di
più, 1000 franchi : « Dite all'Italia, — essi scrivono, — dite a
Garibaldi, dite al Re nostro che quanto ci avanza di danari e di sangue
è per loro, e che, quantunque guardando senza illusione al futuro non ci
sorrida né brilli sicura la speme di essere tra i primi degli oppressi a
veder trionfante e libero agitarsi sulle nostre torri l'italiano
orifiamma, non muore in noi la fede, non in noi viene meno l'ardore del
sacrifizio ».
La fede infatti non vacilla quando nel 1861 la Dieta istriana, chiamata
a mandare i suoi deputati al Parlamento di Vienna, risponde con 20 su 27
schede: « Nessuno »; quando essa vota un indirizzo all'Imperatore
d'Austria, a patto però che non gli omaggi contenga, ma i bisogni della
provincia. Viene il 1866; tra i giovani che s'arrolano con Garibaldi si
distinguono Girolamo Gravisi, Giovanni Vascon, Michele Gallo, Carlo
Depaugher, Francesco Venier, Domenico Grio, Domenico Vidacovich, Pietro
Madonizza e quel Cristoforo Venier, capodistriano, che s'era già battuto
nel 1860-61, che nel '59 era rimasto ferito a Solferino e che, ferito di
nuovo a Custoza, riprenderà le armi per entrare con le truppe del Re
nella capitale d'Italia il 20 settembre del 1870. Tutte le terre
irredente, del resto, andarono a gara nel dar combattenti alle guerre
per l'indipendenza d'Italia.
Nel '48 erano sotto le armi i goriziani Francesco Scodnik, che poi fu
professore alla R. Accademia militare di Torino, istruttore de' principi
Umberto ed Amedeo, combattente nel 1859, comandante del collegio
militare d'Asti, maggior generale, presidente del tribunale militare ad
Alessandria e a Napoli; e il barone Antonio Steffaneo-Camea, che
raggiungeva il grado di tenente colonnello nell'esercito nazionale; ed
Alessandro Clemencich, il quale, entrato a far parte dell'esercito
sardo, si battè pure nel 1849, in Crimea nel 1855, nel 1859,
guadagnandosi la medaglia al valor militare e il grado di capitano.
Alla difesa di Roma, nel '49 fu Narciso Bronzetti e con lui altri
trentini: Edoardo Negri. Francesco Mattedi, Pietro Bertelli, morto
combattendo; Achille Bevilacqua, Pietro Cavali, don Pietro Casanova di
Peio, l'ing. Carlo Marzari, Domenico Bicio. E, come dice il Guerrazzi, «
dalmati ed istriani in tanto solenne occasione vennero anch'essi a
sigillare col sangue il patto di famiglia che lega tutti gl'Italiani
intorno a Roma come le verghe intorno alla scure ».
Di triestini v'era Giuseppe Revere, il poeta, l'amico e collaboratore di
Mazzini; e con lui era Filippo Zamboni, egli pure triestino, capitano
del battaglione universitario del quale salvò la bandiera, e morì
professore al Politecnico di Vienna. E triestino era il prode Giacomo
Venezian, ferito a morte a Villa Spada, del quale disse il Guerrazzi : a
Combattè come uomo che abbia fede; stieno a contemplarlo gli eroi, onde
la Italia si mantiene maraviglia e spavento... Morì il 2 luglio, dopo
lunga e dolorosa agonia. La madre, udito il caso, accorse frettolosa, ma
lo trovò cadavere; indi a breve, tribolando, seguiva nel sepolcro il
figliuolo ». E a Venezia e a Marghera erano i triestini Giovanni
Orlandini, auditore maggiore del Governo provvisorio e capitano de'
Cacciatori del Sile; Filippo Coen, ferito; e Francesco Erberti, morto
sul campo. E dalmati erano il sedicenne Stefano Zurcovich, e il tenente
Giorgio Caravà, disertore dell'Austria, soldato poscia di Garibaldi e di
Vittorio Emanuele, maggior generale dell'esercito italiano ed aiutante
di campo di Re Umberto; e l'Antunovich, ufficiale, e il colonnello
Giuseppe Galateo; e suo figlio Francesco, poi tenente colonnello
nell'esercito italiano; e il medico Demetrio Mircoviclh e Luigi
Seismit-Doda, poi generale nell'esercito italiano, e il sergente
Sudarovich e Gelich e Decimovich, gloriosamente feriti.
