GRANDE GUERRA (1915-1918)
(Le origini remote)
IV DA NOVARA AI PLEBISCITI
Vittorio Emanuele II— L'appello di Carlo Cattaneo — Le Rivelazioni del Console Sardo a Trieste — L'apostolato di Mazzini — Il 1859 — Il Memoriale di Trieste — Le Bandiere delle donne triestine — Garibaldi — L'effervescenza nelle Terre Irredente.
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Vittorio Emanuele II ha raccolto la grave eredità del padre vivente. Egli sta compiendo quella faticosa opera decennale di ricostruzione, che gli consentirà di romper guerra all'eterno nemico. Le Provincie irredente attendono. La lunga pazienza è divenuta il loro destino. Nuove voci sorgono intanto e parlano ancora di quelle terre, più che mai torturate dall'Austria, che le puniva delle dimostrazioni del '48. Carlo Cattaneo indirizza ai maggiori giornali inglesi uno scritto, in cui si legge: « Molti inglesi sono sotto l'impressione erronea che l'Austria possieda le provincie italiane in virtù di qualche venerabile diritto ereditario. E' arrivano sino a credere che la Prussia e ogni altra potenza germanica siano non solamente in diritto, ma in dovere, per una tradizione non interrotta, di assicurare all'Austria il dominio di questi paesi... Vorrei solamente osservare che due terzi dei sudditi italiani dell'Austria sono di acquisizione affatto recente. Quasi quattro milioni d'abitanti appartengono agli Stati Veneti, cioè alla città di Venezia col paese all'ovest dì essa dall'Adige all'Adda superiore, e colle sue dipendenze originarie sulle coste orientali dell'Adriatico: Istria, Dalmazia, Ragusa, Cattaro. Il modo con cui il Veneto, il più vecchio stato autonomo che esistesse in Europa, costituito dai Veneti stessi, passò sessant'anni fa, repentinamente, da un minuto all'altro, da alleato dell'Austria a sua preda e a sua vittima, segna una delle più basse e meschine transazioni che s'incontrino nella storia moderna... « E chi ha dato all'Austria diritti sulla Venezia? E se ci si risponde: La Venezia fu ceduta all'Austria dalle altre potenze, torniamo a domandare: Chi erano queste potenze e come ebbero tal diritto? Le potenze avevano altrettanto diritto sopra Londra quanto su Venezia ». Al principio del 1851 Francesco Giuseppe si reca a Trieste; vi ha le più fredde accoglienze. Il fatto è affermato in questa lettera del Console sardo a Trieste, Strambio, a Massimo D'Azeglio: « L'accoglimento fatto all'Imperatore fu freddissimo, per non dire glaciale, e troppo contrasta con quello che ancora si decanta dell'anno scorso. Non si sentì un evviva in tutta la giornata, e nella città non si rimarcò alcun movimento che indicasse la presenza di così augusto Signore. Solo davanti la porta del Governo stanziavano alcune dozzine d'individui, nelle ore in cui speravasi che l'Imperatore e l'Arciduca suo fratello dovevano sortire ». In una lettera successiva, lo stesso console confermava il fatto delle accoglienze glaciali e soggiungeva: «Si domanda che sarà per avvenire se, come dicono certi giornali, l'idea della rivoluzione rialzerà di nuovo la testa, se una conflagrazione europea succedesse. Gli uomini più assennati, più moderati, più conoscitori di tutti questi paesi, prevedono una grande rovina, un probabilissimo sfacelo di quest'Impero, perchè ora più difficilmente si potrà schiacciare una provincia colle forze dell'altra, tutte essendo scontente e mal disposte a sopportar oltre, quando possano sciogliersene, la forzata coesione che assiema le lega ». Le lettere del console Strambio al governo di Torino enumerano molti episodi delle rappresaglie austriache a Trieste, che in quegli anni erano all'ordine del giorno. In una di queste lettere, diretta a Dabormida, è mostrato come si ottenne a Trieste la sottoscrizione di venti milioni al prestito cosiddetto volontario imposto dall'Austria: « La somma di 20 milioni di fiorini, stata segnata per Trieste nel Grande Imprestito volontario austriaco, è