GRANDE GUERRA (1915-1918)
(Le origini remote)
VI DALLA MORTE DI CAVOUR ALL'ALLEANZA COLLA PRUSSIA
Bettino Ricasoli — Parole di Napoleone III — Garibaldi e le terre dell'Adriatico — Il dono nuziale a Maria Pia — Una lagrima di Vittorio Emanuele — Un processo inumano — Il martirologio degli irredenti — L'Unità d'Italia in Parlamento — I propositi di La Marmora — Bismarck — I memoriali degli irredenti al Re e ai ministri. .
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Il 1° luglio del 1861, alla Camera di Torino, Bettino Ricasoli, Presidente del Consiglio, pronunciava queste memorande parole: « Noi ci armiamo per la difesa non solo del territorio nazionale, quale è attualmente, ma eziandio per completarlo, per restituirlo ai suoi naturali e legittimi confini. Su questo punto, la politica del Governo è il diritto della Nazione. Non conosce il Governo altro limite; non si arresterà ad altri confini, che a quelli che il diritto stesso ha segnati— » Pochi giorni dopo, lo stesso Ricasoli mandava agli inviati italiani all'estero questo dispaccio ancor più esplicito: « L'Italia è fatta, malgrado che una parte d'Italia rimanga ancora in altrui balìa; perché abbiamo fede che l'Europa, quando ci vedrà ben ordinati e armati e forti, si persuaderà del nostro diritto a possedere intero il nostro territorio, e vedrà una guarentigia della sua quiete e della sua pace nel favorirne la restituzione... L'Italia deve compiersi e nessun sacrificio parrà grave agli italiani per arrivare alla meta. » Napoleone condivideva pienamente queste idee; il giornale Diritto riferiva le parole seguenti, pronunciate dall'imperatore dei francesi: « M'hanno accusato di aver mancato al mio programma: l'Italia libera dalle Alpi all'Adriatico; ma io lo servo questo programma, oggi come due anni sono, e lo servirò fino a che non sia diventato una realtà; io voglio che l'Italia abbia Venezia, Trieste ed Istria: oggi mi è impossibile ricominciare la guerra, in vista sopratutto dell'umile attitudine dell'Austria; ma le occasioni non mancheranno, ed appena un momento favorevole si presenti, vedrete come io sappia tenere la mia parola. » Gli irredenti aspettavano il gran giorno: e lo preparavano in ogni guisa. Avendo saputo che Garibaldi desiderava le carte idrografiche e geografiche dell'Adriatico, gliele inviarono, richiamando la loro causa alla sua memoria. E Garibaldi rispondeva: « So che l'Istria e Trieste anelano frangere le catene con cui le avvince l'odiata signoria straniera, e che affrettano col desiderio il compimento del voto di essere restituite a madre Italia. Quantunque la tristizia di tempi e di uomini sembra voglia impedire il compimento di quel voto, io ho fede che non sia lontano il giorno delle ultime battaglie e delle ultime vittorie, da cui sarà suggellato il completo nazionale riscatto. » Alberto Cavalletto scriveva in quello stesso anno 1862: «Le idee precedono sempre i fatti: facciamo popolare la idea che la Venezia vera abbraccia tutto il territorio compreso fra il Mincio, il Po, l'Adriatico e le Alpi Retiche, Carsiche e Giulie dal Brennero al Quarnaro. Senza guerra non sposteremo dall'Italia l'Austria; fissiamo quindi sin d'ora le idee sul territorio da riacquistare alla patria. » Poco stante. Maria Pia, la figlia di Vittorio Emanuele, andava sposa al Re di Portogallo. Le donne venete, trentine e istriane le vollero offrire un dono nuziale. La consegna ebbe luogo alla reggia di Torino. Si trattava d'uno splendido albo, con le firme delle donne irredente: e fu portato a Vittorio Emanuele da una commissione di emigranti. Tomaso Luciani, che di essa faceva parte, così ricordava quell'episodio: «Quel giorno Re Vittorio apparve ammirabile quanto mai anche come cittadino e padre. Il Re, evidentemente lieto dell'omaggio che i paesi rappresentati dalla Commissione facevano alla sua amatissima figlia, parlando e di essa e dei paesi stessi adoperò tali modi e tale linguaggio da far conoscere che il suo cuore era tutt'altro che sordo alle parole della Commissione e delle donne: e nell'occhio calmo insieme e fulmineo del politico e del soldato luccicava già una lagrima, la lagrima del cittadino e del padre. « Preso quindi in mano l'albo, lo aperse, ne guardò i disegni, li lodò, e, visti alcuni nomi, domandò in suono famigliare spiegazioni di persone e di cose, e volle particolarmente sapere se l'albo potrà poi essere esposto liberamente a Torino e a Lisbona, liberamente, cioè « senza che ne possa derivare danno o malanno a qualcuno, perché la polizia di Stato non conosce misura o confini ed ha un occhio, un occhio che passa le alpi ed i mari e tenta il chiuso delle reggie perfino». «Un Re, che dall'alto del soglio, per moto spontaneo del cuore, scende a questi particolari e se ne preoccupa, non per sé, ma per quelli che soffrono, è la fenice dei Re e merita davvero di passare nella storia coi titoli che l'istinto popolare gli decretò nei giorni del più giusto entusiasmo. » I tempi maturavano. La situazione italo-austriaca diventava sempre più tesa, e le ripercussioni si sentivano nelle provincie irredente. Furono duramente provati quei patriotti trentini, che il 23 e il 24 agosto del 1864 avevano tentato una sollevazione e che, tradotti ad Innsbruck davanti alla Corte speciale come rei d'alto tradimento, furono oggetto di illegalità e di violenze incredibili. Jacopo Baisini denunciava, la condizione inumana in cui furono tenuti gli imputati al processo e la gravità delle pene loro inflitte: e citava il caso del Collegio d'Appello di Innsbruck, che osò correggere la mitezza dei giudici, aggravando la pena. E conchiudeva: « Se verrà un giorno che l' Italia canterà e festeggerà i suoi martiri, anche i poveri trentini condannati nel 1865 avranno la loro palma! » Se qualcuno volesse scrivere la storia di tutti i processi politici coi quali l'Austria tentò di fiaccare lo spirito d'italianità delle terre irredente, avrebbe da riempire non un volume ma un'intera biblioteca. A Gorizia, nel carnevale del 1863, una mascherata aveva vestito la camicia rossa. Erano sedici uomini e sette donne. Si fece il processo: e nell'atto d'accusa si constatava che « Giuseppe Garibaldi