GRANDE GUERRA
(1915-1918)
(Le origini remote)
III
DA CAMPOFORMIO A
NOVARA
La presa di possesso
dell'Austria — La parentesi napoleonica — Aggregamento arbitrario alla
Confederazione germanica — Domenico Rossetti e Pietro Kandler — Una
frase di Gioberti — La polizia austriaca indaga — La relazione del
governatore Stadion — Il '48 — Incredibili voltafaccia ufficiali —
Dall'Ongaro e Cesare Correnti — Mamiani — Il consiglio di bloccare
Trieste — Il proclama dei deputati istriani — La voce di Daniele Manin —
I tragici episodi trentini — Il plebiscito dell'Istria — Novara
____________________
Il mercato di
Campoformio, oltre a Venezia e ai territori attigui, dava all'Austria
l'Istria, la Dalmazia, le isole venete dell'Adriatico e le Bocche di
Cattaro...
L'Austria, che già da quattro mesi aveva preso l'Istria (sotto la sua
protezione), faceva poi annunziare a Capodistria che negli atti legali
conveniva dare all'imperatore, in luogo del titolo di (graziosissimo
Protettore), quello di « graziosissimo Sovrano ». E forse per dar
maggior (peso all'avvenuto mutamento, nella piazza della bella città
istriana si collocavano due cannoni e veniva eretto in permanenza il
patibolo.
Viene Austerlitz:
l'armistizio consente a Napoleone d'occupare la contea di Gorizia e
l'Istria. «Egli voleva — scrive il Thiers — ottenere quanto a lui
mancava in Italia, vogliamo dire gli Stati veneti, posseduti allora
dall'Austria, più la soluzione definitiva delle questioni germaniche in
prò de' suoi alleati... In questi due punti Napoleone era immutabile, ne
gli si può dar torto.
Venezia, il Friuli, l'Istria, la Dalmazia, in una parola l'Italia intera
sino alle Alpi Giulie, e l'Adriatico con ambe le sue coste, « gli
bisognavano per assicurargli un'azione sopra l'Impero ottomano ».
La pace di Presburgo viene a confermare l'avvenuta occupazione,
cancellando il trattato di Campoformio. Il Magistrato civile dell'Istria
pubblicava un bando, in cui si leggono queste parole:
« Or noi, con tutti gli altri popoli d'Italia, cesserem di piangere
sulle ruine della patria comune; non più crederemo di essere in terra
straniera, divisi, deboli, poveri ed avviliti; non temerem più di
vederci alternamente negletti e combattuti; senza rossore non solo ma
con un fasto concesso dal momento, rammenterem che l'Italia
signoreggiava il paese che avea per confini l'Eufrate, l'Atlantico, l'Eusino
ed il Caspio; riaccenderassi il fuoco sopito dell'anime nostre ».
La parentesi napoleonica ha breve durata : arriviamo al 1815. Il
Congresso di Vienna consegna all'Austria col Lombardo-Veneto anche la
Venezia Giulia e il principato di Trento e la repubblica di Ragusa. Ebbe
tutto ciò contro diritto. Era stato (proclamato il principio che ogni
cosa in Italia dovesse essere restituita come era prima della
rivoluzione. Ebbene, l'Austria mai aveva potuto vantare alcun diritto
possessorio su Venezia, sulle Provincie giulie, su Trento...
Quello stesso Napoleone, — nota il generale Perrucchetti, — che nel 1797
cominciò a smembrare l'Italia vendendo la Venezia e l'Istria
all'Austria, che più tardi ebbe lo strano capriccio di formare del
Piemonte e della Dalmazia due dipartimenti francesi e che finì col fare
a pezzi la nostra penisola, dividendola fra i membri di sua famiglia nei
Reami di Napoli, d'Etruria, nel così detto Regno d'Italia e nel
principato di Lucca e Piombino: quello stesso Napoleone, dico, sentì
poi, nei giorni della sventura, ma troppo tardi, la gravità del fallo
commesso per folle ambizione dinastica, calpestando i diritti storici
della stessa sua patria d'origine. E quando dei dì che furono lo assalse
il sovvenir, ripensò a questa nazione che aveva con tanto sangue
contribuito alle sue vittorie, illusa dalle promesse di una risurrezione
patriottica. Quando la realtà delle cose pesò sulla coscienza di
quell'uomo di genio, egli con profetica visione augurò la risurrezione
di una Italia grande ed una, colla sua storica Capitale a Roma, ed
affermò la nuova missione della nostra patria per la giustizia e la pace
del mondo. Ecco la sua conclusione: «Si la péninsule est monarchique, le
bonheur de l'Europe voudrait qu'elle format une seule monarchie, qui
tiendrait l'équilibre entre l'Autriche et la France: et sur mer, entre
la France et l'Angleterre. L'Europe ne sera tranquille que lorsque les
choses seront ainsi: les limites naturelles! »
I confini naturali: in queste parole è la sintesi d'un secolo di storia
italiana.