ormai appieno sottoscritta. Per ottenere un tale risultato nessun mezzo si lasciò intentato. « Governatore ed autorità emisero circolari, si diffusero opuscoli eccitanti a sottoscrivere. Venivano invitati negli uffici di Stato gli abbienti e si domandava loro quanto avevano deciso di sottoscrivere. « E quelli che per mala sorte godono di poco favore nel concetto politico dell'autorità, ebbero l'onore di una chiamata speciale per udirsi dire di badar bene, che si aveva l'occhio su loro e che sarebbe stata considerata come dimostrazione politica la minor parte ch'essi avessero presa al grande imprestito. Tutti poi al momento della sottoscrizione, se la somma offerta non era pari a quella che in liste preparatorie era stata a ciascheduno segnata, andavano soggetti a contumelie e dovevano sostener brighe e malanni. Quelli infine che avevano il coraggio di resistere alle pressioni e alle intimidazioni, ricevevano altra lettera da questo Governatore in cui misure di coercizione si minacciava ad essi se non ottemperavano alla volontà superiore. « E ben posso concludere che la volonterosità dell'imprestito austriaco non è molto diversa dalla spontaneità delle testimonianze che si ottenevano mediante tortura ». Intanto la voce incitatrice di Mazzini non taceva. Come s'egli fosse stato la vivente coscienza d'Italia, seguitava a parlar di guerra, di confini, di doveri— « Sappiamo, noi tutti, — egli scriveva, — che la guerra italiana non può vincersi nel quadrilatero delle fortezze lombarde, ma in Tirolo, nelle Alpi venete, a Trieste, a Fiume ». E un'altra volta diceva: « L'Europa tende a costituirsi per grandi frazioni equilibrate fra loro, formate a seconda delle lingue, della posizione geografica e delle tradizioni storiche. L'Europa futura, checché si faccia oggi o si scriva, avrà una Italia che si espanderà dall'estremo lembo della Sicilia al cerchio dell'Alpi e a Trieste ». Le terre irredente erano chiamate dal grande agitatore; « i veri punti strategici d'ogni guerra nazionale ». Anche Garibaldi parla. Egli manda ai trentini il seguente indirizzo: « Nella lotta santa sostenuta dall'Italia contro i suoi oppressori da tanto tempo, uno dei più brillanti episodi e più gloriosi, si è certo quello decorso in questi ultimi tempi. «Vi fu un cenno onorevole di gratitudine per quelle Provincie che meglio risposero all'appello del prode campione dell'indipendenza, a Vittorio Emanuele », e che mandarono sui campi delle patrie battaglie la gioventù animosa a suggellare col sangue il patto sublime d'unione nazionale, meritevole oggi del plauso dell'Europa. Nessuno peraltro ricordò il Trentino! Quella nobile parte della nostra penisola, che ad onta di duecentomila mercenari dell'Austria che la calcano e la depredano, non mancò di far sentire coraggiosamente una voce di giubilo al trionfo della causa italiana, di reprobazione e di ribrezzo alla fetida dominazione austriaca. «Eppure modesti, come lo sono generalmente gli uomini di cuore, i Trentini continuano silenziosi a dividere, come divisero nel passato, le fatiche e le speranze comuni. Essi diedero nella campagna passata buon numero di valorosi ufficiali e soldati, e al martirologio nostro, nomi che mi commuovono nel pronunciarli, e che certamente onorano il nostro paese al pari dei più illustri. « Il nome del trentino Bronzetti durerà nella memoria dei posteri quanto i fasti gloriosi della nostra storia, e sarà il grido di guerra dei bravi Cacciatori delle Alpi nelle pugne venture contro gli oppressori dell'Italia. « Furono centinaia i concittadini di Bronzetti che si distinsero nella sacra guerra, ed una parola non s'è alzata a segnalarli alla gratitudine nazionale! Valga la mia debole voce a supplire in parte all'involontario oblio, ed a ricordare un ramo dei più nobili e più generosi della famiglia italiana, su cui posano meritamente le nostre speranze di redenzione. » Gli incitamenti si moltiplicano, l'anima