rappresenta il principio della rivoluzione e del distacco di provinciale d'italiana favella dal nesso dell'impero austriaco e che il menare vanto col suo costume e il far pompa del medesimo in luogo pubblico, come un veglione, equivale a magnificare il principio da Garibaldi rappresentato, e quindi all'eccitare ad odio e disprezzo contro il nesso politico dell'impero austriaco ». I principali colpevoli della mascherata ebbero soltanto alcuni mesi di carcere duro: e poterono chiamarsi fortunati... Nel gennaio del 1865, per una discussione che a Vienna apparve, — ed era, — assai poco ortodossa, il Consiglio comunale di Trieste subì uno dei suoi innumerevoli scioglimenti. La Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia, nel riferire il fatto, trovava modo di dichiarare Trieste « benemerita della causa italiana ». Nel maggio di quell'anno, alla celebrazione del centenario dantesco parteciparono con entusiastiche manifestazioni tutte le terre irredente, attirandosi le inevitabili rappresaglie austriache... Inaugurando il primo Parlamento italiano, Vittorio Emanuele II aveva detto essere l'Italia a libera ed unita quasi tutta ». Nell'aprire la nuova sessione, il Gran Re dichiarava ai deputati e senatori: « Voi affermaste i diritti della nazione alla completa sua unità; questi diritti saprò mantenerli inviolati ». Dei grandi fattori del Risorgimento, Cavour era morto; Mazzini, come un faro ardente, illuminava la propaganda unitaria di quell'ora, imperniata su Roma e Venezia; Garibaldi affilava la sua spada. La Marmora, ch'era alla testa del Governo, si sentiva spinto irresistibilmente dalla volontà nazionale. Ottenere Venezia: era questo il primo obiettivo, che in un modo o nell'altro doveva essere raggiunto. La Marmora accarezzava il sogno di aver Venezia a mezzo di trattative col governo austriaco. Era infatti un sogno: la missione segreta del conte Malaguzzi-Valeri a Vienna ebbe completo insuccesso. Restava aperta la via delle armi: ma bisognava trovare un alleato. Cavour non aveva lasciato all'Italia un erede immediato del suo genio politico. La Prussia aveva Bismarck. Qual meraviglia se l'alleanza tra l'Italia e la Prussia fu stretta in modo che il manico del coltello restasse nelle mani di quest'ultima? Quale fu la parte di Napoleone III in tutta quella oscura pagina di storia? Fu un ambiguo lavorio di sottile diplomazia, stracciato brutalmente dalla clamorosa vittoria prussiana, ch'egli non prevedeva. Certo è che il tenebroso armeggio dell'imperatore francese seminò di diffidenze e di sospetti i rapporti italo-prussiani. Al principio del 1866, mentre Bismarck voleva giuocare la carta decisiva dell'avvenire sull'alleanza con l'Italia, il ministro Roon diffidava dei nostri legami con Napoleone, e Usedom, il rappresentante della Prussia a Firenze, teneva vivi i suoi sospetti. Anche Bismarck diffidava profondamente di noi; ma si sentiva forte e non temeva di restar sopraffatto. Nella sua diffidenza, del resto, era pienamente ricambiato da La Marmora. Comunque, le cose procedevano. Il general Covone andò a Berlino; poi Bismarck concretò le sue proposte. L'otto aprile si firmò il trattato. L'alleanza era basata sul dovere dell'Italia di seguir l'esempio della Prussia, qualora questa avesse dichiarato guerra all'Austria entro tre mesi. Scoppiata la guerra, nessuna pace o armistizio dovevano concludere Italia o Prussia senza il consenso dell'altra potenza; ma tale consenso non poteva venir negato quando l'Italia avesse ottenuto i territori dell'antico Regno lombardo-veneto e la Prussia territori equivalenti. Non è il caso di riandar qui le polemiche sorte intorno alle maggiori o minori pretese territoriali, che l'uno o l'altro dei nostri uomini politici volevano accampare, specialmente nei riguardi del Trentino. Il trattato era quello che era: cioè il patto d'un forte e d'un avveduto con chi lo era meno... E neppure ricorderemo gli intrighi che s'intrecciarono e che per un momento parvero dover sostituire alla guerra un Congresso, sotto gli auspici dell'imperatore francese. Comunque, nonostante le deficienze diplomatiche, militari, navali, che dovevano poi costare tanti dolori e tante umiliazioni alla nazione, lo spirito pubblico in Italia era alto; altissimo nelle terre che dalla guerra imminente s'attendevano la redenzione. Il giorno 18 giugno, con le firme di numerosi triestini, istriani, trentini, veneti e romani, fu presentato a Vittorio Emanuele II il seguente memoriale: « Sire! Alle mille voci di plauso che si levano da tutte le parti della penisola sull'annunzio della prossima partenza del Primo Soldato d'Italia pel campo, permettete, o Sire, che si uniscano anche quelle dei devotissimi sottoscritti, rappresentanti le popolazioni italiane d'oltre Isonzo, le quali Vi invocano liberatore e Vi salutano loro Re. «Esse erompono dal cuore di Italiani oppressi da quello stesso straniero che Vi accingete a combattere; dal cuore d'Italiani che vissero sempre della vita nazionale. Essi saranno i guardiani dell'Alpe Giulia, di quell'Alpe che, violata troppe volte dallo straniero, è complemento necessario e sicurezza del territorio nazionale; essi sono i discendenti di quegli arditi marinari istriani che combatterono e vinsero sotto il glorioso vessillo di San Marco. Essi Vi daranno in mano quella Pola che, fin dall'epoca romana porto militare italiano, l'Austria ha ormai convertito in minaccia di tutta la nostra costa adriatica; essi Vi daranno quella Trieste che l'Austria vorrebbe malamente far credere pertinenza germanica. « La grande nazione germanica ha i suoi fiumi reali, i suoi mari aperti al commercio, le sue molte e fiorenti città; essa non può, non deve aspirare a dominii di qua dalle Alpi, ma vorrà piuttosto stringersi in fratellanza sincera cogli Italiani e cogli Stati vicini, e Trieste, appunto perché città eminentemente commerciale, è il nodo che deve unire i tre popoli. «Sire! Giacché il Cielo fece sorgere i nuovi cimenti, non arrestate più il corso della vittoria, che animata dal valore dell'esercito e dall'entusiasmo dei volontari, seguirà i Vostri passi. Assai avete avuto la virtù dello aspettare e fu vera forza; ripigliato