Ma il nuovo stato di cose suscitava preoccupazioni. Il conte Cotti di
Brusasco, ambasciatore del Re di Sardegna a Pietroburgo, così ne parlava
in un memoriale presentato allo Czar Alessandro: «Il solo mezzo
d'estinguere la rivalità della Francia e dell'Austria in Italia, sarebbe
quello di costituire nel settentrione della penisola italiana uno Stato
abbastanza forte per la difesa delle Alpi e per chiudere le porte
d'Italia a qualunque straniero. I limiti di questo Stato sono tracciati
dalla natura, e sono le Alpi e gli Apennini circondanti il bacino del
Po, quella valle sì amena che ha principio alle falde del Moncenisio e
si stende fin ai monti della Carniola. La lingua divide il Tirolo
italiano dal Tirolo tedesco, gli Stati veneti dagli Stati illirici. Non
soltanto le montagne e la favella indicano i veri e naturali confini di
siffatto regno, ma anche i costumi, le abitudini, le correlazioni. In
effetto, mentre nulla avvi di comune tra il Piemontese e l'abitante del
Delfinato, nulla tra l'Austriaco e il Veneziano, tutta la parte
settentrionale d'Italia trovasi allo stesso grado di civiltà, e vi si
riscontra comunanza d'opinioni e d'interessi. »
L'Austria intanto compieva un arbitrio inaudito: aggregava
clandestinamente alla Confederazione germanica il Trentino, Trieste e
Gorizia. Si noti che l'inclusione del territorio triestino, situato al
di qua delle Alpi, nella Confederazione germanica contraddiceva, oltre
che al diritto storico, anche alla stessa dichiarazione austriaca di non
voler estendere oltre le Alpi la linea di difesa federale. E
contraddiceva per analogia alla dichiarazione prussiana che limitava la
partecipazione alle Provincie legate alla Germania da vincoli di
nazionalità.
« Il protocollo, — scrive lo storico Bianchi, — di tale arbitraria
aggregazione restò segreto e l'Europa rimase perciò silenziosa
dirimpetto ad un atto che profondamente sconvolgeva l'equilibrio
generale e collocava l'intera Germania a puntello dell'Austria in Italia
».
Ma poi la cosa necessariamente fu risaputa. Infatti non bastava il solo
voto favorevole degli interessati per sanzionare questa nuova annessione
la cui caratteristica principale era uno strappo ai principi dell'atto
federale. I territori che si volevano aggregare non erano affatto
tedeschi.
Le Potenze europee non avrebbero mai potuto tollerare questo
ingrandimento della Confederazione germanica che mirava « a mettere al
posto della Confederazione stabilita col Trattato di Vienna,
nell'interesse dell'equilibrio europeo, una confederazione del tutto
differente che avrebbe rovesciato questo equilibrio ».
Così suonava la formula del veto opposto dalla Francia, che, prima fra
le Potenze europee, non tardò a far conoscere la sua recisa opposizione
all'audace progetto. A questa nota, la Francia faceva seguire un
memoriale alle Potenze firmatarie del Trattato di Vienna, dilungandosi
nell'esposizione dei motivi che dettavano il suo voto contrario.
La Gran Bretagna l'imitava presto e Lord Covsrley, ministro
plenipotenziario presso la Confederazione germanica, indirizzava una
nota al presidente della Dieta di Francoforte, in cui affermava che il
far servire l'organizzazione della Confederazione a tutt' altro scopo
che allo scopo tedesco assegnatole dalla Confederazione stessa « avrebbe
significato agire contrariamente alla lettera ed allo spirito del
trattato del 1815 ». Ed in questa nota inglese è notevole una
dichiarazione fatta da Lord Cowley, a nome del suo Governo, sui
territori che si progettava di aggregare, « paesi, — si legge, —
geograficamente divisi dalla Germania e che hanno una popolazione
affatto differente da quella della Germania, tanto sotto il rapporto
della lingua che dell'origine. » Al coro franco-britannico non tardò ad
unirsi la Russia. Il Regno di Sardegna, pur non essendo fra le Potenze
firmatarie del Trattato di Vienna, sul quale si imperniava la
discussione, credette opportuno rivolgere anch'esso un memorandum alle
sette Potenze, facendo innanzi tutto appello al sentimento di
nazionalità. « L'assimilazione completa delle Provincie lombardo-venete
alle altre provincie tedesche, la loro germanizzazione definitiva
distruggerebbe per sempre la nazionalità italiana; ed è sotto questo
aspetto, — affermava il Governo sardo, — che la questione deve essere
sopratutto esaminata, non soltanto nell'interesse dell'Italia, ma in
quello dell'Europa intera ». Lo spirito d'italianità vigilava sempre
nelle terre che l'Austria trattava in tal guisa. E a Trieste vediamo
sorgere la nobile figura di Domenico Rossetti, che nei suoi scritti
riconobbe sempre la sua città come facente parte indissolubilmente
dell'Italia.