Del Trentino v'erano Federico Martini, capitano d'artiglieria a
Marghera, poi ufficiale nell'esercito italiano; e Giovanni Battista
Adami e Domenico Bonetti, ricordati in documenti dell'epoca per
l'intrepidezza addimostrata. Nel '59 andò al campo il maestro Antonio
Coiz, del Friuli Orientale, alla testa degli allievi ch'egli aveva
educato in Istria. E il trentino Adami istruiva le compagnie alpine, e
il tenente Leopoldo Martini, trentino egli pure, cadeva a San Martino
alla testa dei suoi bersaglieri. Di Narciso Bronzetti inutile ricordare
ancora il nome: Garibaldi lo aveva chiamato il prode dei prodi. Dei
mille furono i trentini Armani Antonio, Baratieri Oreste, Bezzi Ergisto,
Bolcego Tomaso, Toller Domenico detto Costa Giacomo, Dalla Costa
Giovanni, Fattori Antonio, Fontana Giuseppe, Giovanazzi Francesco,
Isnenghi Enrico, Leonardi Giuseppe, Manci Filippo, Moiola Quirino,
Martori Pietro, Sterchele Anselmo, Tranquillini Filippo, Zancani
Camillo, Zanoni Attilio. Del Friuli goriziano erano Cesare Michieli e
Francesco Bidischini e Giovanni Bertossi e Marziano Ciotti e Alfonso
Morgante. Pilade Bronzetti, trentino, cadeva da eroe. Sul monumento di
Castel Morone, l'epigrafe dettata da Matteo Renato Imbriani grida:
« 1° Ottobre 1860 — Pilade Bronzetti duce consacrava col sangue — Castel
Morone — Rimprovero ai viventi — in nome dell'Ideale — per cui cadde —
le sue ossa chiedono — Trento ».
Di Fiume erano combattenti per l'Italia nelle guerre dell'Indipendenza
Zanetto Rossini, Carlo Pogletyen e Carlo Marusiè : quest'ultimo ferito a
morte nella difesa di Marghera.
Altri ed altri combattenti ancora : i triestini Ferolli e Donaggio, i
trentini Carlo Chimelli, Vigilio Inama, Giovanni Jagher, Alessandro
Zinis, Carlo De Pretis, Ferdinando Rinaldi, Virgilio Covi, e Manci, e
Leonardi, e Zanolli.
Cadevano a Condino sei triestini : Capria, Giuseppe Donati, Filippo
Faienz, Giuseppe Penali, Walfer e Pietro Chiozza.
Nel '66 erano con Garibaldi nel Trentino Isidoro Canella di Riva e
Cortella e Battorchi; e due Bresciani, due De Pretis, due Molinari, due
Ducati, due Tavernini, due Eccheli, due Wais, tre Sizzo de Noris e
quattro Martini: tutti trentini.
Combatterono per l'Italia nel 1866 anche Davide Milla, Eugenio Popovich,
Giuseppe Caprin, Gustavo Buchler, triestini; Angelo Mazzini, goriziano.
A Villa Glori erano i triestini Giusto Muratti, Pietro Mosetig e G. L.
Vidali. A Mentana cadeva il trentino Pollini; eran con lui Maddali
triestino e Tivaroni dalmata.
E anche quando Garibaldi portò la sua spada in aiuto alla Francia
sconfitta e fece rifulgere a Digione il valore delle armi italiane,
erano con lui i volontari delle terre irredente
Ma torniamo alla nobile terra istriana. L'Austria non dimentica.
L'ardente amore all'Italia, che l'Istria ha dimostrato con tanta
costanza e con tanti sacrifici, le vien fatto scontare duramente dal
governo di Vienna.
L'Istria è profondamente italiana: e l'Austria la vuole slava per forza.
L'arte delle belle città marinare, quell'arte che dà loro linee e sfondi
di suggestione incomparabile, è romana, bizantina o veneta; la coltura
istriana nelle sue forme più varie, dal Carli al Vergerio, dal Besenghi
degli Ughi al Picciòla, dal Tartini allo Smareglia, è tributaria di
quella d'Italia; la storia dell'Istria è inconfutabilmente italica e la
nostalgica poesia di quella storia s'eterna nei segni di San Marco
murari sui municipi e sui palazzi, nella arena romana di Pola e nella
basilica bizantina di Parenzo.... Non importa. L'Austria vuole un'Istria
slava. Comincia allora una lotta a coltello contro ogni spirito ed ogni
forma d'italianità. I fatti, gli scrutini, i censimenti: tutto viene
contorto, falsato, pur di dar apparenza di verità alla voluta
metamorfosi. La legge, complice dei superiori voleri, si piega a
diventare oppressione. Le autorità austriache hanno un compito solo in
Istria: snazionalizzarla! Quale sia stata questa violenta opera
snazionalizzatrice dimostrano gli ultimi cinquant'anni della storia
politica istriana, durante i quali non ci fu forma di vita intellettuale
ed economica che Vienna non abbia cercato di arricchire in favore degli
slavi, di depauperare a danno
degli italiani. Tutti i campi dell'amministrazione furono fatti servire
a questo fine: in primo luogo quello della scuola.