ora il vostro naturale ardimento, seguite fino all'ultimo la Vostra stella che è la stella d'Italia. Perché si possa dire l'Italia costituita nella sua unità naturale e veramente degli italiani, perché si possano dire inviolati il suo diritto e il suo onore e compiute le sue sorti, perché l'Italia divenga all'Europa guarentigia di ordine e di pace e ritorni efficace istromento della civiltà universale, infine perché si possa dirla libera dall'Alpi all'Adriatico, è necessario piantare col tricolore italiano la croce sabauda sulla punta Fianona, là dove il primo sprone dell'Alpe Giulia scende a tuffarsi nel proverbiale Quarnaro. Quella punta si noma da antico Pax-tecum. È là soltanto che si può stringere un patto duraturo di pace quale Europa la vuole. « Seguite il presago e accettate l'invito, o Sire. È. voce di popolo che Vi chiama in quelle parti, è grido di dolore e di speranza che erompe dal cuore di italiani che Vi invocano liberatore e Vi salutano loro Re. » Quando Vittorio Emanuele già si trovava al campo, una deputazione di trentini si recò a presentargli un indirizzo che diceva: «Adesso che a fianco del generoso vostro alleato, l'imperatore dei Francesi, per una via seminata ad ogni passo di vittorie e benedizioni, vi inoltrate trionfalmente per le provincie italiane redente nel vostro nome, permettete, o Sire, che anche gli Italiani della provincia di Trento vengano per mezzo nostro innanzi a voi a ripetere che la croce di Savoia non è meno invocata tra i loro monti di quello che lo sia nelle altre parti dell'alta Italia; che colà pure siete aspettato e sospirato liberatore e re. «Noi non ci nascondiamo, o Sire, la gravità delle circostanze eccezionali in cui versa il nostro paese di fronte alla gloriosa vostra impresa; ma appunto perché infeudati mostruosamente a Germania, sentiamo con più calore d'essere italiani, e strettamente legati alla causa dei nostri fratelli, da voi con tanta lealtà e valore propugnata. « Il cielo, o Sire, non cessi un istante di prosperare le vostre armi; e possano l'esultanza e la gloria che, compita la grande opera, circonderanno il vostro trono, non essere contristate dal pianto di Italiani curvi ancora sotto il peso della straniera oppressione. » Dagli irredenti fu pure presentato al generale La Marmora, mentre s'apprestava a partire per il campo, quest'altra memoria, che in origine doveva essergli consegnata quando si fosse recato a rappresentare l'Italia al Congresso divisato da Napoleone: «Eccellenza! Gli unici stranieri che fermarono stanza entro il nostro confine sono gli slavi, venuti prima dell'800, poi a varie riprese nei secoli XVI e XVII-: Ma i primi, slavi del nord, condotti dai franchi in condizione di servi, sebbene avversati a principio dalla stirpe latina, ebbero poco appresso lavoro e libertà sopra suolo istriano; e i secondi, slavi del sud, scampati alla scimitarra del turco, furono accolti come ospiti coi quali si divide la casa e la mensa. «Agli slavi delle Alpi Giulie è commisto anzitutto il sangue dei veterani latini che stettero a guardia di quell'importante confine, poi sono frammiste famiglie italiane immigrate da varie parti e a varie riprese, mentre l'Istria al mare, passata dal dominio romano-bizantino al dominio veneto per dedizione spontanea, durata in questo fino al 1797, e caduta insieme con Venezia soltanto per la pace fatale di Campoformio, l'Istria al mare, diciamo, è coi territori da Aquileia, Grado, Monfalcone, Trieste, una vera continuazione della Venezia marittima, e quasi si direbbe un avamposto dell'antico dogado. Più tardi, dal 1805 al 1810, fece parte del regno d'Italia, sotto il preciso nome di Dipartimento dell'Istria. «Ma chi domanda ai Pedemontani, ai Valtellinesi, ai Tridentini, od ai Siculi il certificato d'origine? Quanti vedevano nella penisola italica un'accozzaglia di razze diverse, pronte a distruggersi tra di loro, ben hanno dovuto ricredersi. Tale sarà, non è a dubitarsi, dell'Istria. E se è paese italiano; chi tenta dividere le sue popolazioni fa opera peggio che vana; e nessuno osi dire che alla concordia di sentimenti e di volontà abbiano fatto o facciano eccezione Trieste o Gorizia. Le rivalità di Trieste e Venezia son cose viete, da mettersi a fascio con quelle di Firenze e Pisa, di Venezia e Genova, e di cento altre italiane città. Qualche fatto dell'antica aristocrazia goriziana che or più non esiste, o di mercatanti senza patria attendati temporaneamente a Trieste, non potrebbe aver peso nei destini del paese. Il paese tutto è italiano da antico e fu sempre riconosciuto per tale: si ricerchino le storie, ma le storie sincere. Già nel terzo decennio del secolo XVII contro le finzioni dell'arciduca Ferdinando II si levarono concordi la corte di Roma, i capitoli della Germania e l'ordine di Malta a proclamare i Goriziani di nazione italiana, E nel secolo XVIII gl'Imperatori Carlo VI, Giuseppe II e Leopoldo II, dopo iterati e pertinaci tentativi, dovettero smettere affatto l'idea di introdurre l'uso della lingua tedesca nei paesi italiani di confine, cioè a Gorizia, Gradisca e Trieste. Così nell'ordinanza imperiale 21 dicembre 1732 e nei decreti aulici 26 marzo 1787 e 29 aprile 1790. « Generale-Ministro! La fortuna d'Italia vi creò una posizione nella quale potete rendervi benemerito dell'Europa. Voi sedete oggi, in Parigi stessa, al posto dell'immortale Cavour. Seguitene il grande esempio: osate! Dite dunque che la Venezia vera non s'arresta là dove hanno posto il confine amministrativo del Regno lombardo-veneto, ma si stende all'Alpi ed all'Adriatico, e per togliere finalmente ogni dubbio, a quel seno dell'Adriatico che si dice Quarnaro. Dite che l'Italia, stesa su due mari, ha ben diritto di poterli navigare liberamente; ma uno di questi, l'Adriatico, è costituito così che non si può arrischiarsi di correrlo senza pericolo d'essere portati sotto il cannone di Pola, e dite che a Venezia non si arriva senza rasentare le coste dell'Istria. Tirate sulla carta una linea da Ancona alla punta Fianona, ove cala a mare il primo sprone dell'Alpe Giulia, e mostrate che il tratto d'acqua che resta al nord-ovest della linea non è propriamente un