In una commemorazione che di lui fece Attilio Hortis è detto: « Qual
maggior disonore può esserne fatto che negare a noi l'essere e il
gloriarci d'essere italiani? L'osò certo Kreil, aio in casa di un
prepotente ministro; ma dovette pentirsene in leggere le confutazioni
che delle sue scipite menzogne tosto pubblicò il Rossetti. Tuttoché
suddita a principi di origine tedesca, Trieste, dice egli due volte, non
ha cessato mai di essere italiana; le sue istituzioni, dacché si
conoscono, sempre latine o italiane; ed altre aggiunge, in quasi ogni
libro, ben più esplicite affermazioni della fede nazionale, che noi,
oggi, in tempi simulanti libertà, non potremmo senza pericolo ne ridire
né ristampare ».
Un'altra figura si profilò allora sull'orizzonte triestino ed istriano :
quella di Pietro Kandler, che doveva poi rivendicare dai monumenti
l'italianità di quella regione e scriverne la storia con mirabile
dottrina. « La lingua, — egli -scriveva fino dal 1826, — i costumi, le
occupazioni, i prodotti, gli affari essendo comuni col resto dell'Italia
Veneta, mi pare che a questa si potrebbe riunirla. Al Friuli dovrebbe
darsi un'estensione maggiore, l'Istria riunirla tutta sotto Trieste. Non
vi sarà mai salute finche non si aboliscano le scuole tedesche. La
mutazione di lingua cagiona crassa ignoranza.» E vent'anni più tardi, al
Kandler già provetto combattente per la causa italiana e chiaro per gli
scritti e le opere, così scriveva un patriota istriano: « Tutta
l'Istria, — tutta, — deve conseguire scuole italiane, se abbiamo da
sperare la sua redenzione. Da Lei, da Lei, attendiamo assai, direi
tutto, — lo attendiamo, cioè, noi pochi che conosciamo le sue
intenzioni.
Il Cielo Le dia vita lunga, e per Dio, Ella avrà il vanto di aver fatto
ciò che sinora nessuno fece per questa infelice patria. Coraggio!
coraggio! il numero dei buoni cresce, i vecchi muoiono, la generazione
cui ora spunta sul mento la lanuggine, comprenderà altrimenti l'idea del
patrio amore, — io conto su questa. »
Ben si poteva dire al Kandler d'aver fatto più d'ogni altro.
Basterebbero le sue illustrazioni di più di mille lapidi antiche, nelle
quali egli rintracciò i ricordi del passato latino dell'Istria.
Anche in Italia la causa nazionale di quelle terre trovava convinti
assertori. Vincenzo Gioberti le chiamava « appartenenze nobili d'Italia
», affermando « naturale che i loro abitanti siano liberi e non
soggiacciano a un padrone forestiero, a cui tal possesso conferirebbe la
signoria gelosa delle nostre porte. » Le società segrete, che in Italia
s'agitavano per la libertà, non perdevano di vista quelle terre. I
liberali napoletani fin dal 1820-21 pensavano a Trieste come a terra
italiana. Per opera dei Carbonari fu mandato a Trieste un emissario per
eccitare il popolo a scuotere il giogo — con adesione del Parlamento di
Napoli, congregatosi all'uopo in Comitato Segreto.
La polizia austriaca lo seppe e s'allarmò. Nel Civico Museo veneziano si
conserva questo significante documento, rinvenuto tra gli atti della
imperiale regia polizia di Venezia: « . . . Viene riferito in via
confidenziale che in occasione del prossimo viaggio di S. M. l'
Imperatore a Trieste, dal partito liberale d'Italia vi venissero spediti
degli Emissari onde essere istruito di quanto potrà riferirsi
all'oggetto di questo viaggio ed eseguire gli ordini della Setta, e fra
questi vengono indicati certi Berardi G., Orioli F., Carbonis R. e
Grozet G., girovaghi sotto differenti pretesti di commercio e di
letteratura.- « Invito quindi la Sez. III di disporre l'occorrente,
affinchè i forestieri suddetti, nel caso di comparsa, siano assoggettati
al più rigoroso trattamento di forestieri, e durante il soggiorno di Sua
Maestà in queste vicinanze, tenuti possibilmente lontani, informandone
le Direzioni di polizia di Milano, Trieste, Zara ed Innsbruck. »
I timori dell'Austria erano tanto più spiegabili, perchè aveva piena
coscienza dello sgoverno ch'essa faceva di quelle provincie.
