GRANDE GUERRA (1915-1918)

 

 

(Le origini remote)

 

 

 

 

V
 

DAI PLEBISCITI ALLA MORTE DI CAVOUR


 

 

Cavour e l'avvenire — Un opuscolo dell'arciduca Massimiliano —  Il Comitato triestino-istriano — Profetiche parole — Francesco  Giuseppe a Trieste — Il memoriale di Pacifico Valussi —  La reazione austriaca — Ultime parole di Cavour. 


 

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Il 12 settembre del 1860 il Regio Commissario nelle  Marche, Lorenzo Valerio, in un suo decreto, avendo  l'occasione di accennare a Trieste, proclamava ch'essa  «ha dato prove non poche e non dubbie di ritenersi appartenente  all'Italia ».  E Cavour scrisse al Valerio approvando, e aggiunse  queste fatidiche parole:  «Non già ch'io pensi alla prossima annessione di  quella città; ma perché conviene seminare onde i nostri  figli possano raccogliere ».  In quei giorni la National-Zeitung di Berlino pubblicò  un articolo in cui si parlava delle relazioni tedesche con l'Austria e con la Turchia, della situazione prussiana di fronte a Trieste, insomma d'un cumulo di problemi  ai quali la guerra mondiale ha dato una nuova e  straordinaria attualità. Vale la pena di riprodurre quel  significativo articolo per due ragioni: in primo luogo perché  tocca un punto importante della storia di cui qui  sono riassunti i tratti salienti; e poi perché trova nella situazione,  che doveva maturare cinquantacinque anni  più tardi, riferimenti impreveduti e gustosamente ironici.  Ecco l'articolo:  « S'intende da sé che la Prussia non può proporsi  di proteggere una grande potenza, o, per meglio dire,  una potenza che è grande. Qui non si tratta di obblighi federali, ma di servigi da rendere senza condizione di  reciprocità. La Prussia non ha mai chiesta la protezione  dell'Austria, e la chiederebbe invano, giacché l'Austria  non solleciterebbe una protezione se potesse proteggersi  da se stessa. Noi non possiamo dividere la disavventura  dell'impero degli Absburghi; noi dobbiamo seguire una  politica prussiana, non una politica austriaca. Infatti seguiremmo  una politica austriaca se volessimo subordinare  la nostra attitudine rispetto all'Italia alla considerazione  che un regno d'Italia minaccerebbe le vicine Provincie  dell'Austria, la sua posizione nell'Adriatico. Ciò spetta  agli uomini di Stato di Vienna, non ai nostri che non  hanno nulla a vedervi.  « Supponiamo che la Prussia s'interessasse all'esistenza  della Turchia; a che servirebbe se noi esortassimo  il sultano a fare dell'Asia Minore quel paese prospero  che la natura ha destinato a congiungere l'Europa all'Asia?  Non sarebbe follia per parte della Prussia sfoderar  la spada per garantire al sultano il possesso dell'Anatolia,  pel motivo ch'essa è una provincia di grande valore?  Gli uomini di Stato di Vienna hanno ragione di  apprezzare i vantaggi del territorio adriatico; noi pure vorremmo che il nostro governo avesse, da duecento  anni, una flotta nel Baltico. Ma uno Stato non deve fare  i calcoli per un altro; ciascuno deve trar profitto dei suoi  vantaggi nella misura della sua intelligenza e della sua forza.  « Ci basta sapere che né il Tirolo, né Trieste, né la  Dalmazia ci appartengono, e che non siamo chiamati a difendere quelle contrade. Se esistesse un impero germanico di cui facessero parte quei territori, sarebbe dover  nostro invigilare alla loro sicurezza; ora ci pensi il  Gabinetto di Vienna, che non ha chiesto il nostro consiglio  e che noi non possiamo costringere a seguirlo. Anziché occuparsi degli altri, la Prussia deve vigilare sul  suo proprio paese; anziché prendere a cuore i bisogni  delle Provincie austriache, s'interessi dei bisogni della  nazione tedesca che la riguardano più da vicino. »  Intanto veniva diffuso in Austria un opuscolo che menava gran scalpore per l'attualità dell'argomento, —  le coste austriache dell'Adriatico, — e per l'autore. Infatti,  per quanto l'opuscolo fosse anonimo, si sapeva  ch'era scritto dall'arciduca Massimiliano, fratello di  Francesco Giuseppe.  Nei riguardi delle coste austriache nell'Adriatico,  l'arciduca scriveva:  « Vi sono bensì a certi punti delle piazze forti, ma  (senza giudicare dello stato loro) esse non sono che punti,  e non già muraglie chinesi. Le truppe di presidio vanno  considerate come posti perduti, e non varranno a impedire  gli sbarchi. E la politica italiana conosce molto  bene la materia incendiabile, a cui si arriva per Fiume e valicando i monti di Dalmazia. L'Adriatico, famoso  per le sue burrasche e per la difficile sua navigazione, ha  soltanto ad oriente gli ottimi porti; la costa occidentale  è doppiamente pericolosa e, per così dire, senza difesa.  «Non vi è che un canale, e angusto, tra noi e il nostro  rivale. Il litorale pertanto, sì poco conosciuto, e di  cui a Vienna non si ha che quella idea che ne potrebbe avere uno scolaro, forma questione essenzialissima e di  primo rango. Chi non vede dunque che quivi è il nostro  lato debole nella vicina guerra contro l'Italia?  « I vecchi austriaci, avvezzi a cavalcare un decrepito  pensiero, finché vanno colle gambe all'aria, non veggono che il famoso quadrilatero. Ma il nemico sa dove  siamo vulnerabili, e noi faremo invano le muraglie, quando  il brusco evento si permetterà di capitarci addosso da  quella parte da cui, secondo le vecchie nostre tradizioni,  non ci credevamo autorizzati di aspettarcelo.  «Lo si comprenda una volta: è il mare Adriatico  la via per cui si attacca l'Austria. Si pensi dunque, che  per provvedere alla nostra marina siamo ormai alla dodicesima  ora. » Poi, assurgendo a considerazioni d'alta politica, l'opuscolo  arciducale prospettava così l'opportunità di un' alleanza con l'Inghilterra:  « Napoleone mira ad isolare l'Inghilterra nel Mediterraneo.  Due passi ancora, e lo scopo è raggiunto. Il primo passo è la cacciata degli Austriaci dalla Venezia,  il secondo quella dall'Istria e dalla Dalmazia. Il secondo  passo sarà assai difficile a evitarsi, qualora riesca il primo;  e ugualmente difficile a evitarsi sarà il primo, se  l'Inghilterra non guarderà l'ingresso dell'Adriatico, finché  l'Austria abbia formato un naviglio, capace di misurarsi  con quello d'Italia ». 