mare, ma è tutto un golfo chiuso intorno da terre italiane, quasi continuazione di queste e indispensabile ad esse. Dite che la costa italiana da capo d'Otranto alle paludi d'Aquileia, quasi priva di porti, bassa, argillosa, piena di dune, di scanni, ha bisogno dei porti dell'Istria, e dite poi che senza il possesso dei versanti meridionali ed occidentali dell'Alpe Giulia l'Italia resta aperta nella parte appunto ov'è più vulnerabile. Dite che le tre grandi vie che si dirigono a noi dalle valli della Drava, della Sava e della Culpa, per i viarchi del Predil, di Lubiana e di Fiume, hanno troppe volte e troppo a lungo servito al trasporto di armi e d'armati a danno d'Italia; è tempo che restino sgombre a servigio del commercio pacifico, che giovino all'affratellamento dei popoli slavi, tedeschi ed italiani, i quali e per ragione di vicinanza e per la stessa diversità d'origini, d'inclinazioni, d'interessi, di fini, hanno mille motivi di favorirsi e d'amarsi. » La Marmora, naturalmente, non potè dir nulla di tutto ciò perché il Congresso non ebbe luogo. Il mancato plenipotenziario diplomatico prese il comando d'una armata, E cominciò la guerra infelice... Alle fidenti speranze degli irredenti rispose un infausto nome: Custoza. Tutte le maggiori speranze, nel Regno e nelle terre oppresse dall'Austria, si volsero alla flotta. E gli irredenti mandarono questo appello ad Agostino Depretis, ministro della marina: « Eccellenza! L'Istria è un posto avanzato rimpetto alla Laguna alla quale si attacca mediante gli isolotti e le paludi di Grado, di Marano, di Aquileia; è un pezzo di terreno staccatosi dalle nostre Alpi e scivolato sul nostro mare; è a noi quasi un molo d'approdo, e un luogo di necessaria poggiata. Le flotte romane e le venete svernavano a Pola che, secondo il mutare dei secoli, fu succursale di Aquileia, di Ravenna, di Venezia: le triremi venete si armavano nel porto Quieto; le navi, grandi e piccole, che su per l'Adriatico si dirigono a Venezia, hanno bisogno di far poggiata al Quieto, a Umago, a Pirano. A Venezia non si va senza rasentare le coste dell'Istria, e nessuna flottiglia, sia pure a vapore, potrebbe avventurarsi in certe stagioni nell'alto Adriatico, senza pericolo d'essere portata sotto il cannone di Pola. «L'Istria d'altronde è italiana per origini, veneta per dedizione spontanea. Caduta con Venezia nel 1797, in forza della malaugurata pace di Campoformio, è giusto, è necessario che con Venezia risorga: altrimenti non ne soffrirebbe la sola Istria, ma Venezia con essa. L'Istria formò parte del primo Regno d'Italia dal 1805 al 1810 e, quando ritornò in mano dell'Austria, questa le promise di accomunarla alle altre Provincie venete, promessa che more austriaco non fu mantenuta. Nel 1840 e nel 1859, a clamore di popolo, e mediante i suoi municipi, l'Istria domandò e ridomandò d'essere unita alla Venezia, ma sempre indarno, perché l'Austria rimase padrona della situazione. Nel 1797 gl'italiani si commossero pel distacco dell'Istria dalle Provincie di terraferma come ne fanno fede varie (pubblicazioni di quell'epoca. Una di queste, stampata per ordine del Governo centrale del Padovano, Polesine di Rovigo e d'Adria negli Annali della Libertà Padovana, termina con queste significanti parole: — « a Patriotti Lombardi, la liberta dell'Italia sarà sempre contingente sinché l'Istria rimane soggetta alla corte di Vienna... L'Istria è una provincia italiana che vi appartiene per natura; è una «parte integrante dell'ex Stato Veneto che vi appartiene per convenzione... Gl'Istriani sono vostri fratelli... «Essi vi furono compagni indivisibili nella comune schiavitù, essi reclamano il vostro soccorso ora che «siete liberi ed indipendenti. Prima che un trattato tribuisca all'invasore austriaco la proprietà della provincia, prima che giunga il tempo in cui sarà inutile ogni sforzo, Italiani, scuotetevi, e se non l'amore dei vostri fratelli, non l'oggetto del loro benessere, vi muova almeno il vostro proprio interesse, la causa della «vostra libertà sempre contingente e compromesse finché sarete disgiunti dall'Istria... Non permettete che si disgiunga da voi una parte preziosa di voi medesimi; non permettete che periscano in questa separazione le speranze della vostra prosperità. Armatevi, se d'uopo, e accorrete a strappare dalle mani dell'invasore ciò che è pur vostro, e i vostri fratelli benediranno per sempre la mano che avrà spezzate le loro catene.» «Così pensavano gli italiani del 1797, riguardo all'Istria! Potrebbero diversamente quelli del 1866? »... Pochi giorni più tardi veniva dal mare un terribile annunzio: Lissa! Un'altra memoria fu presentata dagli istriani e triestini il 14 luglio ad Emilio Visconti-Venosta, Ministro degli Esteri. Eccola: «Eccellenza! Nessuno in questo momento sa meglio di V. E. quale periodo difficile attraversi la questione dei Confini d'Italia fra il vario cozzo degli interessi europei. Non nuovo nella lotta nella quale anzi avete colto altri allori, oggi sono rivolti sopra di Voi, più che mai attenti, gli sguardi della Nazione. Essa è fidente nel senno e nella lealtà vostra e dei vostri colleghi, presieduti da tale la cui proverbiale fermezza è di lietissimo augurio all'Italia. « Nullostante il paese non è senza trepidazione, perché se badiamo alla storia, la diplomazia troppe volte si è lasciata sedurre dal desiderio di conservare il vecchio. Essa tardi s'induce a far ragione all'inevitabile svolgimento e progresso delle idee e dei fatti. Spesso ha creduto di assicurare paci e non ha concluso che tregue, dopo le quali, più presto che non lo s'immaginasse, scoppiarono di nuovo e più che mai accanite le guerre alle quali aveva preteso impor fine anzi tempo. Noi vi scongiuriamo, Eccellenza, a fare in modo che ciò nel presente caso non si rinnovi. « Nativi di Trieste e dell'Istria, provincie per ogni rispetto italiane, ma non ancora confessate tali da tutta la diplomazia, noi trepidiamo al pensiero d'una pace prematura, e trepidiamo non solo come Istriani, ma come Italiani; che la doppia qualità ne costituisce in noi una sola. Noi non sappiamo concepire un interesse italiano, che non possa essere nello