Eloquentissima è la relazione fatta all'Imperatore dal conte Francesco
Stadion, governatore del Litorale. In quella relazione si legge: « Nel
maggior numero dei Comuni trovai ogni cosa in abbandono: non scuole, non
provvedimenti per i poveri e per gli infermi. Ed anche là dove mi
incontrai in simili istituzioni, ebbi tosto a riconoscere la loro
azienda male o niente affatto governata, e senza controllerìa di sorta.
« In principalità le
istituzioni per iscopi di polizia sanitaria e per provvedere alla grande
mancanza di acqua nell'Istria, sul Carso, si trovavano in pessime
condizioni.
« Nessuna
amministrazione comunale aveva cognizione delle sostanze del rispettivo
Comune; non se ne teneva l'inventario; e da alcuni singoli ne veniva
fatto bottino; molta parte già perduta, il rimanente si arrischiava di
perdere.
« Osservai anche, che
laddove il Comune ne ritraeva un utile, questo non era proporzionato
alla sostanza, considerata sempre dagli abitanti come res nullius,
essendosi di regola introdotta da per tutto una sistematica usurpazione
dei beni comunali, di cui ciascuno ne prendeva quanto più gli riusciva.
« Con questo modo di amministrazione, il Comune andava incontro quasi
alla completa rovina; un progresso qualunque non era siperabile, e la
generale prosperità economica ne soffriva in mezzo a tanti esempi di
pessima amministrazione, di disordine e di ostentata mala fede, passata
oramai in abitudine, e da nessuno dei membri del Comune neppure più
avvertita. »
Così procedevano le cose, quando ad un tratto accadde la più
incredibile, la più prodigiosa delle trasformazioni. L'Austria riconobbe
altamente l'italianità dell' Istria...
Infatti l'Osservatore Triestino, il giornale ufficiale del governo,
pubblicava queste righe stupefacenti : « L'Istria è paese poco noto
all'Italia, e pure le appartiene per posizione geografica, per lingua,
per costume, per memorie, per desideri. Le sue condizioni son tali che
ha molti bisogni e molti desideri, e rinchiude in se tali e tanti
generosi ingegni che hanno il diritto e il debito di giovarle, per
quanto possono, coll'opera e colla parola. »
Che cosa era mai avvenuto? Una cosa semplicissima: si era nel 1848.
Quella année terrible dell'Austria ha veduto tutto il possibile e
l'impossibile. Nei mesi di quell'annata la mentalità austriaca compì
ogni più inverosimile evoluzione. La storia del '48 austriaco dà dei
punti a tutte le fiabe — e a tutte le tragedie.
Ventiquattro ore erano trascorse dalla pubblicazione italianissima del
giornale austriaco, quando il barone di Sant'Agabio, Console di Sardegna
a Trieste, mandava a Torino una nota in cui richiamava l'attenzione del
suo governo su un altro scritto del medesimo Osservatore Triestino, ma
perfettamente antitaliano! E il Console soggiungeva: « Penso essere
stato inserto per cura delle Autorità superiori di questa città, e forse
anche delli Supremi Dicasteri in Vienna i quali vogliono a tutta forza
far credere essere Trieste città unicamente slavo-tedesca e devota alla
Monarchia austriaca ». Ma i salti acrobatici del giornale nulla
toglievano alla realtà dei fatti, che a Trieste e nell'Istria furono
prontamente conosciuti.
La caduta di Metternich suscitò un delirio di gioia, una repentina
fioritura di speranze, il popolo invase il Tergesteo, staccò il ritratto
dell'odiato ministro, lo fece in pezzi e lo diede alle fiamme. Poi
strappò l'insegna dell'Albergo Metternich e voleva bruciar
l'edificio. L'anima del movimento a Trieste fu Leone Fortis, allora
ventenne, come fu a Gorizia il giovanissimo Graziadio Ascoli, che
arringava la folla con ardente eloquenza. A Trento si sente travolto dal
moto rivoluzionario un giovane di ventiquattro anni. Egli sale sui
palcoscenici dei teatri e declama con impeto irruente i suoi versi: era
Giovanni Prati. Dovunque, nelle terre irredente, il primo squillo di
libertà trovò al loro posto i giovani, gli intellettuali, i migliori...
Quando il Governatore Principe di Salm, annunziò alla folla da un
balcone del suo palazzo ch'era stata data la Costituzione e gli scappò
detto che, in virtù della stessa, il popolo aveva, tra l'altro,
garantita la libertà del pensiero, un'altra voce lo interruppe: —
La libertà della parola, asino! — Sì, è vero, — rispose
confuso il Salm, — della parola!
Staffette recarono ai capi politici dell'Istria la lieta notizia della
concessa Costituzione. In tutte le città della costa la portò il
piroscafo da Trieste, tutto pavesato a festa, dal quale furono sparse in
gran copia quelle coccarde bianco-rosso-verdi, che già ornavano tutti i
petti dei triestini.