italiana si ridesta, le terre irredente sono percorse da nuovi brividi di speranza. Vittorio Emanuele ha compiuto la lunga preparazione: il 10 gennaio 1859 egli pronuncia la storica frase del « grido di dolore »: è l'ora della guerra. L'Austria a sua volta si accinge a scendere in campo: e in pari tempo stringe duramente i freni nelle sue Provincie italiane. Stato d'assedio, processi, repressione dovunque. Trieste si prepara. Qualunque sia la sorte delle armi, essa vuole che la sua causa sia portata davanti all'Europa. E mentre la polizia infierisce contro i patrioti, nei segreti penetrali si redige la memoria che dovrà essere presentata al Congresso europeo. «L'Austria, — è detto in quel documento, — lentamente e grado grado, com'è suo costume, ora con insidie, ed ora con violenza, ora approfittando delle lotte dei partiti, ed ora delle esterne guerre, ora con lusinghe, ed ora con minaccie ed ordini, ad una ad una ci tolse tutte le nostre franchigie; con nuovi intrusi, con l'usurpazione dei poteri, con bandi e con morti, impoverì e alfine distrusse il patriziato, e rese un nome vano il cittadino Consiglio; con arbitrarie mutazioni violò, e quindi pose in dimenticanza il giurato statuto, e con una sorda e continuata guerra ridusse Trieste uguale all'infimo servilissimo comune dello Stato. Questi son fatti, di cui stanno i documenti nella patrie istorie, le quali ancora, là Dio mercè, non abbiamo al tutto dimenticate... « Dopo il 1815 e specialmente dopo il 1849, l'Austria, unitici senza nostra autorizzazione alla Carniola e alla Carinzia col nome d'Illiria, c'incorpora all'Impero; ci aggrega contro ogni nostro sentimento nazionale e senza nostra saputa, alla Confederazione germanica; ci dà e ci toglie a suo talento una costituzione, facendoci retrocedere, col Concordato, colle leggi sulla stampa e consimili ordinamenti, più d'un secolo indietro nella civiltà; ci sovraccarica d'imposte in misura sproporzionata alle altre Provincie; e con prestiti ipocritamente detti volontari, con leggi e misure finanziarie disastrose e non tutte oneste, manda in rovina il nostro commercio, e fa dell'Istria una mendicante affamata; con l'intrusione di Tedeschi e d'avventizi a lei dediti, in tutte le cariche, in tutti gli uffici, sin ne' seggi del nostro municipio, ordina e disordina a suo talento ogni nostro interesse, secondo i suoi fini; coll'onorare e decorare persone indegne, perchè ligie ai suoi voleri, guasta e sconvolge la coscienza pubblica; col favorire vizi corruttori (vino, donne, lotto), utili soltanto all'oppressione, e col reprimere e soffocare ogni generoso slancio ed ogni generosa coltura, corrompe e tiene nell'ignoranza il nostro popolo, e con scuole tedesche e preti slavi, ed impiegati d'ogni stirpe, tenta imbastardire e farci dimenticare la nostra italiana nazionalità, ultimo e caro palladio di tutta la nostra antica italica gloria » Ma non alle parole si limita l'ardore che strugge gli irredenti. Anche in quella guerra essi daranno il loro braccio e la loro vita alla patria. «Da alcuni triestini, istriani e friulani, — scrive Pacifico Valussi, — si fece un fondo per attirare marinai dell'Istria, del Veneto e della Dalmazia per la flotta italiana; e ci si riuscì. E Cavour, allora ministro anche della Marina, gradì il dono: intese molto bene il doppio vantaggio del togliere i marinai all'Austria e farli propri ». Una deputazione d'istriani e friulani si recò a Reggio e offerse alla Brigata Ravenna due bellissime bandiere ricamate dalle donne di quelle terre. Il colonnello Pepoli rispose con un proclama ardente di fede e di speranza. Il generale Mezzacapo, assente, mandò una lettera in cui riboccava la gratitudine agli irredenti e si auspicava la vittoria. Gli istriani, a lor volta, indirizzavano queste parole ai soldati che dovevano marciare sotto la bandiera offerta dalle donne dell'Istria: « Magnanimi soldati dell'italica indipendenza! Se il valor