stesso tempo europeo. «Presentemente dunque non resta a noi che accennare ai principali argomenti d'ordine più elevato e universale, in forza dei quali deve risultare: essere l'annessione di Trieste all'Italia vero interesse europeo, e condizione inevitabile di quella pace sola e finale che sta giustamente nel desiderio di tutti. «Come il Trentino è la chiave del Quadrilatero e dei piani lombardi, così le tre provincie unite di Gorizia, Trieste ed Istria colle alture del Carso e il porto fortificato di Pola, sono la porta del Veneto e di tutto il nostro versante adriatico per terra e per mare. Pola è stata creata dall'Austria con intendimento non di difesa ma di aggressione. «Se l'Austria dunque vuol essere leale, deve con la Venezia amministrativa rinunziare francamente tutti i territori cisalpini: chi desidera che ella abbia ancora vita fra gli stati europei, deve consigliarglielo; ed essa, se conosce il suo interesse, deve oggi non solo rassegnarvisi, ma affrettarsi a farlo. I territorii già detti sono necessari a noi. A lei all'incontro, cedute o pendute che abbia le otto Provincie del Veneto, riescono indifferenti ed inutili; peggio ancora, le riuscirebbero di peso, le sarebbero, siccome eterogenei ed avversi, un pericolo, permanente. Mentre a noi sono uniti per continuità di valli, di fiumi, di pianure, di monti, di mare, da lei sono staccati e divisi per una cerchia non interrotta di alpi. Ne si dica che rinunziando a noi queste alpi, ella resti esposta da parte nostra agli attacchi, o che cedendo l'Istria, perda ogni ingerenza, ogni sbocco sull'Adriatico. Questi sono assurdi sofismi ch'essa ha ripetuto fino alla noia e al ridicolo: essi ormai non possono illudere alcuno. Noi non domandiamo già tutto il grosso delle Alpi, ma il solo versante che tributa le acque all'Adriatico. Padrona del versante opposto, il quale non scende precipite come il nostro, ma si svolge in altipiani e in vallate alpine lentamente digradanti, essa ha sempre il vantaggio sopra di noi, che la sua discesa sul nostro territorio è stata e sarà sempre più facile che non la nostra salita sul suo. Essa ha inoltre per propria difesa la linea di molti fiumi, di molte riviere; essa ha finalmente altri monti, altre alpi, quelle della Stiria, della Carinzia, del Salisburgo che ne rinterzano le difese. Perdonate, Eccellenza, se vi ripetiamo cose notissime, cose che vi saranno venute cento volte sotto la penna. Non le ripetiamo per smania di dottrinare ma perché in momenti supremi (per l'onore e le sorti della nazione, nessuna verità è inutile a ripetersi e ogni cittadino onesto deve stringersi meglio che può al suo Governo. Se le nostre idee combinano con le vostre, tanto meglio: fatelo constare alla Diplomazia; dite che gli argomenti dell'Austria sono ormai svelati e giudicati sulla piazza; che il Popolo d'Italia è un popolo che pensa e non si acqueta se non gli viene fatta giustizia, se non gli viene accordato il suo, tutto il suo territorio fino alle Alpi, fino all'Adriatico, che nell'estremo punto nordest prende il nome di Quarnaro. « Voi potete farvi mallevadore che l'Italia costituita così nella sua unità naturale sarà all'Europa raro esempio di pace, di giustizia, di moderazione, e ritornerà davvero, ma allora soltanto, efficace strumento di civiltà universale. « Quanto diciamo è di tale evidenza, che una Diplomazia imparziale non potrebbe negarlo. « In nome adunque delle popolazioni delle nostre Provincie vessate in modo crudele dall'Austria, e per amore degl'interessi e della dignità nazionale, noi vi preghiamo, Eccellenza, e insieme a Voi preghiamo l'intero Consiglio dei Ministri e il suo Capo: — date alla questione di Trieste e dell'Istria, che è a dire del Confine orientale, tutta la importanza che merita; portatela sul terreno vasto dell'interesse europeo, e vincerete di lunga mano ogni resistenza; che la stessa gravità ed urgenza della cosa, suggeriranno i mezzi sicuri di vincere. Col nuovo assetto che va necessariamente a prendere l'Europa, è interesse della civiltà che ci sia un'Italia soddisfatta e forte; ma tale non sarà mai senza la frontiera delle Alpi Retiche, Carniche e Giulie, e senza i porti che la natura le offre sulle coste dell'Istria, a compenso di quelli che le ha negato sulla restante costa adriatica che corre da Otranto a Grado. «La nazione tiene gli occhi rivolti all'esercito ed alla flotta; pensa che una mossa sollecita, ardita, dandoci il possesso di quelle terre, renderebbe più agevole il compito della diplomazia e offrirebbe alle popolazioni la bramata occasione di smentire co' fatti i dubbi che alcuno ancora si ostina di muovere sul loro conto. «Nel ripetervi adunque l'alta fiducia che abbiamo in voi, nell'intero Consiglio dei Ministri e nell'illustre suo Capo, non vi taceremo la speranza che la memoria del grande Cavour ispiri e al Governo e al Comando dell'armata di terra e di mare, deliberazioni pronte, concordi ed energiche, quali sono richieste dall'interesse e dall'onore dell'Italia che aspetta, ma sente in ogni sua parte piena la vita, e vuole essere intera, per esistere non solo, ma per occupare il posto che ormai le compete in Europa. » Il più importante di questi appelli, che i figli delle terre irredente volgevano al loro Re e ai suoi ministri, fu dettato da Carlo Combi, l'infaticabile campione dell'italianità della sua Istria e di Trieste. È un documento forte e commovente, dal quale traspare la profondità d'un sentimento indomabile, mentre dalla più sicura dottrina trae nerbo e potenza di suggestione il ragionamento. Ecco questa memoria, che sarà letta sempre come una magnifica sintesi delle ragioni degli istriani e degli interessi dell' Italia; fu presentata il giorno 11 agosto di quell'anno 1866 a Bettino Ricasoli, allora Presidente del Consiglio: «Perché l'Italia sia guarentigia di pace all'Europa, conviene ricomporla a famiglia politica in tutta la sua unità tipica. Monca e quindi scontenta e bramosa di altri eventi, ella avrebbe in se la ragione, la necessità di nuovi dissidi e conflitti. Ogni signoria cisalpina, non italiana, sarebbe offesa e pericolo a lei, e peggio ancora la schiavitù della sua politica, impedita