Le feste furono indescrivibili e durarono molti giorni. Intanto la
squadra riunita della Sardegna e di Napoli incrociava davanti alla costa
dell'Istria. Un giorno, forte di circa 12 legni, si drizzò verso Rovigno.
Tutti attendevano uno sbarco. Due compagnie del reggimento Hess
dell'Austria Inferiore, che costituivano la guarnigione, abbandonarono
la città, gremita di gente in attesa dello sbarco. Ma improvvisamente le
navi virarono di bordo, e si diressero verso Pirano e Trieste, e
scambiarono qualche innocua cannonata con le batterie costiere.
Poco stante comparivano lungo la costa istriana navi da guerra
austriache e soffocarono il fermento che andava estendendosi. Tuttavia
il governo temeva. E per addormentare le popolazioni in una quiete
fiduciosa, ricorse ancora all'Osservatore Triestino, il quale
compì serenamente un altro voltafaccia e pubblicò queste più che mai
incredibili parole:
« Era tempo che questo lembo d'Italia potesse aprire senza timori e
senza pericoli i propri tesori della mente e del cuore; potesse offrire
feste non comandate, tripudi sinceri, oneste ovazioni. Il capo d'un
piccolo comune ha dovuto piangere, quando un popolano, compiuta la
festa, è venuto in nome di tutti a ringraziarlo della libera gioia
concessa e del popolare entusiasmo non contraddetto.
« Non più gare municipali; non più predominio della ignoranza, della
violenza e della ipocrisia.
« Trieste e l'Italia sono una sola patria: patria italiana ».
Ma l'opinione pubblica triestina vigilava. E per essa il poeta Francesco
Dall'Ongaro agiva.
Quando i rappresentanti di tutti gli Stati italiani mandarono a Pio IX
l'indirizzo perchè convocasse una Dieta italiana, Dall'Ongaro pose la
sua firma per la Venezia Giulia. Poco dopo, Cesare Correnti a nome del
Governo provvisorio di Milano lo incaricava di pratiche confidenziali
presso i triestini, istriani e friulani.
In un proclama a quelle popolazioni, Francesco Dall'Ongaro scriveva:
« Io conosco Trieste : vi consacrai la parte migliore della mia vita,
svolgendo e fecondando, a quel modo che il mio ingegno e la polizia mi
concessero, i semi italiani che la natura e le tradizioni vi avevano
sparso.
Primo ho gridato Trieste città italiana nei congressi scientifici : e
con mio pericolo osai chiamarla a far parte d'una futura lega italica,
allora un sogno poetico, adesso un fatto compiuto. Quelli che allora
vollero soffocar la mia voce, vorrebbero or soffocare l'istinto italiano
e la fraterna simpatia che si risveglia costì. Ma la natura ha uno
stampo possente, e l'umana viltà, la tirannia, l'egoismo non possono
cancellarlo.
« Dal tempo di Giuseppe II, invalse il funesto sistema di germanizzare
quel popolo. Governo tedesco, tribunali tedeschi, impiegati tedeschi,
maestri che insegnavano i rudimenti dell'italiano in tedesco, preti
tedeschi, tedesca ogni cosa.
« Vani e ridicoli sforzi. Un decreto di Vienna può ben mitragliare e
distruggere un popolo, come tentò nella Galizia e a Milano, ma non
cambiare l'aria, il cielo, le razze, le consuetudini, non cancellare
l'impronta di Dio. Trieste rimase italiana. Solo un teatro italiano, un
giornale italiano vi resse: la lingua del popolo restò italiana per
quanto si insegnasse il tedesco. Stadion, come prima si avvisò di
visitare le scuole normali, s'accorse che bisognava tradurre e rifare i
testi scolastici, e rimandar fra gl'invalidi i vecchi caporali tedeschi
fatti maestri di lettere.
« Il popolo di Trieste è popolo italiano. Gli Slavi non abitano che i
contorni, fratelli anch'essi all'Italia di sventura, e, fra poco, di
gloria. I tedeschi sono colà, com'erano tra noi, un popolo sovrapposto
ad un altro, una pianta parassita che usurpa l'alimento dell'albero a
cui s'abbarbica. Chi ha occhi, veda: chi ha senno, l'adoperi; chi dorme,
si svegli; — si svegli almeno al fragore delle mine d'un impero
decrepito, e si sottragga a tempo per non essere schiacciato sotto il
suo peso ».
La questione dell'Istria, di Trieste, di Trento, delle altre terre
oppresse dall'Austria, appassionava in tutta Italia la pubblica
opinione, i giornali dedicavano ad essa scritti pieni d'ansiosa
passione, gli uomini più in vista ne discutevano pubblicamente. Terenzio
Mamiani era per la pronta azione, «a un buon nerbo di milizie, — egli
scriveva, — scendendo dal Cadorino e dal Friulano, dee spingersi con
ardire e prestezza ad occupare Trieste, e porgere aiuto ai partigiani e
fautori della causa italiana che sono pure colà...