La questione di Trieste e delle coste irredente dava  luogo a discussioni in ogni parte d'Europa. Un giornale  francese, il Constitutionnel, avendone scritto da un punto  di vista contrario ai sentimenti di quelle popolazioni, gli  emigranti triestini pubblicarono una protesta; e il Comitato  triestino-istriano rispose con uno scritto, dettato,  a quanto si ritiene, da Tomaso Luciani.  In quello scritto si contenevano queste dichiarazioni:   « La questione di Trieste è essenzialmente pratica:  è anzitutto geografica e il suo nodo sta in ciò: Trieste è  sopra terra italiana sì o no? Una occhiata a quella maestosa  giogaia di altissime montagne che dipartendosi  dal San Gottardo si dirige verso oriente fino al Tricorno,  che dal Tricorno, fatto nodo, passa al Nevoso; che dal  Nevoso protendesi con ramo più depresso verso l'Istria,  si alza al Monte Maggiore, si bipartisce, e corre col  braccio orientale presso Fianona al Quarnaro, una occhiata,  diciamo, a codesta maestosa giogaia, e poi chi  ha occhi decida, chi ha sentimento di onestà e fior di ragione  risponda.  «Trieste, appunto per la sua situazione geografica,  è città italiana quanto altra mai, e quindi dal momento  che l'Italia si ricostituisce a nazione, Trieste ha diritto  di appartenervi, ne l'Italia potrebbe per qualsivoglia  ragione ripudiarla, o lasciarla in balia dello straniero,  senza commettere una flagrante ingiustizia, mancare alla  propria sua dignità, compromettere la sua sicurezza, mutilarsi,  infirmarsi. » Lo scritto finiva con queste fiere e veramente profetiche  parole:  « Indarno la Polizia Austriaca spia e perquisisce,  viola la santità del domicilio e il segreto delle lettere, perseguita, imprigiona, deporta, invano arrovellasi per  iscoprir Comitati; i Triestini, italiani per sangue, per lunga  dimora, per tradizioni familiari e municipali, per lingua,  per costumi, per aspirazioni, la pensano tutti ad un  modo e i pochi che pensano diversamente (qual altra  città italiana non n'ebbe?), o son poveri illusi, o non sono  cittadini, ma ospiti o avventurieri (società od individui è tutt'uno), sono fra i privilegiati, i sovvenuti, i mantenuti, i medagliati, i crocesignati. Chi è nato e cresciuto  in Trieste, chi, partendo per l'esilio da una terra italiana  sopra altra terra italiana, ha lasciato a Trieste colle sacre  ossa degli avi, altri affetti e memorie e speranze dolcissime,  ha ben diritto di parlar alto.  « E noi, facendolo, abbiamo la coscienza di adempiere anche ad un sacro dovere; che è urgente che l'Europa  sia informata, esattamente, completamente informata del vero stato delle cose, affinché lungi dallo impacciare, favorisca e secondi lo scioglimento finale della  questione italiana, in modo che non rimanga, com'Austria  vorrebbe, l'addentellato a futuri conflitti.  « Se l'Austria fonda anche adesso, come sempre  fondò, sue speranze nella guerra, l'Europa ha però bisogno di pace; ma per ottenerla duratura, è d'uopo sia  fatta giustizia a tutte le popolazioni; a tutte le terre Italiane;  è d'uopo che non una città, non una borgata italiana  rimanga in mano dell'Austria. »  Gli eventi s'erano compiuti. Le armi italiane alleate ai francesi avevano vinto. Ma la sorte delle terre doloranti  non era mutata.  Nel maggio del 1861 si annunzia la visita di Francesco Giuseppe a Trieste: e tosto il Comitato Tergestino  diffonde questo proclama alla cittadinanza: « Francesco Giuseppe d'Austria viene nella nostra  città. Ve ne annunzierà l'arrivo quello stesso cannone  che a Magenta ed a Solferino mietendo le file dei nostri  fratelli tentò, ma invano, di respingere l'Italia nel brutale servaggio.  « La venuta del dominatore straniero, del mortale  nemico dell'italiana indipendenza, non può essere che  nefasta e come tale riguardata da chiunque fra noi senta amore di patria.  « Concittadini! S'abbia pure il Sovrano Austriaco  festose e bugiarde accoglienze dai compri satelliti. Ma  il contegno nostro sia dignitoso e tale da chiarire all'ospite inviso come i Triestini sono risoluti a non più transigere coi proprii doveri di italiani, e a non fare omaggio  ad altro Re che non sia quello intorno a cui si raccoglie laNazione. « Viva Vittorio Emanuele Re d'Italia! »