nel più largo e più fruttuoso e più nobile sviluppo, e nominatamente nella libera scelta delle alleanze, dal bisogno precipuo d'integrare lo Stato. «Ora, le Alpi che formano l'eterno confine della penisola italiana, girano a tergo dell'Istria non meno che nel Piemonte, nella Lombardia e nella Venezia più propriamente detta. Anzi quel tratto che inchiude nell'Italia queste Provincie, dette fino da Roma la Venezia Superiore, pigliò bene a ragione il nome di Alpi Venate, mantenutosi assieme a quello di Giulie, ch'è non meno italiano e glorioso, attraverso a tutti i tempi. «Dal Tricorno, il gigante alpino che si alza sopra le scaturigini dell'Isonzo, corrono esse tra le regioni della Drava, della Sava e della Culpa e quelle dell'Adriatico; fra contrade che mandano il tributo delle loro acque ai piani del Danubio e quindi al mar Nero, e le terre che s'inchinano sullo stesso continente italiano e i cui fiumi si confondono nello stesso mare con quelli della vallata padana. La natura adunque non fu incerta nemmeno sui termini orientali d'Italia, elevando sì notevole barriera a separare paesi che in tutto il loro aspetto recisamente si differenziano, sì che anche l'occhio (profano scorge tosto, allo stesso calore dell'aria, alla temperatura, alla vegetazione, quanto va disgiunto od unito per legge inalterabile. «L'Isonzo, l'aulico confine dell'Italia, impostole da Vienna, è fiumicello che rimarrebbesi pressoché ignorato, ove all'Austria, che è astuta nelle sue previsioni, non fosse caduto in mente di formare, poc'oltre alla sua sponda destra, una distinta amministrazione per la luogotenenza imperiale di Venezia. Allora pure che su quel fiume imperavano i conti di Gorizia e poi gli arciducali d'Austria di faccia alla Veneta Repubblica, non era già tutto il suo corso il confine dei due domini, ma altre acque ancor minori, e fossati e segni di privati poderi più addentro nella pianura e nei monti del Friuli. Quelli adunque che appresero in confuso ad arrestare la Venezia al suo oriente in sui margini di un rigagnolo, dovrebbero, per mostrarsi conseguenti alle loro reminiscenze storiche, cedere all'Austria anche la riva destra dell'Isonzo, già accordatale, per la fretta degli ordinamenti non definiti nella formazione del napoleonico Regno d'Italia, quando pure, a fronte di ciò, si annetteva al Regno stesso il dipartimento dell'Istria. «Cessino quindi alla fine tali nozioni di geografia d'Italia, le quali non abbiano altro fondamento che nelle insidiose mire delle cancellerie austriache. La geografia della nostra patria va per noi imparata dalla natura che ce l'ha fatta e non da quanto vorrebbe l'Austria per serbarsi le sue lusinghe di rivincita. E conoscere e volere casa nostra è il primo nostro dovere, ne le civili nazioni potrebbero non ammettere ch'esso è pure un diritto nostro. «E quali popolazioni stanziano su questa estrema regione d'Italia? Si prendano ad esame le stesse statistiche austriache, e si vedrà come, all' infuori di alcune rustiche tribù di slavi sparseci sui monti dal turbine degli eventi, tutto sia qui italiano. Prima ancora che Roma portasse sulle vette dell'Alpe Giulia le sue aquile vittoriose, un fiorente popolo italico di cui v'hanno memorie non poche, abitava queste contrade: popolo italico della cui lingua si hanno ancora preziosi avanzi nel dialetto di alcune parti dell'Istria, e che fuso da prima col popolo latino e poi col veneto, si mantenne così saldo nel suo genio nazionale, da durare incorrotto tra i più gravi pericoli, e in sulla porta dei barbari, e con razze straniere propriamente a ridosso, e nell'oblio sciagurato degli stessi fratelli, in quel lungo periodo di schiavitù austriaca che decorse dai trattati di Vienna. «L'Istria, che è una parte distinta della regione italiana d'oltre Isonzo ne va confusa coll'Istria amministrativa a cui furono aggregate anche popolazioni transalpine, l'Istria nella sua unità naturale e storica e colla sua capitale Trieste, conta di popolazione italiana ben oltre i due terzi, sì che per la stessa ragione del numero pretende a buon diritto d'essere annoverata fra le famiglie etniche d'Italia. «Ma che sono poi gli Slavi che troviamo sugli ultimi lembi del nostro confine, come ne troviamo nel Friuli occidentale e troviamo Francesi nella Valle d'Aosta e Albanesi nelle terre napoletane? «Sono Slavi di venti e più stirpi, non già scesivi a mano armata, ma pacificamente importativi dai dominatori di queste Provincie per popolare le terre disertate dalle guerre e dalle pesti. Avvenne appena nell'ottocento il primo trasporto di siffatta gente, e poi man mano fino al secolo XVII a più di cento riprese, le cui epoche sono segnate con esattezza dalla patria storiografia: opera infelice a cui fu intesa particolarmente la repubblica di Venezia, che in luogo di permettere si facessero fitti gli Slavi nella Dalmazia, qui nell'Istria li traduceva, dove tutto era pronto a togliere loro la nativa fierezza e italianarli. Stranieri fra loro fino a non intendersi e stranieri agli Slavi d'oltre Alpe, essi sono foglie staccate dall'albero di loro nazione, e nessuno per fermo avrà potenza di rinverdirle sul ramo da cui furono scosse. Essi vissero e vivono senza storia, senza memorie, senza istituzioni, tutt'altro che lieti di loro origine e desiderosi di essere equiparati a noi. Veneratori del leone di San Marco e memori di quel mite reggimento, imprecano all'Austria che li ridusse all'indigenza, ne mancherebbero per sicuro, tolta che fosse loro la paura del carnefice, di votare tutti e di grand'animo, non meno degli Italiani, l'unione al Regno d'Italia. «Non sorge invece un villaggio in cui si agiti un po' di vita civile, il quale non sia prettamente italiano. Il carattere nazionale è spiccatissimo in ogni sua esteriore manifestazione. Il vestito, gli usi, le tradizioni, le leggende, i canti, i proverbi sono italiani; italiana l'architettura dall'umile casolare al palazzo pretorio, alla cattedrale; italiani il pennello e lo scalpello che decorano i tempii e i pubblici edifizii; italiane le istituzioni tutte di beneficenza, di istruzione, di chiesa; italiane non meno le fraglie del popolo che le accademie