In questa sollecita occupazione di tutta l'Istria raccogliesi, al parer
mio, un punto principalissimo della liberazione d'Italia e un gran pegno
della sicurezza avvenire; e però è necessità di ciò procurare, innanzi
che il governo nuovo viennese possa riaversi e le sue Provincie
tedesche, paghe delle libertà e guarentigie ottenute, risòlvano di
sostenere con ogni mezzo la ruinante casa
di Asburgo ».
Il Mamiani dava tutto il suo entusiasmo alla grande causa. Un altro
giorno scriveva queste parole, che dopo tanti anni conservano tutta la
loro ardente attualità :
« Mai non m'è rincresciuto così duramente com'oggi di non possedere
autorità di parole ne arte infiammativa dì stile; imperocché io
l'adopererei tutta quanta a persuadere i giovani nostri crociati
d'accorrere sull'Isonzo e varcarlo coraggiosi, riconquistando a prezzo
anche di molto sangue le antiche e naturali frontiere d'Italia. All'Alpi
Giulie, griderei loro, all'Alpi Giulie, o militi!
— là su tutte le cime piantate il vessillo italiano; e non tollerate,
per Dio, che attraverso alle nostre Provincie, sulle nostre stesse
marine, non diviso da monti e da fiumi, non impedito, non trattenuto da
fortezze e bastie, possa dimorare il nemico eterno d'Italia, e con
quiete e con agio ricominciare le offese e perpetuar le minacele... »
Intanto il Dall'Ongaro chiedeva a Milano armi per l'Istria e la
Dalmazia.
L'Austria ascoltava: e cercava di correre ai ripari. La Confederazione
germanica le appariva sempre come un usbergo, e ad essa tentava
d'aggregar sempre nuove parti delle indomabili provincie italiane. In
pari tempo faceva ipocritamente accarezzare dalla stampa ufficiale i
sentimenti d'italianità di quelle terre.
« Male servirono, — faceva scrivere il governo austriaco
nell'Osservatore Triestino, — e male servono all'Austria quelli che
scrivono e parlano dell'Istria, come non fosse provincia italiana; si
studiano di reprimere in essa simpatie naturali, necessarie, santissime.
Questi tali noi chiamiamo ignoranti e maligni... »
Ma la subdola condiscendenza della stampa ufficiale non ingannava
nessuno. E le associazioni triestine protestavano pubblicamente contro
quanto si tramava nell'assemblea di Francoforte.
Intanto la flotta sarda faceva nuove apparizioni lungo la costa
istriana, suscitando entusiasmo nelle popolazioni.
Il marchese Spinola scriveva a Torino al ministro della guerra,
consigliando di bloccar Trieste. E l'ammiraglio Albini, comandante della
squadra, annunziava d'essere stato accolto a Pirano da grida di Viva
l'Italia! L'Austria non osava reagire apertamente; ma il Console
sardo a Trieste scriveva al suo governo queste significative parole :
« Chi ha il potere qui, continuando le gloriose traccie della polizia
austriaca in Italia, vuole a qualunque costo denigrare e distruggere, —
se pur è possibile, — tanto in Trieste che nelle vicine provincie del
Friuli e dell'Istria, il partito italiano. »
E per arrivare ai suoi fini, il governo di Vienna proclamò a Trieste
quella giurisdizione di sangue, che si chiama giudizio statario,
mentre con segreti proclami sobillava gli slavi dell'Istria contro gli
italiani.
I deputati istriani risposero con un fiero proclama, in cui solennemente
affermavano :
« L'Istria è essenzialmente italiana per lingua, per costumanze, per
memorie, per religione, per simpatia, per monumenti e per posizione
geografica.
« L'Istria fino dal decimoterzo secolo cominciò a dedicarsi
volontariamente al governo italiano della Repubblica Veneta.
« Nessuna città e borgo dell'Istria, sia dell'interno che della
costa, parla o scrive altro che l'italiano ».
Tutti i Comuni dell'Istria si associarono alla protesta dei deputati. E
i goriziani mandavano agli udinesi un proclama in cui chiedevano amore e
fratellanza, dicendosi
« per il cielo e per il suolo, per la lingua e per il costume, italiani
di mente e di cuore ».
Ma la protesta doveva arrivare anche più in alto.
Nel primo Parlamento austriaco, il deputato di Trieste dichiarò d'essere
un deputato d'Italia. E il Governo provvisorio di Lombardia fece chieder
conto al potere esecutivo germanico delle sue velleità su Trieste, sul
Trentino e sull'Istria.