vostro e di quelli che vi mandammo e vi manderemo a compagni d'armi, varrà anche a noi la desiata redenzione, l'Istria si rifarà gagliarda; se no, benediremo a voi egualmente, e per noi troveremo la fierezza, unico conforto, di perdurare indomiti fino al sorgere immancabile del dì nostro ». Garibaldi, intanto, compiva in Sicilia la prodigiosa impresa dei Mille. Passando di vittoria in vittoria, egli non dimenticava le terre adriatiche ancor schiave e si preparava a soccorrerle. « L'Austria, — scriveva il conte Prospero Antonini, — si arma per difendere il Veneto e l'Istria perchè Garibaldi, ingrossato che abbia il suo esercito, come valanga piomberà dalla Puglia sui lidi della Dalmazia e gettandosi fra le Alpi Giulie, chiuderà quella porta sempre ai barbari aperta, pigliando poi a rovescio il celebre quadrilatero. Insomma se la impresa siciliana riesce a buon fine, molto possiamo sperare noi pure ». E le donne triestine mandavano a Palermo all'Eroe dei due mondi una bandiera, accompagnata da queste parole: « Né le soperchierie dei dominatori, né gli aulici decreti, né la viltà dei degeneri patrizi valsero a snaturare il nostro popolo, che è rimasto italiano, e che ora più che mai ha la coscienza dell'imprescrittibile suo diritto di appartenere all'italica famiglia. « E la bandiera che noi, donne triestine, vi mandiamo in dono, o Generale, vi sia debole pegno del sentimento nazionale che rianima i nostri mariti, i nostri figli. Aggraditela, o Generale, e accordatele l'onore di guidare alcuna delle vostre intrepide legioni alle future battaglie dell'indipendenza e della libertà della patria comune ». La bandiera, veramente magnifica, portava nel tricolore drappo di seta lo stemma sabaudo sormontato dalla corona reale. Sopra un nastro di velluto azzurro si leggeva in caratteri d'oro: « A Giuseppe Garibaldi le Donne triestine nel luglio 1860 » e più in basso vi era in rilievo lo stemma di Trieste, l'alabarda fra due rami di quercia e d'alloro. L'altra banda del nastro portava l'iscrizione: « Viva l'Italia Una, Viva Vittorio Emanuele II ! », con pili sotto lo stemma della Reale Casa. L'asta era coperta di velluto verde con borchie d'oro, e finiva in una lancia con inserta a traforo la croce bianca... In tutte le terre irredente l'effervescenza saliva, « Il partito italiano a Trieste, — scriveva il Pungolo di Milano, — va crescendo sensibilmente ed in proporzioni gigantesche. Ormai ogni riguardo è gettato da parte: nei caffè, nelle farmacie e dappertutto si parla liberamente contro il governo austriaco, benedicendo a Vittorio Emanuele, a Garibaldi ed al pensiero santissimo della sottoscrizione nazionale al milione di fucili ». In varie località dell'Istria veniva tratto tratto alzato il tricolore, mentre apparivano per tutto sulle mura iscrizioni inneggianti a Vittorio Emanuele, a Garibaldi, a Cavour, ed imprecanti alle spie. La repressione infieriva. A Trieste vengono sequestrati 3000 fucili. A Gorizia, per tema di dimostrazioni patriottiche, si proibisce il Corso. Un giovane di Pisino, noto per i sentimenti patriottici, è preso d'ordine del pretore e mandato ad un reggimento di disciplina. Nel Trentino, ove si compieva, in pieno stato d'assedio, un grandioso plebiscito segreto, le pattuglie di confine avevano l'ordine « di fare il più esteso uso delle armi ». Ma gli eventi ebbero un corso diverso da quello che prima il brillante svolgimento della guerra e poi la ben nota volontà di Vittorio Emanuele avevano fatto ritenere verosimile... La pace inesplicabile di Villafranca non aveva spento la fede degli irredenti, ne mutato i sentimenti dell'Italia: e così dopo i plebisciti, negli anni che seguirono, si andarono preparando nuove pagine alla storia di guerra dell'Italia e nuovi capitoli alla storia di dolore delle terre irredente. .
(Storia della Grande Guerra d'Italia, Milano 1920 ca. - Isidoro Reggio)
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