degli studiosi; italiano il pulpito e italiano il teatro; italiane infine le leggi, di cui si hanno luminosi documenti fino dal milleduecento in quegli statuti municipali foggiati alla romana, che regolavano la vita civile di questi paesi, mentre in non poche illustri parti della rimanente Italia non vi aveva che signori feudatarii e plebe inconscia di sé, del suo passato e del suo avvenire. E bellissimi nomi vanta l'Istria tra i migliori ingegni d'Italia. Chi non conosce il Vergerio e il Piaccio, tanto celebri nella storia della Riforma, il Sartorio, caposcuola delle scienze mediche, il Muzio, emulo del Davanzati, l'economista Carli, il Carpaccio e le sue tele, le musiche del Tartini, a non dire di cento altri che di qui partirono ai seggi più onorati nelle università di Padova, di Pisa, di Bologna e di Roma? «La civiltà dunque è tutta nostra, nostro tutto che costituisce la vita di un popolo, il suo decoro, il suo diritto a corrispondenza di affezioni e di cure presso i fratelli; e ciò dai più lontani tempi fino a noi, dai tempi in cui sorsero qui i grandi monumenti di Roma fino a questi giorni nei quali, se la povertà fu retaggio di noi Istriani, non c'è venuto meno il sentimento per ogni italiana grandezza, come lo attestano le costanti nostre aspirazioni, associate con fatti ad ogni opera patriottica che sia stata prodotta per affermare l'Italia, e punite dallo straniero colle carceri, coi bandi, con ogni maniera di tirannie; aspirazioni di cui certo non sono ultima prova gli iterati scioglimenti delle nostre Diete e dei nostri Consigli municipali, con esempio superiore ad ogni altro nell'impero austriaco, anche solo in ragione di numero e di confronto a provincie cento volte più popolose e alle stesse provincie italiane compagne nel servaggio: aspirazioni infine largamente tradotte nel più bell'atto nazionale da quella numerosa schiera di giovani nostri, che accorse presta sotto le armi d'Italia, e che già ebbe a suggellare con la vita l'amore della patria comune. « In che dunque saremmo da meno degli altri, per subire l'indicibile sciagura di vederci sacrificati all'Austria, di portare ancora le catene del secolare nostro nemico, mentre ogni altra famiglia italica avrebbe trovato pietà e giustizia? «Con Roma, queste nostre provincie furono sempre regione d'Italia, e fuori di dubbio la più gelosa, come lo provano i monumenti militari di cui ammiriamo ancora i numerosi avanzi, e che lungo tutta questa frontiera aveva eretto il genio romano di contro alle nazioni d'oltralpe. E quando queste, fiaccata la potenza dell'impero, irruppero di qui a depredare ed asservire l'Italia, furono le genti della Venezia marina e dell'Istria, che meglio d'ogni altra ne salvarono il nome costituendosi a reggimento di liberi comuni (i primi comuni italiani dell'evo medio) sotto la nominale signoria di Bisanzio. Continuò poscia sempre generosa la lotta contro gli stranieri, Longobardi, Slavi, Avari, Unni, Saraceni, sì che sappiamo fino da allora affidato l'onore del veneto vessillo o, come dicevasi in quei tempi, l'onore del beato Marco, alle galee e alle armi alleate degli Istriani. Ne il feudalismo della campagna, imposto da Carlo Magno, franse i tradizionali propositi di questa provincia, che, sebbene italiana fosse la corona a cui ne veniva ascritto il territorio rustico, i municipii preferirono Venezia e pugnarono, per lungo volgere d'anni, con tanta tenacità e concordia di voleri contro la signoria dei marchesi e contro il succedutovi patriarcato di Aquileia che fino dal millequattrocento si trovò anche l'Istria marchesale sotto il diretto dominio della Repubblica. «Che se Trieste seguì per fatale necessità di tempi altro destino, costretta a dedicarsi al protettorato degli arciduchi d'Austria, quale libero comune che continuò a dominarsi da se e ad esercitare perfino i diritti internazionali, ciò nulla toglie all'indirizzo storico della parte principale di questa regione ch'è l'Istria e che restò sempre, senza interruzione qualsiasi, legata alla fortuna della più italiana potenza d'Italia. «I nipoti dei prodi che militarono a Legnano e a Salvore (le più splendide battaglie della storia degli italiani) vanno pur essi superbi della più bella e legittima nobiltà, ne questa dovrebbe essere disconosciuta da alcuno dei fratelli, i quali, a dire senz'ira il vero, non hanno tutti intieramente pure le memorie dei loro avi, per quella maledizione delle guerre civili e degli invocati stranieri, di cui la piccola Istria non si macchiò mai, e senza la quale vergogna essa poté lunghi secoli brandire armi repubblicane per glorie italiane, mentre altrove in Italia si faceva corteggio a francesi, spagnoli e tedeschi dominatori. Tanta è la nostra fiducia che siffatto ordine di considerazioni basti di per se solo a rendere piena ragione del nostro assunto, che di null'altro facciamo richiesta agli uomini di Stato, che non sia lo studio dell'importanza strategica della frontiera orientale d'Italia; lo studio della necessità in cui versiamo, di prendere le nostre posizioni sull'Adriatico, per riparare la lunghissima costa della penisola, che corre dalle venete lagune a Santa Maria di Leuca. Possiamo noi italiani pretendere meno dagli italiani? «Dalla sella di Saifnitz sopra Tarvisio (la precipua fortezza che Napoleone I proponevasi di edificare allo schermo d'Italia) sino al promontorio di Fianona, apronsi tre varchi nel grembo dell'Alpe Giulia, cioè quelli del Predil e di Ciana-Fiume ai due lati e il centrale di Nauporto o di Adelsberga, ed è attraverso a quest'ultimo che fila la via maestra dell'Austria verso il mezzogiorno, è di qui che sull'unica strada ferrata la quale tragittasi oltre la intiera cinta delle Alpi nostre, si versa propriamente dal mezzo della monarchia austriaca, come avvenne pure da ultimo, il nerbo delle sue forze contro l'Italia. «Ora la linea dell'Isonzo non copre alcuno di questi passi, e nettamente lo disse il gran capitano che schiuse gli eventi dell'età nostra. Se l'Italia non vuole le più gelose chiavi del regno nelle mani dell'Austria, se non vuole insediata questa sul nostro suolo al più esposto suo fianco, signora delle alture che