Un fatto vale per
tutti. A Trieste fu murata una lapide che dice :
«li 15 gennaio del 1899 — I deputati e i podestà — Dell'Istria, di
Trieste e del Friuli orientale — Qui adunati — Affermarono — Contro le
novissime pretensioni di altre genti — L'indelebile millenario carattere
italiano — Della regione — Posta tra le Alpi Giulie e il Mare ».
La epigrafe di Attilio Hortis è scolpita nel marmo incastrato nella
parete maggiore della palestra ginnastica di Trieste. In quel giorno vi
fu il Congresso dei deputati e dei podestà dell'Istria, di Gorizia, del
Friuli orientale per protestare contro la istituzione di un ginnasio
serbo-croato nella nobile città di Pisino, nel centro dell'Istria.
Il presidente di quel Congresso pronunciò le parole seguenti, che
meritano d'essere ricordate :
« Signori! vi saluto in nome della patria e dei santi nostri ideali, qui
in quest'aula, sacra alla integrità della patria ed alla libertà, e vi
ringrazio per l'opera patriottica che voi oggi solennemente compite.
« Solennemente, perchè è solenne il linguaggio che il vostro mirabile
accordo nella nuova e spontanea affermazione di essere e di sentirci
italiani parla al cuore e alla ragione.
« Cento città, borgate e ville sparse nelle pianure e sui colli, lungo i
fiumi e il mare — cresciute nei secoli sotto il sole vivificante
d'Italia — tutte raffermano qui, mercè vostra, innanzi a Dio e agli
uomini, la fede un dì giurata all'alma Roma.
« Stieno gli slavi nei propri confini. Qui dall'Alpe al mare il dominio
documentato da due millenni di storia gloriosa ha posto noi : e qui una
civiltà che non ha l'eguale ci ha conservati e ci conserverà italiani
nei secoli!
« Qui siete convenuti a dimostrare che impunemente né ci si insidia, né
ci si offende. E il sentimento che vi muove è prova che non siamo né
morti né prossimi a morire, e che abbiamo virtù di difenderci contro
ogni offesa ».
Tale è l'italianità dell'Istria, attestata da una storia che mai si
smentì, illustrata da una serie di meravigliosi monumenti, dimostrata
vittoriosamente in una imponente collezione di più di tremila volumi,
dai quali spira la nobile fierezza nazionale degli scrittori istriani.
Solo l'austriaco disprezzo d'ogni sentimento nazionale, d'ogni
tradizione di lingua e di costume poteva immaginare quel mostruoso
conglomerato amministrativo ch' è la Contea principesca di Gorizia e
Gradisca. Terre prettamente latine, come la romana Aquileia, come Grado,
la madre di Venezia, come Gorizia, millenaria custode della sua
inviolata italianità, come Gradisca, antica fortezza veneziana, furono
unite in una stessa provincia coi contrafforti delle Alpi Giulie,
popolati
in gran parte da abitatori slavi. Gorizia, nelle lunghe e oscure vicende
della sua storia, dominata ora da stranieri feudatari, ora dall'Austria,
mantenne sempre intangibile il suo carattere nazionale.
Ultimo baluardo dell'italianità di fronte alla distesa di popolazioni
slave. Gorizia ne sostenne e ne
respinse imperterrita l'assalto. Fiera delle sue latine origini, essa
restò sempre idealmente legata all'Italia : e per mille segni sempre
manifestò la purezza italica della stirpe e del sentimento e della
coltura.
Quando fioriva l'Arcadia e i poeti italici si scambiavano di città in
città i loro canti pastorali, Gorizia ebbe la sua accademia
romano-sonziaca : modesta ma eloquente riaffermazione dell'unione
perenne tra l'antica metropoli del mondo e il glauco Isonzo. Lettere,
studi, arte, si mantennero ostinatamente italiani nonostante ogni
influenza ed ogni insidia. Spirito italianamente multiforme fu il grande
orientalista I. S. Reggio, filologo e letterato, filosofo e poeta, che
la Germania volle membro delle sue dotte Accademie di Lipsia e Halle e
che educò all'Italia un meraviglioso allievo : Graziadio Ascoli, il
iprincipe della scienza glottologica.
Gorizia seguì con ardente speranza tutte le peripezie del Risorgimento
d'Italia : e a tutte le battaglie per il riscatto della patria mandò i
suoi figli. Nel '66 Gorizia palpitava al rombo che veniva dalla vicina
Versa : erano i cannoni di Raffaele Cadorna che tuonavano contro gli
austriaci, annunziando alla città la prossima liberazione, frustrata poi
dall'armistizio...