Il Pensiero Italiano di Genova rincalzava con queste parole : «
La Dieta germanica si mostri generosa ed onesta nella sua rispettabile
nazionalità, e non pretenda che i territori che naturalmente sono il
complemento d'Italia, dove domina assolutamente l'elemento italiano come
il Tirolo di qua dai monti, come il Triestino, facciano parte di
Germania. Avrebbe contro di sé in tale pretesa la ragion naturale, il
diritto sacro d'ogni nazione, il gius delle genti ».
Un deputato istriano, il Facchinetti, pubblicava queste altere parole :
« L'Istria non vorrà certo dichiarare la propria italiana nazionalità in
modi violenti; ma non vorrà nasconderla per far piacere a nazioni non
sue; non vorrà nasconderla per una viltà, ignobile in ogni tempo, oscena
nel nostro : vorrà almeno protestarla come un sacro diritto che le viene
da Dio : come una delle più sacre e terribili prerogative dei popoli :
vorrà smascherare la pericolosa ipocrisia di quei recenti forestieri
(peste dell'Istria) che gridano con voci isolate e innominate che
l'Istria sia slava, e che per far intendere questo loro grido egoistico
hanno bisogno di pronunciarlo in lingua italiana...
« Nessun florido stato materiale può compensare ad un popolo la perdita
o l'adulteramento del proprio spirito di nazione. Nessun popolo potrà
anche giungere al più possilbile florido stato materiale, quando il suo
genio le la sua lingua, primi distintivi delle nazioni, non si secondino
con mezzi adattati. »
Una grande voce si levò allora in difesa delle antiche Provincie di
Venezia : quella di Daniele Manin. In un suo scritto diplomatico a Lord
Palmerston egli affermava che a quelle terre, come alla stessa Venezia,
l'indipendenza era stata rapita con iniquità e con violenza.
L'Austria, — egli diceva, — le ha maltrattate, oppresse, umiliate,
violando solenni promesse.. Il giogo austriaco vi è detestato; vi domina
il sentimento vivace della nazionalità italiana.
A Trieste, intanto, fervevano polemiche violente, mentre il popolo si
sollevava per le vie. La Gazzetta di Trieste, rivolgendosi ai
tedeschi che volevano spadroneggiare, scriveva audacemente :
« Se la vicenda della sorte e dell'armi vi costringa domani a cercare il
cammino dei villaggi materni, dite, qualcosa, che non sia nostra, ci
avrete lasciato? Il più che duri, sarà il giallo e il nero, di cui
furono da' primi anni contristati i nostri occhi, usi e desiosi in
perpetuo del vivo verde de' nostri colli, e de' candori e de' rossori
del nostro ineffabile cielo ».
L'ora era all'audacia. Avendo uno scriba dedicato ai triestini, istriani
e dalmati un suo libro sulla guerra austriaca in Italia, il deputato
Facchinetti respingeva quella dedica, soggiungendo :
« Bisogna aver l'anima ben chiusa ad ogni nobile sentimento per dedicare
ad italiani un libro, il cui profitto pecuniario dovrà in parte essere
regalato all'esercito austriaco, che combatte contro i loro confratelli
italiani!
« Questa dedica sarebbe un'ironia gettata sul cuore sanguinoso di chi,
non potendo far più, ama la propria nazione dolorando e sperando per
lei? »
L'audacia cresceva ancora. Si pensò d'impossessarsi della flotta e
d'andare in soccorso di Venezia. Un manifesto segreto, diffuso a
Trieste, incitava ; « Suvvia, Triestini! L'ora è suonata per la nostra
liberazione. Facciamo causa comune coll'Italia. Stendiamo una mano a
Venezia. Essa è generosa ed ha compreso la sua alta missione. Mandiamole
la flotta ch'era cosa sua; essa se ne servirà per soccorrerci, e
sottrarci dalle minaccie e dalla vendetta degli oppressori. Avremo
libere con lei le comunicazioni e i commerci. Così ci faremo amica anche
l'Istria : quelle coste hanno sentimenti italiani. Aiutiamoci a vicenda,
e saremo forti e trionferemo. A Venezia dunque la nostra flotta! »
A Torino, intanto, i Bollettini dell'emigrazione registravano il
movimento che si accentuava :
« L'idea italiana
divampa più vivida, quanto più è combattuta, e gli uomini che parlano la
nostra lingua vogliono la loro parte nell'eredità dei dolori e delle
speranze nostre. Gorizia, Trieste, l'Istria, persino il Tirolo, persino
il litorale dalmato reclamano la nazionalità italiana. »
E a Venezia si formava la legione dalmato-istriana, proclamando la
necessità di debellare la tirannide austriaca.