dominano l'Isonzo e della pianura del Frigido ossia del Vipaco che è una continuazione naturale di quella del Friuli, è mestieri che sull'Alpe Giulia, ch' è quanto a dire sul proprio confine geografico, pianti pure il proprio confine strategico, come suggeriva e pressava si facesse il maresciallo Marmont già governatore di queste provincie. E a tale officio di difesa si presta mirabilmente l'Istria, posta com'è di fronte allo sbocco del varco principale, e di fianco così alla vallata del Frigido come all'altro passo di Ciana o di Lippa. Campo naturalmente asserragliato dai monti della Vena e del Caldera, essa ci permette di impiegare un corpo del doppio minore del nemico per sbarrargli l'ingresso del regno; essa può realizzare il progetto di un quadrilatero italiano sugli ultimi nostri confini d'oriente, in quella avventurosa posizione, che, mentre comprende tutto ch'è nostro, è ad un tempo l'unica per tutta coprire l'Italia dal suo lato orientale. Bene a ragione dunque il primo Napoleone la segnalava siccome il complemento del regno italiano dopo averla già fino dal 1797 chiamata provincia importantissima della Venezia. « Ne basta la necessità del sistema difensivo terrestre, che l'altra della tutela delle nostre coste è di uguale e forse maggiore momento. «Da Aquileia a Lecce, quale costa, confine marittimo non abbiamo noi a difendere! Sarebbe dunque sommo difetto di non possedere una flotta nell'Adriatico, e sommo errore crederci regno solidamente costituito senza che la nostra flotta in quelle acque superasse di forze l'austriaca... «Poco giusto potrebbe sembrare a taluno quanto viene affermato intorno ai rapporti germanici del commercio di Trieste. L'erroneo asserto messo innanzi nel Parlamento italiano da illustre generale e ministro, s'ebbe già contro le proteste dei Triestini, e le proteste furono lasciate sussistere in tutto il loro valore dalla stessa Dieta di quella città quando, ammonita dal Governo a disdirle, coraggiosa vi si rifiutava e però veniva sciolta. E noi pensiamo innanzi tutto che saranno bene i Triestini i giudici più competenti dei loro interessi. «Ormai il gran fatto, su cui è vano chiudere gli occhi, sta in ciò che la Germania commerciale va tutta a settentrione. Ivi i suoi porti naturali di Amburgo, Brema e Lubecca; ivi le relazioni con la Francia, coll'Inghilterra, col Belgio, con l'Olanda, colla Scandinavia, colla Russia e coi paesi transatlantici dove ha diretti rapporti quasi unicamente per mezzo di quelli emporii; ivi una triplice linea di strade ferrate che fanno pendere i suoi mercantili interessi verso il Baltico e particolarmente verso il mar del Nord, a tutta ragione detto germanico; ivi la defluenza delle principali vie fluviali della patria alemanna; ivi gli aiuti di fianco, che già vanno ed andranno meglio in appresso, degli stessi porti di Marsiglia e Genova; ivi lo sfogo della corrente centrale dei commerci italiani, appena siano aperte alla locomotiva le Alpi della Svizzera e del Tirolo sull'antica strada veneziana di Norimberga; ivi infine la Prussia, che terrà l'egemonia politica ed economica della nazione germanica. « Quale necessaria connessione invece del porto triestino con quei paesi, se perfino a Lubiana, a brevissimo tratto dall'Adriatico, giungono da Amburgo i coloniali; se i manifattori di Boemia e Moravia reclamano quella città come il loro principale stabilimento; se gli stessi centralisti di Vienna, instando per la soppressione del portofranco di Trieste, fanno palese il loro interesse di piegare a un solo versante commerciale anche la Germania austriaca; se infine non è già la Germania a tergo di Trieste, ma sì la Slavia con la Carniola e con parte della Carinzia e di Stiria? « E dopo ciò, sarà necessario a Trieste di rimanersi congiunta a uno Stato che ha sì poco interesse economico di tenerla, e sì poca voglia e forza di giovarla? E di tal modo se la Slavia, la quale è sveglia anch'essa e balda di giovanili spiriti, va incontro all' avvenire, farà tutto suo nell'Adriatico, che potrà o vorrà allora l'Italia? Sostare è prudenza se ciò che non tocchiamo in presente non ci può mai sfuggire in appresso; ma non così quando urge il pericolo di non conseguirlo mai più. «Difatti l'Italia troverebbe qui oltre alle già discorse difese della sua frontiera, spertissimi marinai, ricchi boschi per le costruzioni navali, carbon fossile. E vedemmo quindi l'Istria anche per questo formare parte del primo Regno d'Italia allora pure che Gorizia e Trieste n'erano escluse, e una strada militare esservi stipulata nei trattati internazionali, condottavi con molto interessamento da quel Governo. E quando si formarono sotto il diretto dominio di Francia le provvisorie provincie illiriche, mostruosa amalgama di genti e di cose disformi, lo stesso Governo italiano appoggiava insistentemente i voti e le proteste dell'Istria a non essergli sottratta, e otteneva per allora gli fossero mantenute almeno le leve dei marinai e le amministrazioni delle saline e dei boschi... « Se in noi parla assieme alla ragione l'affetto, non ci crediamo men giusti argomentatori di chi impone silenzio al cuore, e a questo prezzo, ma non senza offendere in uno la logica dell'onore nazionale, si dà pregio di riposato ingegno e di saggezza. Ma tra la cieca passione che esige l'impossibile purché ne venga arma di partito, e la singolare saggezza di chi pregusta, come pure udimmo in questi giorni, la buona amistà d'Italia con l'Austria signora di provincie e di frontiere italiane, e i cordiali nostri rapporti coi fucilatori dei naufraghi di Lissa, ancor padroni del già sempre nostro Adriatico, vi è una saggezza ben diversa, la saggezza di chi si rispetta e rispetta meglio la nazione, confortandola a non mostrarsi al disotto del suo nome e della sua fortuna, a non abdicare ai suoi più vitali interessi, solo perché men facile dell'addormirsi nell'ingloriosa quiete ne sia il conseguimento.» Alte e virili parole, che non valsero tuttavia a far mutar corso agli eventi. L'ora delle terre irredente non era matura...
(Storia della Grande Guerra d'Italia, Milano 1920 ca. - Isidoro Reggio)
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