Negli ultimi cinquant'anni l'oppressione dell'Austria nel Friuli
Orientale, e segnatamente a Gorizia, s'acuì, s'invelenì, divenne una
tortura d'ogni giorno. Slavi, tedeschi, spie, rinnegati, tesero ogni
loro energia nel prestare man forte al governo: Gorizia resistette a
tutte le vessazioni, fedele al suo passato, fidente nel suo avvenire,
vallo incrollabile contro le schiere nemiche.
Sono trascorsi oltre duemiladuecent'anni dacché i dalmati accolsero come
amici i legionari del console Cecilio Metello: e da allora la Dalmazia
restò devota alla regina del mondo.
• Roma repubblicana ed imperiale impresse orme profonde della sua
latinità nei monumenti e nella lingua: Venezia le riconfermò il dono
della italianità negli edifici e negli statuti, dal leone alato a
custodia delle terre, alle leggi incise nella tavole marmoree e nelle
pergamene conservate negli archivi. La Dalmazia, — lasciò detto Tommaseo,
— ha meglio conservata la lingua che i croati non abbiano custodito il
proprio statuto. Dei libri scritti dai dalmati nella doppia lingua
latina ed italiana, si potrebbe comporre una non piccola e non oscura
biblioteca.
Da Cassiodoro a noi, il loro numero è grandissimo; anche prima della
dominazione veneta in Dalmazia era usato l'italiano, come risulta dai
documenti ragusei di molto anteriori.
Niccolò Tommaseo, che della italianità dalmata fu l'infaticabile
campione, scrisse queste fatidiche parole :
« Siano avvertiti gli slavi, i croati ed i serbi, che se mai giungessero
ad assorbire la Dalmazia, non solamente non giungerebbero a strapparne
la coltura italiana, ma sarebbero costretti dal proprio interesse ad
apprendere... l'italiano ed a partecipare alla coltura nostra.
« E quando pure i dalmati slavi, più slavi dei croati, l'italiano e
l'Italia sbandissero dalla patria loro, di lì a non molto la civiltà
italiana, con i commerci e cn l'alito
stesso del respiro, rientrerebbe ».
Le velleità slave
trovarono nel governo austriaco il più accanito favoreggiatore. La
snazionalizzazione della Dalmazia fu condotta manu militari,
senza pudore e senza scrupoli. Non per nulla quella provincia fu detta:
la terra delle eccezioni.
Tutto vi era possibile, tutto vi era permesso. Per schiacciare
l'italianità di Zara, quando fu dato il suffragio universale, nel 1907,
alla città furono annessi tanti distretti croati da costituire il più
vasto collegio elettorale della monarchia austro-ungarica, con circa
ventimila elettori, mentre in Austria numerosi collegi non ne hanno
duemila...
La fibra dei dalmati è fortissima; essi non piegarono.
Furono schiacciati, non vinti.
La prima Dieta dalmata del 1861 si componeva di 30 italiani contro 13
slavi. Il governo austriaco in altra elezione, usando di tutte le
violenze, baionette comprese, mutò le cose e portò alla Dieta una
maggioranza slava. Gli slavi, con lotte violente, diedero l'assalto ai
municipi.
Uno ad uno li conquistarono : sola l'eroica Zara potè resistere...
Isolati, derelitti, in balìa ad ogni sopruso, a tutte le persecuzioni, i
dalmati tuttavia non abbandonarono la lotta. Circondati dalla marea
slava incalzante, essi seppero tener sempre sollevata sulle torbide onde
una bandiera, su cui era scritto il sacro nome d'Italia.
Fiume non ha un'antica storia di battaglie per la sua nazionalità. Il
suo carattere italiano le fu lungamente consentito senza contrasto
dall'Ungheria. Ma negli ultimi trent'anni la voce di Vienna dev'essere
risuonata a Budapest: ed anche Fiume fu assoggettata a quel processo di
snazionalizzazione che l'Austria riserbava alle sue terre italiane.
Soltanto, invece della germanizzazione tentata nel Trentino e della
slavizzazione minacciata a Trieste e Gorizia, all'Istria e alla
Dalmazia, Fiume fu sottoposta alla magiarizzazione: si voleva renderla
ungherese.
Ungheresi divennero le scuole, ungheresi gli (uffici; un torrente
d'immigranti ungheresi invase la città. Sotto la spinta delle
circostanze, l'antico spirito fiumano, che s'appagava delle autonomie
municipali, cedette ad una più ardente suggestione: e il sentimento
irredentista esplose ad un tratto e illuminò di nuovi bagliori la vita
cittadina di Fiume. Il governo ungherese instaurò il regime del terrore:
e i fiumani risposero con una tenace resistenza, rivelando tempra forte
e non comune audacia.
Ultimi entrati nell'arringo, essi hanno dimostrato di saper emulare la
combattività delle altre terre irredente.
(Storia della
Grande Guerra d'Italia, Milano 1920 ca. - Isidoro Reggio)