E Mazzini affermava : « La guerra italiana non deve, non può cessare
finche una sola insegna straniera sventoli al di qua del cerchio
superiore dell'Alpi dalle Bocche del Varo a Fiume ». E Guglielmo Pepe
proclamava il sentimento italiano, che vibrava da Trieste fino alla
Dalmazia.
Ma anche nel Trentino il '48 ebbe un'eco possente : e vi suscitò epici
episodi.
Il 19 marzo Trento si sollevò, inalberando, — narra Jacopo Baisini, — la
bandiera tricolore ed acclamando all'unione del Trentino con quelle
italiane provincie. Accolta a fucilate da un picchetto di guardie di
finanza, la folla montata in furore irrompe negli uffici daziari e li
devasta; poi, ingrossando sempre, si porta sotto le finestre del palazzo
municipale. Invitata a sciogliersi, protesta che non si moverà fino a
che una Commissione non parta alla volta di Vienna, per domandare
l'immediata separazione dal Tirolo e l'aggregazione al Lombardo-Veneto.
Avuta dal Municipio promessa che il voto popolare sarebbe tosto messo in
atto, la folla si disperde, la città torna tranquilla; e alla sera
apparisce splendidamente illuminata.
L'esempio di Trento si propaga come una fiamma. Ala, Rovereto, Riva,
città e paesi inalberano il tricolore.
Da Venezia, Niccolò Tommaseo manda ai trentini un proclama in cui è
detto : « A voi, italiani veri e per lingua e per progenie, e per
ingegno e per animo; a voi volgiamo il fraterno saluto. Non è a noi
bisogno incitare il vostro coraggio ne la vostra umanità consigliare.
Saprete combattere, saprete essere generosi col vinto. Deh! venga il
giorno che siam tutti uniti così di istituzioni come
siamo di cuore ».
Il generale Allemandi, in procinto di muovere da Brescia accapo dei
volontari, indirizza ai fratelli trentini un proclama in cui dice : a
Bravi Trentini! la nostra patria, questa grande famiglia che ora dà al
mondo lo spettacolo della sua forza e potenza sorgendo in massa per
scacciare l'odiato straniero, viene ad offrirvi dei soccorsi per
rendervi liberi, indipendenti e formare con essa un'unione
indissolubile. Unitevi dunque a noi, valorosi giovani Trentini,
riprendete la vostra terribile carabina ed entrate nei nostri ranghi,
per fulminare con noi dalle vostre montagne il barbaro oppressore ed
esterminarlo »...
Vien proclamato lo stato d'assedio; si eseguiscono arresti da tutte le
parti. I volontari si scontrano a Castel Toblino con le truppe
austriache...
Tutti i volontari fatti prigionieri vengono barbaramente fucilati.
Proveniente da Trieste, arriva a Trento il poeta trentino Gazzoletti.
Portava seco un piano di Trieste, su cui erano segnati i punti meglio
adatti ad uno sbarco della flotta sarda.
Arrestato in seguito a denunzia, riebbe la libertà mercè
l'interessamento d'un commissario ungherese, che gli distrusse le carte
e gli celò le armi. Mandato ad Innsbruck, ottenne un salvacondotto per
tornare a Trieste per la via di Vienna.
Ma il Gazzoletti mutò itinerario, recandosi a Milano; e poco dopo,
unitamente agli altri trentini Angiolo Ducati, Sigismondo Manci,
Giovanni Danielli, Lorenzo Pesti e Giambattista Zanella, andava a
Valleggio a presentare a Carlo Alberto l'indirizzo col quale i loro
conterranei aderivano alla fusione col Piemonte. Anche i trentini
Vittore Ricci e Giovanni Rizzi perorarono in quell'anno la causa del
Trentino presso il Re.
La Dalmazia, nel '48, ebbe pure moti vivaci. A Traù la folla cacciò il
pretore, che riassumeva in se l'autorità austriaca. A Spalato il popolo
insorto liberò dal carcere il grande patriota Antonio Bajamonti, il
leone della Dalmazia...
L'Istria pensò allora di affermare la sua fede nazionale con un
plebiscito. Il Municipio di Capodistria prese l'iniziativa, e tutti i
Comuni risposero con magnifiche affermazioni d'italianità. Il governo
austriaco rispose annullando certe nomine di podestà istriani, col
pretesto che quelle cariche non potevano essere affidate a uomini di
principi contrari all'Austria. Poi fu proclamato in tutta la Venezia
Giulia lo stato di guerra; la notificazione, firmata dal maresciallo
Gyulai, sospendeva tutte le garanzie costituzionali...
Era il 16 marzo 1849. Le ostilità stavano per ricominciare tra l'Austria
e la Sardegna.
Il fato ebbe il suo corso; pochi giorni più tardi le speranze di tutti
gli italiani naufragavano a Novara.
(Storia della
Grande Guerra d'Italia, Milano 1920 ca. - Isidoro Reggio)