In quel tempo fu pubblicata una memoria intitolata  Trieste e l'Istria, e le loro ragioni nella questione italiana.  Era opera della forte penna di Pacifico Valussi, l'infaticabile combattente per la causa degli irredenti. Lo scritto fu tradotto in francese dal triestino Costantino Ressmann, che fu poi ambasciatore d'Italia a Parigi.  Il Comitato veneto centrale fece omaggio di copie di  quello scritto alla Camera e al Senato, accompagnandole con una lettera in cui era detto:  « In questo libretto sono esposte le ragioni geografiche, etnografiche, storiche, militari e commerciali e politiche  che avvalorano il voto degli istriani di formare parte  integrante della libera e indipendente famiglia italiana che sotto lo scettro costituzionale di Re Vittorio Emanuele II risorge, dopo 14 secoli di sventure, a nazione.  « Dall'Isonzo al Quarnaro, protetta dall'Alpi Giulie  e Lagnata dall'Adriatico, l'Istria è regione importantissima  dell'Italia orientale, ne può restare scissa dalla penisola senza offesa del proclamato principio dell'unità e  indipendenza della nostra patria,  « Non si può pretendere, — proclamava il Valussi  in quello scritto, — che noi rinunciamo alla nostra parte di patimenti, e di sacrifici per la causa nazionale. Non  si può pretendere, che noi più del veneto, più del lombardo,  più del romano, o di qualunque altro italiano, rinunciamo  alla nostra individualità nazionale. Anzi, senza  un suicidio morale, noi non potremmo a meno di affermare  ad ogni costo la nostra essenza e natura di italiani.  Non potremmo a meno di affermare il nostro diritto e  la nostra volontà di appartenere all'Italia.  « Lo dobbiamo a noi stessi, lo dobbiamo ai figli nostri,  i quali avrebbero tutta la ragione di rimproverarci,  se trascurassimo questo nostro dovere a loro riguardo.  Cessare per essi dalla testimonianza paterna del nome e  dell'origine, sarebbe lo stesso che un padre trascurasse  la legittimazione de' suoi figliuoli. » Dopo aver largamente svolto le ragioni storiche, geografiche,  etnologiche, della pertinenza di Trieste e dell'Istria  all'Italia, il Valussi affrontava tutto il complesso  problema politico e lo risolveva con logica trionfante nel  senso corrispondente al sentimento delle popolazioni irredente e dell'interesse italiano.  La memoria di Pacifico Valussi ebbe grande eco nella stampa, che mostrò d'apprezzarne la dottrina e il serrato  ragionamento. E Carlo Cattaneo nobilmente scriveva:  « Questo scritto consacrato a dimostrare non a noi, — che la fratellanza si sente e non si ragiona, — ma all'Europa  la comunanza delle origini, dei costumi, degli  affetti degli istriani e delle altre popolazioni italiane, venne dettato e pubblicato appunto per incarico dell'emigrazione triestina ed istriana, la quale parla in nome dei congiunti e degli amici lontani. Non è dunque una  voce isolata e individuale codesta: è una voce collettiva:  è quella voce medesima che, non è molto, nella Dieta di Parenzo, alla richiesta di mandare deputati a Vienna,  rispose...: Nessuno: è sempre quella voce forte e  pietosa che inviò a' prodi combattenti per l'unità d'Italia auguri e voti. « Quando un grido d'ira e di pietà, quando uno scongiuro od una invocazione escono dal petto di un popolo  schiavo, dal petto rotto dalle battiture, oppresso dalle  angoscie, indebolito dagli stenti, quando questa voce e  questo grido, invano soffocati da manigoldi, giungono alle orecchie de' fratelli liberi, sarebbe delitto di non porgervi  l'attenzione di tutta l'anima. L'Istria ha diritto di  sperare, ma insieme di volere le proprie speranze. — Noi  le vogliamo con lei. »  Si può facilmente immaginare la ripercussione che lo scritto del Valussi ebbe a Vienna. Gli effetti furono  tosto visibili: reazione in tutta l'Istria, con aumento di  truppe e di spie....  Mentre l'Istria sosteneva impavida la intensificata oppressione, l'Italia si copriva di gramaglie. Era morto  Cavour.  Prima di morire, il grande italiano pronunciò queste  parole ch'erano un testamento politico: « Garibaldi è un galantuomo, io non gli voglio alcun  male. Egli vuole andare a Roma e a Venezia, ed io pure;  nessuno ha più fretta di noi. Quanto all'Istria ed al  Tirolo è un'altra cosa. Sarà il lavoro di un'altra generazione ». 

 

 

 

(Storia della Grande Guerra d'Italia, Milano 1920 ca. - Isidoro Reggio)